SOMMARIO:
EDITORIALE
1. IL PERIODO PRE-ELETTORALE
– Se non si può parlare né scrivere, si può almeno riflettere
2. LE ELEZIONI
– Le lingue si sciolgono
EDITORIALE
Il risultato delle elezioni presidenziali rwandesi del 9 agosto che assegna al Presidente uscente, Paul Kagamé, una schiacciante vittoria con un punteggio stalinista (il 93% dei voti) era prevedibile, visto lo svolgimento della campagna elettorale.
Difatti, prima di queste presidenziali, si è assistito ad un’ondata di omicidi, arresti, sequestri, imprigionamenti ed assegnazioni a residenza vigilata degli oppositori politici candidati alle presidenziali. Come sottolineato dagli osservatori del Commonwealth nel loro rapporto preliminare, queste elezioni presidenziali non sono state trasparenti, perché non ci sono state voci critiche, essendo stata la vera opposizione ostacolata sin dall’inizio e i mezzi di comunicazione imbavagliati. Gli altri tre candidati che si sono presentati contro Paul Kagame possono essere considerare come degli “accompagnatori” con il compito di permettergli di legittimare, per quanto possibile, la sua rielezione.
In Rwanda, assistiamo sempre più ad una enorme restrizione dei diritti civili e politici. Il modo di gestione del paese resta autocratico e totalitario. Le incessanti violazioni dei diritti fondamentali della persona umana, come la libertà di opinione e di associazione e il soffocamento di ogni velleità di opposizione politica, mediante l’imprigionamento o l’eliminazione fisica degli oppositori reali o supposti, sono elementi che si sono ormai consolidati e intensificati nelle pratiche correnti del regime rwandese attuale.
Ad un visitatore occasionale, il Rwanda appare come un paese normale, dove i diritti dell’uomo sono più o meno rispettati. Tuttavia, il governo rwandese esercita sul paese uno strettissimo controllo, più che in qualsiasi altro regime africano: è il solo regime in tutta l’Africa che cerca di controllare non solo ciò che i suoi cittadini fanno, ma anche ciò che pensano. Quanto soffra il popolo rwandese, nessuno lo sa, perché in Rwanda nessuno parla: nessuno parla perché “nessuno” ha il diritto di parlare.
Il popolo rwandese, incluso ogni etnia, regione e ideologia, è vittima della violenza politica del FPR e del suo presidente, Paul Kagame. Questo popolo che aspira alla pace e alla tranquillità, ha il diritto di contare sulla solidarietà della Comunità Internazionale.
L’Unione Europea e altri finanziatori del Rwanda come gli Stati Uniti d’America, il Regno Unito, il Canada e la Repubblica Sud africana, detengono indiscutibilmente le chiavi di un’apertura politica. Potrebbero, se lo volessero, usare la loro influenza economica e politica per spingere il regime di Kigali alla ragione e al dialogo con la sua opposizione interna o in esilio. Essi hanno i mezzi per costringere il regime di Kagame a ritirare le sue truppe dalla RDCongo e per imporre una soluzione concreta alle preoccupazioni di sicurezza del Rwanda. Il dialogo politico proposto aumenterebbe senz’altro le probabilità di una soluzione pacifica e duratura al conflitto rwandese, rinunciando definitivamente ad ogni logica di guerra.
E’ per questo che chiediamo alla società civile di questi paesi di fare tutto ciò che è in suo potere per portare i governi rispettivi a ri-orientare la loro cooperazione col regime rwandese, in vista del rispetto dei diritti umani e dell’immediata cessazione di ogni terrorismo di stato. Si potrebbe anche prevedere delle sanzioni contro i dirigenti rwandesi qualora non si conformassero alle esigenze democratiche.
Tali misure hanno già dato prova di efficacia in altre situazioni, come quella della Liberia e sono attuate nei confronti di altri regimi meno totalitari, come quello del Madagascar. Perché il Rwanda dovrebbe fare eccezione?
1. IL PERIODO PRE-ELETTORALE
Il 20 luglio, in un messaggio inviato al popolo rwandese a proposito della campagna elettorale in corso, Victoire Ingabire Umuhoza, presidentessa del partito di opposizione FDU-Inkingi, afferma che, “benché tutto sia già deciso in anticipo, la dittatura fa finta di consultare il popolo. Il suo obiettivo estremo è quello di mantenere il potere che ha conquistato e difeso con le armi. Tale parodia elettorale non è che un trucco per ingannare l’opinione internazionale“.
A proposito degli obiettivi di base del suo partito, la Ingabire dichiara: “Vogliamo sradicare la povertà, la fame, il nepotismo, la corruzione e il clientelismo che caratterizzano il regime del FPR. Vogliamo metter fine alle disuguaglianze sociali, alla discriminazione e alla confisca dei beni o delle terre. Combattiamo la dittatura, l’ingiustizia generalizzata, l’iniquità dei Macaca e i lavori di interesse generale inflitti senza processi equi“.
Ella riafferma il carattere nazionale del progetto del suo partito: “La nostra visione di un popolo riconciliato implica il dovere della memoria, il rispetto dell’altro, un dialogo nazionale, la protezione delle minoranze e l’uguaglianza delle opportunità. Lanciamo un appello per uno slancio di solidarietà nei confronti delle vittime e dei sopravvissuti del genocidio e dei crimini contro l’umanità. Incoraggiamo i membri dell’esercito, della polizia nazionale e dei servizi di sicurezza a dare sempre alla loro vocazione professionale un carattere nazionale e a non implicarsi mai in politiche di parte. Il nostro appello si rivolge anche ai mezzi di comunicazione pubblici, ai membri dell’amministrazione centrale e provinciale e della magistratura“.
A proposito del clima pre-elettorale, la Ingabire è categorica: “L’effervescenza della repressione politica in corso, gli omicidi di personalità politiche e di giornalisti, gli arresti e le torture di leader politici e giornalisti, la chiusura di giornali, gli attentati e le minacce di morte contro i membri dell’opposizione, non permettono la tenuta di elezioni credibili. E’ per questo che abbiamo chiesto, in vano, la posticipazione delle elezioni presidenziali che avrebbe permesso una maggiore trasparenza nella loro preparazione e un vero dibattito politico. Nelle condizioni attuali, non accetteremo i risultati di queste elezioni presidenziali, perché non rappresenteranno l’esercizio democratico che i Rwandesi si aspettavano per diritto. Non si tratta invece che di una semplice mascherata“.
Il 24 luglio, due membri dell’opposizione sono stati arrestati dalla polizia. I due, la cui identità non è stata resa pubblica dalle forze dell’ordine, sono accusati di presunta organizzazione di una manifestazione non autorizzata per il lunedì 26 luglio. Secondo Victoire Ingabire Umuhoza, leader delle Fdu-Inkingi, si tratterebbe di due membri del suo partito, Martin Ntavuka e Anastase Hagabimana. Secondo il portavoce della polizia, Eric Kayiranga, “le due persone trasportavano nel loro veicolo degli striscioni e delle magliette su cui erano iscritti dei messaggi che incitano alla divisione“.
Il 26 luglio, presso l’Alta corte della Repubblica a Kigali, è iniziato il processo di Deo Mushayidi, membro dell’opposizione e imputato di “reclutare” una ribellione per destabilizzare il regime del presidente Paul Kagame. “Il mio cliente è perseguito per collaborazione con un’organizzazione terroristica, reclutamento di un esercito diverso da quello regolare, propagazione di voci che incitano alla disobbedienza civile, uso di un falso passaporto, ideologia di genocidio e atti divisionisti“, ha indicato Protais Mutembe, uno dei suoi avvocati. “Il procuratore ha presentato tutta una serie di prove che abbiamo respinto“, ha aggiunto l’avvocato, precisando che la seguente udienza era stata fissata per il 23 agosto. Mushayidi respinge tutte le accuse, riconoscendo solamente che, dal 2006, viaggiava con un passaporto burundese.
Presidente del Patto di Difesa del Popolo (PDP, partito d’opposizione in esilio), tutsi ed ex membro del Fronte Patriottico Rwandese (FPR), il partito del presidente Kagame, Mushayidi imputerebbe all’attuale regime la responsabilità dello scoppio del genocidio del 1994 e sosterrebbe che l’attuale potere è concentrato tra le mani di persone rientrate dall’Uganda dopo il genocidio. Nella sua difesa, egli ha inoltre spiegato che non è un crimine implicare l’Esercito Patriottico Rwandese (APR) nell’attentato contro l’aereo del presidente Habyarimana, il 6 aprile 1994.
Il 2 agosto, l’organizzazione per la difesa della libertà di stampa Reporter senza frontiere (RSF) ha denunciato la sospensione di una trentina di organi di comunicazione, poco prima delle elezioni presidenziali del 9 agosto. In un comunicato stampa diffuso da RSF, si può leggere tra l’altro:
“Ad una settimana dalle elezioni presidenziali, il potere rwandese dimostra, in modo flagrante, il suo rifiuto di sottoporsi al gioco democratico. Dopo l’arresto di giornalisti, la chiusura di mezzi di comunicazione, l’assassinio di un altro giornalista, le intimidazioni nei confronti della stampa si intensificano all’approssimarsi delle elezioni. L’ultima iniziativa liberticida risale al 26 luglio 2010, quando l’Alto Consiglio per i mezzi di comunicazione ha annunciato la sua decisione di sospendere una trentina di organi di stampa.
In un primo comunicato, Patrice Mulama, segretario esecutivo dell’Alto Consiglio dei media aveva pubblicato la lista di 19 radio e 22 giornali riconosciuti dall’autorità competente. La legge del 12 agosto 2009 sui mezzi di comunicazione stipula “le condizioni di diffusione e di emissione. In particolare, l’articolo 96 prevede che gli organismi della stampa e degli audiovisivi debbano, entro tre mesi, inviare all’Alto Consiglio dei medi,a una domanda di autorizzazione, prevista dall’articolo 24. Il 28 luglio, l’Alto Consiglio dei media ha diffuso un nuovo comunicato, affinché le forze di sicurezza intervengano per chiudere le redazioni dei giornali che si trovassero in una situazione di illegalità e interrompere le emissioni delle radio che si trovassero nelle stesse condizioni.
I più grandi giornali del paese, come Umuseso, Umuvugizi, Umurabayo e varie radio, tra cui Voice of Africa Rwanda (la radio dei musulmani) e Voice of America, non possono più lavorare. Secondo il segretario esecutivo, i giornali non potranno più uscire finché non si saranno conformati alla legge. Le radio hanno fino alla fine settimana per fornire i documenti necessari.
Prese in piena campagna elettorale e a pochi giorni dalle elezioni, le misure dell’Alto Consiglio per i mezzi di comunicazione appaiono più che sospette. Sembrano destinate ad impedire alla stampa e ai giornalisti di svolgere il loro ruolo di osservatori indipendenti e imparziali del processo elettorale stesso. Come possono esserci delle elezioni normali senza una stampa libera, senza la possibilità di accedere ad una informazione indipendente a parte dell’elettorato, senza potere seguire un dibattito contraddittorio? In realtà, non si tratta di elezioni presidenziali aperte e trasparenti, ma di un’orchestrazione per confermare Paul Kagame nelle sue funzioni“.
Il 5 agosto, le FDU-Inkingi dichiarano in un comunicato stampa che, dopo “aver perso tre importanti occasioni per poter intervenire: 1. la prevenzione e l’arresto del genocidio rwandese nel 1994, 2. la protezione dei rifugiati rwandesi, vittime di crimini contro l’umanità in Repubblica Democratica del Congo nel 1996-1997, 3. la condanna di presunti criminali colpevoli di atti di genocidio e crimini contro l’umanità commessi dalle due parti implicate nel dramma rwandese, sembra che, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 9 agosto, la Comunità Internazionale stia per perdere anche l’occasione decisiva dell’instaurazione della democrazia in Ruanda, non avendo dimostrato una posizione chiara e pubblica nei confronti della chiusura dello spazio politico all’opposizione e delle numerose vessazioni perpetrate contro di essa dal regime al potere”.
Secondo Sylvain Sibomana, Segretario generale del partito FDU-Inkingi e firmatario del comunicato, “la libertà e l’indipendenza della stampa privata sono diventate un vago ricordo, lasciando il posto alla sola stampa di parte. L’accesso ai mezzi della informazione pubblica è sistematicamente impedito ai partiti di opposizione. La pubblica amministrazione e il sistema giudiziario sono utilizzati per impedire all’opposizione di esercitare i suoi diritti politici, trascinandola in pratiche amministrative abusive e in processi giudiziari interminabili e costosi. Queste due istituzioni sono diventate i più potenti strumenti di oppressione politica.
Dal momento in cui le elezioni si svolgeranno in un clima di esclusione politica e di programmata liquidazione della democrazia da parte dell’attuale regime, le FDU INKINGI e i partiti di opposizione interpretano l’afono silenzio della Comunità Internazionale e il suo finanziamento delle elezioni come un tacito sostegno politico alla dittatura rwandese.
Le FDU INKINGI chiedono perciò alla comunità internazionale di esercitare tutta la pressione politica possibile sul governo rwandese per:
– posticipare le elezioni presidenziali previste per il 9 agosto 2010, affinché i partiti politici dell’opposizione possano parteciparvi con uguali possibilità,
– concedere la libertà di movimento, senza condizioni, a Victoire Ingabire Umuhoza, presidente delle FDU INKINGI e a tutti gli oppositori politici in carcere o in libertà vigilata,
– riconoscere la legalità delle FDU INKINGI e degli altri partiti politici dell’opposizione,
– pubblicare i primi risultati dell’inchiesta sull’assassinio di André Kagwa Rwisereka, vicepresidente del Partito Democratico dei Verdi.
Nel caso in cui il governo rwandese rifiutasse di accedere a queste richieste minimali, le FDU INKINGI chiedono alla Comunità Internazionale di non riconoscere i risultati che usciranno dalle elezioni presidenziali del 9 agosto”.
Secondo la Commissione elettorale rwandese, sono stati accreditati 1.394 osservatori elettorali, fra cui 214 internazionali, in rappresentanza dell’Unione Africana (UA), del Commonwealth, della francofonia e dei diplomatici residenti in Ruanda. L’Unione Europea (UE) non invierà nessun osservatore elettorale. Il suo rappresentante a Kigali, Michel Arrion, ha cercato di giustificare tale assenza per motivi economici, precisando che “il Rwanda non è tra i paesi prioritari. Inoltre, il bilancio preventivo dell’UE non prevede alcun finanziamento di tale missione”. Solo quattro esperti dell’UE, specializzati in questioni elettorali e giuridiche, assisteranno alle operazioni di voto e faranno solo un rapporto interno all’attenzione della Commissione e degli Stati membri, senza nessuno comunicato ufficiale.
Se non si può parlare né scrivere, si può almeno riflettere
Il 23 luglio, Emmanuel Hakizimana, presidente del Congresso rwandese del Canada, scrive:
“All’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 9 agosto, il regime di Kigali moltiplica gli omicidi, gli arresti, le incarcerazioni e altre forme di repressione. Tale repressione nei confronti dei membri dell’opposizione e dei giornalisti indipendenti è stata denunciata più volte dalle grandi organizzazioni per la difesa dei diritti della persona e della società civile, come Amnesty Internazionale, Human Rights Watch e Reporter Senza Frontiere. Alcune di loro hanno addirittura raccomandato ai finanziatori di sospendere il loro sostegno al regime di Kigali e di cessare il loro appoggio finanziario alle prossime elezioni presidenziali. Ciò che è inquietante, è l’assurdo silenzio dei finanziatori e governi occidentali alleati del regime di Kigali. La passività e il silenzio della comunità internazionale di fronte alle gravi violazioni dei diritti umani in Ruanda sono tanto più inquietanti, in quanto esse hanno già dimostrato nel passato le loro terribili conseguenze.
Di fatto, è il non intervento della comunità internazionale che ha permesso l’esecuzione del genocidio rwandese del 1994. È questa stessa passività che ha condotto allo sterminio di più di 5 milioni di persone nella Repubblica Democratica del Congo durante le guerre condotte dall’esercito di Paul Kagame nel 1996 e nel 1998. I governi occidentali hanno i mezzi per costringere Paul Kagame al cambiamento e negoziare con l’opposizione: sospendere il loro appoggio politico ed economico al suo regime, fino alla democratizzazione del Paese nel rispetto dei diritti umani. Ma vorranno accettare questa sfida o preferiranno aspettare altri drammi, per esprimere ancora una volta inutili rammarichi?”.
Il 27 luglio, Emmanuel Neretse e Gaspard Musabyimana scrivono:
“Dal 20 luglio 2010, chi regna sul Rwanda da quando l’ha conquistato militarmente nel 1994, il generale Paul Kagame, percorre il paese in lungo e in largo per farsi acclamare dalla folla mediante una messa in scena imperfettamente detta “campagna elettorale”. Sono stati promessi anche dei premi alle autorità locali che mobiliteranno più gente possibile. Così è la dittatura. I Rwandesi possono solo sottoporsi o scomparire. Così, dovunque Kagame passa, la popolazione “è invitata” a venire ad acclamarlo, tutte le attività si fermano e i ricalcitranti sono braccati dalla polizia politica onnipresente. Durante questo tempo, gli oppositori vengono arrestati e torturati, per avere osato esprimere il loro desiderio di democrazia. Il 25 luglio, per esempio, due collaboratori di Victoire Ingabire, membro dell’opposizione, sono stati arrestati presso il suo domicilio, perché indossavano delle magliette con su scritto: “turashaka demokarasi isesuye”, che vuol dire: “Vogliamo una vera democrazia”. Sì, ancora in questo 21° secolo, nel Rwanda di Paul Kagame, ci si può far arrestare per aver parlato di democrazia.
Ma i Rwandesi non sono stupidi. Pur acclamando Paul Kagame tutto il giorno, obbligati dai membri dirigenti del partito-stato FPR, non ignorano che è questo stesso Kagame che è alla base delle loro disgrazie. Non hanno dimenticato che è Kagame che ha scatenato la guerra nell’ottobre 1990.
I Rwandesi sanno che durante i quasi 4 anni che è durata la guerra, gli uomini di Kagame hanno massacrato migliaia di pacifici contadini indifesi e costretto alla fuga più di un milione di abitanti. Ogni Rwandese sa che è lo stesso Kagame che ha trascinato il paese nell’orrore, assassinando il presidente Habyarimana il 6 aprile 1994. Anche se obbligata ad acclamare Kagame, la popolazione sa che è ancora lui che ha ordinato l’assalto al campo degli sfollati di Kibeho il 22 aprile 1995, causando più di 8000 morti, principalmente donne e bambini. I Rwandesi ricordano che l’uomo che acclamano ha fatto bombardare i campi dei rifugiati in Zaire, dando loro la caccia nelle foreste congolesi e lasciando migliaia di morti sul suo passaggio.
La domanda che ci si può porre è quella di sapere perché Kagame ha bisogno di farsi plebiscitare dalle urne per continuare a regnare su un paese che ha conquistato con le armi nel 1994. Visibilmente, si tratta di una mascherata elettorale destinata esclusivamente al consumo esterno. Anche se il regime del FPR, attualmente al potere, crede di avere domato i Rwandesi, trascinandoli in massa ai comizi di Kagame, questo popolo ha più che mai fame e sete di democrazia e presto o tardi sarà saziato e dissetato“.
Secondo François Janne D’Othée che conosce bene la situazione rwandese, “le elezioni presidenziali del 9 agosto si concluderanno quasi sicuramente con un secondo mandato di Paul Kagame, campione dello sviluppo per alcuni e spietato dittatore per altri.
L’ex capo ribelle non ha nulla da temere. I suoi oppositori sono in prigione, in esilio o, come Victoire Ingabire, in residenza sorvegliata, mentre i tre concorrenti dichiarati non sono che delle comparse presentate dal sistema per dare l’illusione di un’elezione democratica.
La rielezione, per sette anni, di Kagame sarà dovuta in gran parte alla paura. Quella della maggioranza della popolazione, imbrigliata in un sistema FPR che controlla il paese fino alla più remota collina. I comizi elettorali di Kagame a cui partecipano folle gigantesche (150 000 persone a Byumba il 2 agosto) non devono illudere. “Le persone sono obbligate ad assistervi e vi sono portate con dei camion dello stato, rivela un’oppositrice tutsi. Vi si recano come ogni ultimo sabato del mese vanno all’umuganda (lavori collettivi obbligatori). Al ritorno nel loro villaggio dopo le elezioni, dovranno presentare la timbratura che dimostri che hanno votato”.
L’attuale campagna elettorale è stata marcata da gravi incidenti, ciò che dimostra che queste seconde elezione post-genocidio si svolgono in un clima più teso che nel 2003: attentati, assassinio di un giornalista e di un membro dell’opposizione, tentativo di assassinio di un generale in esilio…. la stampa imbavagliata, i membri dell’opposizione arrestati o minacciati e la “ideologia genocidaria”, brandita come pretesto per eliminare chi osa criticare.
Perché tanta nervosità, quando Kagame è sicuro della sua vittoria? Una delle principali ragioni è che il discorso dell’opposizione non è più limitato agli ambienti dell’esilio, ma risuona ormai nel cuore stesso della capitale rwandese.
Sembra che l’opposizione hutu sia diventata meno minacciosa per il regime che le rivalità in seno al potere tutsi stesso, vittima di certe divisioni di clan che datano già da molto tempo. Non passa più una settimana senza che un ufficiale di alto rango o un responsabile di partito sia arrestato o trasferito. Appena un individuo sembra dimostrare un certo ascendente, diventa sospetto. Anche se, in apparenza, tutto sembra calmo, la paranoia è onnipresente. Il Rwanda è come il lago Kivu: calmo in superficie, ma con giacimenti di gas pronti ad esplodere in qualsiasi momento.
Il presidente Kagame stesso è un personaggio dal doppio volto. Da un lato, è il visionario che ha dato al Paese un impulso unanimemente riconosciuto dai suoi sostenitori. Ma Kagame presenta anche un’altra faccia: il dittatore che impone il suo modello di società senza la minima concertazione, dimenticando completamente che i contadini non si nutrono di Internet; il capo che disprezza con una rara arroganza coloro che osano mettere in discussione il suo potere; il presidente glaciale che si arrabbia quando si osa abbordare la questione dei massacri commessi dal FPR nel 1994 e che non sono mai stati presi in considerazione dal Tribunale Internazionale di Arusha, tuttavia competente in materia.
Poco critici, gli Europei che trascinano come una palla ai piedi la loro passività durante il genocidio del 1994, collaborano mano nella mano col regime. Certi ambasciatori partecipano addirittura alla campagna di discredito dell’opposizione, affermando che non c’è alternativa a Kagame.
Curiosamente, l’UE non manderà alcuna missione di osservatori elettorali, quando ne ha appena inviato una in Burundi. “Abbiamo dovuto fare delle scelte”, si afferma. Nel 2003, gli osservatori avevano rilevato varie irregolarità, ma Louis Michel, allora ministro degli Affari Esteri, le aveva sottaciute senza battere ciglio. Nel 2008, certe fonti hanno riportato che il capo della missione di osservazione, un britannico omosessuale, avrebbe assunto uno strano comportamento: una edulcorazione del rapporto di valutazione in cambio di una mitigazione di un progetto di legge sulla repressione dell’omosessualità…
Oggi, il vento sta cambiando direzione. L’UE si è detta preoccupata per il corso degli avvenimenti in Rwanda, anche se non è ancora arrivata ad adottare sanzioni finanziarie. Solo questo tipo di pressione può essere efficace nei confronti di un regime che dipende dall’aiuto esterno per il 60 %. Gli Occidentali dovranno comprendere che volere sacrificare le libertà democratiche sull’altare di uno sviluppo che favorisce solo il regime al potere, non si fa che ripetere gli errori del passato”.
Il giornalista Laurent d’Ersu descrive il clima pre-elettorale nei seguenti termini:
“Sedici anni dopo il genocidio, Paul Kagame continua a dirigere il Rwanda con mano di ferro. Il potere può decretare la sostituzione del francese con l’inglese come lingua di insegnamento, regionalizzare le culture (tal regione produrrà del mais, tal altra del grano), o vietare i sacchetti di plastica per preservare l’ambiente. E il paese si sottomette, perché il FPR, vero partito-stato, dispone di molteplici ramificazioni fino al più piccolo quartiere o l’ultima collina e non esita a ricorrere alla coercizione.
“In Ruanda, il problema è la paura. Alle donne si chiede di spiare i loro mariti, agli uomini si esige di fare rapporto sulle loro mogli, e se uno dei due tradisce un segreto, guai a lui”, afferma una madre di famiglia a Kigali. Ogni frangia della società è organizzata secondo questo sistema estremamente elaborato. I funzionari dello Stato sono obbligati a collaborare.
Questi ultimi sono stati costretti a versare “benevolmente” un terzo del loro stipendio al FPR, per contribuire al finanziamento della campagna elettorale. Nelle città, dei gruppi speciali del FPR hanno controllato, liste in mano, che ogni membro di tutte le corporazioni abbia versato la sua quota. E nei quartieri e villaggi, l’assistenza al comizio elettorale del presidente Kagame era obbligatoria, anche se ciò implicava delle ore di cammino.
A Kigali, alcuni quartieri sono stati letteralmente occupati per ore intere dall’esercito: chiunque vi si trovasse non poteva uscirne e doveva recarsi obbligatoriamente al comizio elettorale del presidente.
Risultato: partecipazione, talvolta, di oltre 100 000 persone ai comizi di Paul Kagame, ma anche un’atmosfera tesa, contrassegnata da vari omicidi a connotazione politica e un’assenza totale di pluralismo. “Nel 2003, c’era almeno un candidato dell’opposizione. Questa volta, le elezioni si svolgono senza sfidanti, nell’onnipresenza della polizia, sullo sfondo di assassinii politici e detenzioni arbitrarie”, afferma il responsabile di una ONG rwandese.
Sotto l’intensa sorveglianza di un regime autoritario che prona uno sviluppo a marcia forzata, l’economia formale è nelle mani di un pugno di persone legate al regime e che monopolizzano i mercati pubblici e abusano di una recente legge che facilita le espropriazioni. Uno dei segreti del successo economico rwandese è lo sfruttamento illegale, da quindici anni, delle ricchezze minerarie dell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), per un valore complessivo di miliardi di euro. Ora che la campagna contro i “minerali del sangue” si fa più intensa, “il regime è costretto a chiarire certe sue attività in RDCongo e ciò provocherà malcontento al suo inteno”, stima un esperto internazionale“.
2. LE ELEZIONI
L’11 agosto, la Commissione elettorale nazionale (NEC) ha annunciato che il capo dello stato uscente Paul Kagme ha ottenuto 4.638.560 voti a suo favore, ossia il 93,08% dei voti espressi. Gli altri tre candidati, Jean Damascene Ntawukuriryayo del Partito sociale democratico (PSD), Prosper Higiro del Partito Liberale (PL) e Alvera Mukabaramba del PPC, hanno ottenuto rispettivamente il 5,15%, l’1,37% e lo 0,4% dei suffragi. Secondo i risultati completi della NEC relativi ai 30 distretti del paese, il tasso di partecipazione ha raggiunto il 97,51%. Secondo risultati parziali relativi al voto dei residenti all’estero, Paul Kagame avrebbe ottenuto il 96,7% dei voti.
L’11 agosto, verso le19H00 (17H00 GMT), una bomba è esplosa in centro città a Kigali, non molto lontano dalla stazione di bus e taxi. Sei persone sono state uccise e altre decine ferite. Era la sera della proclamazione dei risultati delle elezioni presidenziali. Nessuno ha rivendicato l’attacco, ma la polizia ha arrestato almeno tre persone sospettate di essere implicate nell’attacco.
Il 12 agosto, in un comunicato, Victoire Ingabire, presidente delle FDU, ha “chiesto alla Comunità Internazionale, i partner bilaterali e i donatori di non accettare i risultati di una simile mascherata elettorale”. “Riconoscere i risultati di una mascherata elettorale sarebbe come riconoscere la violenza come mezzo per accedere al potere e mantenerlo”, dichiara la Ingabire, secondo cui il presidente rieletto manca di “legittimità politica”. “Il popolo rwandese non può essere preso in ostaggio e privato dei suoi diritti politici e civili in nome di pretesi miracoli economici”, prosegue il comunicato, in cui si chiedono “nuove elezioni libere, eque e trasparenti”.
Anche il Partito Democratico Verde, non ancora riconosciuto legalmente, ha criticato lo svolgimento del processo elettorale. “Le elezioni sono state organizzate in modo tale che molti Rwandesi erano presi dalla paura”, scrive il presidente del partito, Frank Habineza, in un altro comunicato.
L’ex Primo Ministro Faustin Twagiramungu lancia la “Iniziativa del Sogno rwandese” e scrive:
“Più di tre secoli e mezzo fa il drammaturgo francese Pierre Corneille scriveva nel Cid: “Vincendo senza pericolo, si trionfa senza gloria”. Non è certo il presidente Kagame che potrebbe dimostrare il contrario. Dopo aver messo in prigione i suoi oppositori politici, assassinato il vicepresidente del Democratic Green Party, Ismaïl André Rwisereka e il giornalista Jean Léonard Rugambage, assegnato a residenza sorvegliata Victoire Ingabire Umuhoza, Kagame si è impegnato in una campagna elettorale formale con la partecipazione di PSD, PL e PPC, tre partiti detti di opposizione, ma in realtà suoi alleati fedeli e si è presentato, senza alcun timore né rimorso, a degli elettori traumatizzati dalla paura, per farsi rieleggere per un secondo mandato di sette anni. Senza una reale concorrenza, pertanto necessaria in una democrazia, il dittatore si è, ancora una volta, autoproclamato Presidente del Rwanda.
Condanno con energia e disgusto questa mascherata elettorale. Interpello la Comunità Internazionale, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti in particolare, che, senza batter ciglio, continuano a sostenere un criminale ricercato in seguito a due mandati di cattura internazionali emessi contro di lui, affinché tale criminale venga presentato alla giustizia internazionale per rispondere di gravi crimini di terrorismo internazionale e di non meno gravi crimini contro l’umanità.
Non accetto quella propaganda “sviluppista” del dittatore Paul Kagame e i fallaci elogi nei suoi riguardi, emessi da certi Occidentali di cui egli difende gli interessi a scapito degli interessi di tutti i popoli della regione.
Accettare i risultati di queste elezioni e celebrare la vittoria di un criminale sono un insulto alla democrazia, una consacrazione dell’impunità e un’ingiuria nei confronti del popolo rwandese.
Sono del parere che, in tali condizioni, l’avvento della democrazia è impossibile e che lo sviluppo economico tanto vantato sarà fragile e ambiguo in mancanza della realizzazione preliminare del sogno di ogni Rwandese:
1. mettere fine alla preoccupante questione dei rifugiati rwandesi sparsi nel mondo dal 1959 fino ad oggi e trovare una soluzione che possa permettere il loro ritorno in patria e il ricupero dei loro beni.
2. mettere fine ai conflitti di origine identitaria, pur conservando la nostra identità storica.
3. mettere fine al potere dittatoriale, affermare la libertà di espressione, garantire la libertà di scegliere i propri rappresentanti e stabilire un sistema democratico basato sulla condivisione del potere fra tutte le componenti della società.
4. mettere fine all’impunità.
Ecco “il Sogno rwandese”, “the Rwandan dream” che dovrebbe necessariamente realizzarsi prima di vantare i meriti di uno sviluppo artificiale che non è che un modo per mascherare le questioni fondamentali che preoccupano il popolo rwandese. È nostro dovere, e non il dovere dei finanziatori, trovare delle soluzioni a queste questioni.
È per questo che alcuni Rwandesi, i cui nomi saranno comunicati prossimamente, hanno deciso di creare un gruppo di pressione per la realizzazione del sogno rwandese. Tale gruppo si chiamerà: Rwandan Dream Initiative / Iniziativa del Sogno rwandese”.
Il capo della diplomazia dell’Unione Europea, Catherine Ashton e il commissario europeo per lo sviluppo, Andris Piebalgs, si sono dichiarati soddisfatti per la tenuta delle elezioni presidenziali, sottolineando però che “molti progressi restano ancora da fare” per assicurare le libertà fondamentali, incluso la libertà di espressione per i mezzi di comunicazione. “L’unione Europea è preoccupata per i gravi incidenti che hanno marcato il periodo pre-elettorale e chiede insistentemente alle autorità rwandesi che le inchieste e procedure giudiziarie relative a tali avvenimenti siano effettuate con trasparenza e rapidità”, hanno indicato i due responsabili europei in un comunicato congiunto. La Ashton e Piebalgs hanno inoltre chiesto con insistenza “una maggiore apertura dello spazio politico” e il rafforzamento del dibattito pubblico.
Anche la Casa Bianca ha espresso la sua soddisfazione per la tenuta delle elezioni presidenziali, ma anche le sue “inquietudini” sui “tristi avvenimenti” della campagna elettorale, fra cui “la sospensione di due giornali, l’espulsione di una specialista nella difesa dei diritti umani, l’interdizione fatta a due partiti di opposizione di prendere parte alle elezioni e l’arresto di giornalisti”. “La democrazia non consiste solo in organizzare delle elezioni. In democrazia, le Istituzioni dello Stato riflettono la volontà del popolo; le voci delle minoranze sono ascoltate e rispettate; i candidati si presentano alle elezioni con un loro proprio programma, senza subire minacce o intimidazioni; la libertà di espressione e di stampa è rispettata”, ha precisato il portavoce della Casa Bianca, Hammer, in un comunicato. “Il Rwanda ha fatto notevoli progressi”, ma “la sua stabilità e la sua prosperità non saranno possibili senza un dibattito politico allargato”, ha aggiunto Hammer, concludendo: “Abbiamo espresso le nostre inquietudini al governo del Rwanda e speriamo che le autorità prenderanno le misure adeguate per una maggiore democrazia nell’esercizio del potere, rispettando le opinioni dell’opposizione”.
Le lingue si sciolgono
“Nessun sfidante di Kagame costituiva una minaccia e ai veri oppositori è stato impedito di presentarsi“, ha commentato Carina Tertsakian, ricercatrice dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani Human Rights Watch (HRW).
Gli osservatori elettorali del Commonwealth hanno deplorato “una mancanza di voci critiche”. Secondo un comunicato trasmesso alla stampa, “la campagna elettorale è stata abbastanza attiva, ma è stata dominata dal partito più importante. Inoltre, dal momento in cui i quattro candidati appartenevano tutti al governo di coalizione, si è notato la mancanza delle voci critiche dell’opposizione”. “Alcuni partiti dell’opposizione avevano annunciato la loro intenzione di presentare i loro candidati alle elezioni, ma hanno dovuto far fronte ad un certo numero di problemi amministrativi o legali, che hanno avuto per conseguenza la loro non partecipazione”, hanno constatato gli osservatori del Commonwealth. “Il Ruanda deve affrontare queste questioni di partecipazione politica e di una maggior libertà per i mezzi di comunicazione”, si dichiara nel comunicato.
Tre recenti partiti, fra cui due non ancora riconosciuti dalle autorità, sono stati, di fatto, esclusi dalla competizione elettorale e hanno denunciato una “farsa elettorale”.
In un comunicato, uno dei partiti di opposizione non ancora riconosciuto, le Forze democratiche unificate (FDU), ha denunciato alcune “irregolarità”, tra cui il ritiro, in varie località, dei certificati elettorali da parte delle autorità locali, per restituirli dopo l’effettuazione del voto e la costrizione a recarsi ai seggi elettorali per effettuare il voto.
L’ex Primo ministro Faustin Twagiramungu ha criticato il “risultato stalinista” di queste elezioni. “Kagame si vanta di aver fomentato lo sviluppo del paese, ma non c’è sviluppo senza libertà, base fondamentale della democrazia. Ciò che vogliamo è vivere liberi nel nostro paese”, ha dichiarato Twagiramungu, ancora oggi esiliato in Belgio.
Degli osservatori internazionali, nota il giornale tedesco Tageszeitung, riferiscono che in almeno otto dei seggi elettorali visitati, il 100% degli iscritti hanno votato e tutti hanno votato per Kagamé. In alcune zone rurali dell’est del paese, centinaia di persone sono state svegliate in piena notte per andare a votare per Kagamé. Un testimone oculare racconta che in un villaggio i seggi elettorali sono stati aperti poco dopo la mezzanotte. Ma per Paul Kagamé, nota il Süddeutsche Zeitung, anche il 100% dei voti è segno di democrazia. Per quanto riguarda la Comunità Internazionale, la coscienza le rimprovera la sua passività all’epoca del genocidio del 1994, ragion per cui gli Stati Uniti e l’Europa si astengono dal criticare Kagamé quando fa arrestare gli oppositori e i giornalisti.
Filip Reyntjens, professore all’università di Anversa e specialista sul Rwanda, in un’intervista rilasciata alla Radio Televisione Belga (RTBF) parla delle elezioni presidenziali in Rwanda e dell’avvenire del paese.
Per Filip Reyntjens, è chiaro, “il Ruanda non è ancora pronto per un’introduzione della democrazia, anche se moderata”. Egli si dichiara favorevole al cambiamento, ma si dice “realista”. Secondo lui, “il Ruanda è un paese profondamente traumatizzato” e un cambiamento non può farsi dall’oggi al domani. Secondo il suo parere, bisognerebbe disporre di un periodo di 10 anni per assicurare la transizione. Egli afferma: “Occorrerebbe che i donatori di aiuto economico, da cui dipende enormemente il Rwanda, si costituissero in un consorzio per far pressione sul governo rwandese e spingerlo al dialogo”.
Secondo Filip Reyntjens, la campagna elettorale si è svolta senza l’opposizione, essendo i tre candidati in lizza a lato del presidente uscente, tre candidati del FPR, il partito di Paul Kagame. Ci sono tre veri partii di opposizione, dice, ma due non sono stati riconosciuti e il presidente del terzo è in carcere da due mesi. Egli precisa anche che il voto non è stato in alcun modo segreto, perché l’elettore marca il suo voto con la sua impronta digitale, giusto a lato del nome del candidato di sua scelta.
Il successo economico del Rwanda è “incontestabile”, indica Filip Reyntjens, ma “è in parte ingannevole”, perché imperniato principalmente “sulla vetrina che è la capitale, Kigali”. Oggi, dice Reyntjens, “le disuguaglianze sono aumentate terribilmente”. Se, nel passato, il Rwanda era un paese “a disuguaglianza bassa”, è oggi “tra il 15% dei paesi del mondo” a disuguaglianza elevata, ciò che, a livello politico e sociale, provoca un sentimento di risentimento e di frustrazione “estremamente pericoloso” per l’avvenire.
Il vero pericolo per Paul Kagame, sono le tensioni che esistono nel suo proprio campo, stima questo specialista. “In seno all’esercito rwandese (FPR), vari Tutsi non sono d’accordo sul modo con cui Paul Kagame (anche lui Tutsi) gestisce il paese”. Egli cita come esempio un ex capo di stato maggiore dell’esercito rwandese, ex “compagno” di Paul Kagame esiliato in Sud Africa e oggetto di un tentativo di assassinio, molto probabilmente “un colpo di Kigali”.
Oggi, Paul Kagame non è al riparo da un eventuale colpo di stato, afferma Filip Reyntjens. Anche gli USA e l’Inghilterra (“che più hanno appoggiato il Rwanda”) si preoccupano ora della situazione rwandese e temono “un’ondata di acuta violenza”.
Etienne Sengerera, giornalista franco-ruandese, osservatore della vita politica rwandese, esprime i suoi dubbi sulla rielezione del presidente Kagamé.
“Si tratta di uno sporco gioco, queste elezioni sono una vetrina esterna. I candidati rivali del presidente uscente appartengono a partiti alleati del FPR, il partito di Kagame. In occasione delle precedenti elezioni, avevano desistito a vantaggio di Paul Kagamé. Essi non sono stati dei veri sfidanti di fronte ad un presidente uscente onnipotente. Quando si organizza delle elezioni unicamente per vincerle, si tratta di un simulacro di democrazia. L’importante risultato ottenuto da Paul Kagamé si spiega per la psicologia collettiva dei Rwandesi che stanno vivendo in un contesto di paura. Non vogliono rivivere gli stessi avvenimenti del passato. Votano per la persona già al potere, per non avere problemi. In occasione delle elezioni del 2003, Paul Kagamé aveva già affermato che se non fosse eletto, sarebbe stato capace di prendere il potere con la forza, come aveva già fatto.
Il Rwanda ha vissuto un vero clima di tensione. Durante la campagna elettorale, Paul Kagamé ha eliminato una personalità politica che avrebbe potuto essere una sua vera concorrente, perché usa un linguaggio in cui una parte della popolazione si riconosce. Victoire Umuhoza Ingabiré esprime il sentimento di emarginazione vissuto dagli Hutu. Ma, poiché un tale discorso fa riferimento all’etnicità, ella è stata accusata di divisionismo. In realtà, il Rwanda è ancora bloccato dalle conseguenze del genocidio. Occorrerebbe che tutti assumessero la loro parte di responsabilità nell’origine del dramma e del martirio del popolo rwandese. Paul Kagamé deve dire la verità sul passato. La memoria delle vittime, necessaria affinché il paese avanzi, non deve essere considerata come un diritto riservato a una sola parte della popolazione, ma a tutti, senza distinzioni”.
Intervistato prima delle elezioni, Olivier Lanotte, dottore in scienze politiche dell’UCL e delegato per la ricerca al Grip (Raggruppamento per la ricerca e l’informazione sulla pace e la sicurezza), ha dichiarato che “queste elezioni presidenziali non rappresentano alcuna sfida, perché Paul Kagame sarà rieletto e probabilmente con una percentuale molto elevata. Da una parte, nel 2003, aveva ottenuto il 95% dei voti e, dall’altra, la campagna elettorale è stata condotta senza la reale opposizione. Gli altri tre candidati sono degli alleati del FPR, il partito di Kagame. E non si può dire che i loro discorsi siano molto diversi da quello di Kagame. Ciò gli fa pensare a delle elezioni placebo. La sola questione riguarda la percentuale dei voti a favore di Kagame. A questo riguardo, una cosa può essere interessante. All’epoca delle elezioni legislative del 2008, gli osservatori avevano rilevato un certo numero di irregolarità, fra cui l’introduzione, nelle urne, di schede elettorali a vantaggio non dei candidati del regime, ma degli oppositori. Si voleva infatti evitare ai primi di ottenere dei risultati troppo stalinisti. È il colmo del totalitarismo: barare per fare abbassare il proprio punteggio. In Rwanda, non c’è ancora uno spazio politico per l’opposizione e gli osservatori riportano che le persone assistono ai comizi di Kagame perché costrette. Le persone hanno paura a causa dell’ascendente del FPR, un ascendente che si manifesta addirittura nella procedura del voto. In Rwanda, il voto viene espresso mediante impronte digitali. In un paese in cui la maggior parte delle persone non sa né leggere né scrivere e firma con le proprie impronte digitali, è come se si mettesse il proprio nome sulla scheda elettorale. Non è molto corretto. Ciò può spiegare anche il fatto che la gente abbia sempre paura, che non si parli apertamente, che non si osi dire ciò che si pensa. C’è una tale cultura della paura e dell’ubbidienza che le persone votano d’ufficio per il candidato del potere.
Attualmente, in Rwanda la democrazia non è ancora possibile. Ciò dipende dalle persone che sono al potere e se sono pronte a condividere il potere o ad abbandonarlo, se necessario.
Kagame non può essere più autoritario che attualmente. La libertà della stampa è nulla. Gli oppositori politici non hanno nessun spazio. Sulla questione della riconciliazione, c’è una giustizia a due velocità. C’è una memoria ufficiale a cui difficilmente ci si può sottrarre. Si evidenziano unilateralmente le sofferenze dei Tutsi sotto i regimi precedenti e durante il genocidio. Le sofferenze subite dagli Hutu sono passate completamente sotto silenzio. Come pure i crimini del FPR. Questa palese ingiustizia mina tutti gli sforzi di riconciliazione. Questo è molto pericoloso, perché crea nuove frustrazioni. Presso gli Hutu che hanno sete di giustizia e non l’hanno e presso i Tutsi delle campagne che restano emarginati dal “miracolo” rwandese.
In termini di crescita economica, il bilancio è spettacolare. Ma a quale prezzo? Ci sono delle forti disuguaglianze tra le città e le campagne. Kigali è la vetrina del regime. Ma questa crescita degli ultimi dieci anni è stata possibile solo mediante il saccheggio delle risorse minerarie della RDCongo e l’aiuto internazionale che rappresenta la metà del bilancio dello stato. Se lo si ritirasse, il regime crollerebbe.
Dopo il genocidio, Kagame è stato appoggiato dalla comunità internazionale perché, si pensava, fosse l’uomo che aveva messo fine al genocidio. E gli si scusava tutto. Poi la stella si è impallidita poco a poco con le guerre in Congo, il massacro dei rifugiati rwandesi nel 1996-97, il saccheggio delle risorse minerarie in RDCongo, il sostegno del suo regime alla ribellione di Nkunda in RDCongo. A questo proposito, la decisione di Kigali di ridurre il suo appoggio a Nkunda, è stata presa proprio nel momento in cui certi paesi occidentali hanno minacciato di bloccare il loro aiuto finanziario. Sospendere l’aiuto finanziario al regime sarebbe un mezzo eccellente per far pressione su Kagame e costringerlo ad aprire lo spazio politico e rispettare la libertà e i diritti umani”.
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“Il mondo non verrà distrutto da quelli che fanno male,
ma da quelli che guardano e rifiutano di agire”. – Albert Einstein
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