Congo Attualità n. 496

I “MINERALI DI SANGUE”, FATTORI DI CONFLITTI NEL KIVU (REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO) – 2ª Parte

Studio delle rivalità territoriali in una zona grigia dell’Africa centrale

Melvil Bossé – https://dumas.ccsd.cnrs.fr/dumas-02445404/document

INDICE

2. IL KIVU COME ZONA GRIGIA. UN CONFLITTO PERPETUATO DAL FALLIMENTO DEL CONTROLLO DELLO STATO
2.2. Istituzionalizzazione dei gruppi armati e ingerenza degli Stati confinanti. Gli attori nel cuore della guerra
2.3. La debolezza delle istituzioni dello Stato favorisce l’insicurezza
2.4. Conclusione della 2ª parte
3. GLI INTERESSI ECONOMICI COME LIMITI ALLO SVILUPPO LOCALE? LE SFIDE DELL’EST CONGOLESE
3.1. Lotte d’influenza nella RDC: una “economia di saccheggio” dei minerali
3.2. Il  Kivu, luogo centrale del neocolonialismo?
3.4. Conclusione della 3ª parte
4. CONCLUSIONE GENERALE

2. IL KIVU COME ZONA GRIGIA. UN CONFLITTO PERPETUATO DAL FALLIMENTO DEL CONTROLLO DELLO STATO

2.2. Istituzionalizzazione dei gruppi armati e ingerenza degli Stati confinanti. Gli attori nel cuore della guerra

Il quadro dei gruppi armati nell’est della RDC è incredibilmente complesso. Se le fonti a volte differiscono sul numero dei gruppi armati presenti nel Kivu, è perché essi si rinnovano costantemente: compaiono, scompaiono, si fondono, si dividono, cambiano nome, alleati o nemici. Queste rapidi mutazioni, molto difficili da analizzare nel loro insieme, sono ancorate in quella zona grigia dell’Est congolese che è il Kivu e che si è creata in seguito all’indebolimento o all’assenza dell’autorità dello Stato. Certe personalità ostili all’autorità governativa cercano infatti di reclutare quanti più soldati possibile, in modo da poter imporre il loro controllo su determinate porzioni di territorio, generalmente ricche di minerali. Di conseguenza, sono queste personalità che controllano queste zone e vi esercitano la loro autorità di fatto, sostituendosi così allo Stato.
Va sottolineato che il potere economico e finanziario è raramente l’obiettivo iniziale dei gruppi armati, al momento della loro creazione. Inizialmente infatti, secondo Berghezan, «molti gruppi armati presenti nell’Est della RDC si sono formati in reazione a vari fattori, la cui origine era spesso ancorata in dinamiche locali: percezione di esclusione dovuta all’appartenenza etnica, conflitti fondiari relativi alla proprietà delle terre, insicurezza e incapacità delle autorità pubbliche a garantire lo Stato di diritto. Nel corso del tempo, alcuni di questi gruppi armati hanno deviato dai loro obiettivi iniziali per opportunismo politico ed economico. Essendo riusciti, con la violenza e con relativa facilità, a prendere il controllo su alcuni territori, essi hanno sostituito o preso possesso delle strutture statali, traendo cospicui vantaggi dalle ricchezze minerarie che hanno trovato nelle zone ormai sotto loro controllo».
Nel Kivu, i gruppi armati si sono moltiplicati a partire dagli anni 1990: l’AFDL, l’RCD, il CNDP, l’M23, i Mayi-Mayi, le FDLR, le ADF … Come affermato da Thierry Vircoulon, l’inflazione del numero dei gruppi armati e delle milizie, comune a molti Paesi africani, è «il sintomo dell’indebolimento di molti stati africani che non sono più in grado di garantire la sicurezza della loro popolazione e il controllo di alcune parti del loro territorio». I gruppi armati nascono quindi negli «interstizi degli Stati che a volte diventano “vuoti di Stato”», come nel Kivu, dove «i gruppi armati sono parte integrante del sistema economico e politico della provincia e sono il sintomo di una governabilità esercitata per mezzo della violenza e del saccheggio».
Secondo Vircoulon, quando si parla di gruppi armati e di milizie, che fanno quindi parte del sistema della governance locale, soprattutto quando sono attivi da molto tempo, bisogna distinguere quattro realtà:
– gruppi di banditismo (spesso in zone rurali, emarginate o svantaggiate)
– gruppi paramilitari (che mobilitano dei membri della società civile)
– milizie di autodifesa
– gruppi armati e movimenti politico-militari che vogliono rovesciare il potere esistente.
Nel Kivu si osserva la presenza di tutte queste quattro tipologie di attori, alcuni sovrapposti tra loro, ma tutti responsabili di atti di banditismo: nella RDC, chiunque abbia un’arma può diventare un signore della guerra.
Secondo Georges Berghezan, ricercatore presso il Gruppo di ricerca e informazione sulla pace (GRIP), «oltre ai cosiddetti gruppi “stranieri”, durante [la seconda guerra congolese] sono comparsi due tipi di gruppi armati: quelli che hanno collaborato con gli invasori, l’RCD-Goma e le sue varie fazioni, e quelli che vi si sono opposti, generalmente uniti sotto la bandiera dei Mai-Mai.
Secondo Battory e Vircoulon, oltre ad essere luogo di ospitalità per i rifugiati che vi affluiscono a partire dai Paesi limitrofi (Ruanda, Burundi, Uganda), il Kivu è diventato il “campo di battaglia regionale”, in cui i regimi di quegli stessi Paesi limitrofi combattono i loro rispettivi gruppi armati di opposizione. Essendo diventato luogo di rifugio di gruppi armati appartenenti a Paesi vicini che non esitano ad oltrepassare la frontiera per neutralizzarli, l’Est congolese è diventato teatro di scontri tra entità (eserciti regolari e gruppi armati) straniere e, quindi, oggetto dell’ingerenza degli stati vicini,
Un altro pretesto per il Ruanda era, ed è tuttora, la presenza delle FDLR nella RDC che, secondo Kigali, nel 2019, nel territorio di Rutshuru (Nord Kivu), disponevano ancora tra 1100 e 1400 combattenti hutu. Secondo Berghezan, «l’eliminazione di questa milizia [le FDLR] appare quindi indispensabile per porre fine all’ingerenza del Ruanda nella RDC, ingerenza che è in gran parte all’origine dell’instabilità che affligge l’est del paese». L’ingerenza dei paesi stranieri è evidente. Secondo le circostanze, essi continuano a combattere o ad appoggiare determinati gruppi armati attivi in Congo. Come ha affermato Pourtier: «Il Ruanda è un attore essenziale nella guerra del Kivu. Non solo perché la destabilizzazione dell’est della RDC è la diretta conseguenza dei problemi interni del Ruanda, ma anche perché il Ruanda sta cercando di esercitare il suo controllo sul Kivu, sia per garantire la sua propria sicurezza, sia per appropriarsi delle terre e delle risorse minerarie dell’est congolese».
Per quanto riguarda il Kivu, i giochi di alleanze (che sono tutte alleanze di circostanza, quindi effimere) e i frequenti cambiamenti di strategia da parte dei gruppi armati (che spesso non hanno obiettivi precisi), generano ciò che Global Witness ha qualificato di “anarchia”. Questa anarchia è così esplicitata da Justine Brabant: «dei soldati dell’esercito regolare che, tra una battaglia e l’altra, scambiano informazioni militari e strategiche con i loro avversari. Dei miliziani che combattono contro le truppe regolari, ma assicurano che non sono ribelli. Dei “signori della guerra” che cacciano le autorità locali dalle zone sotto loro controllo, per istituire una loro amministrazione simile a quella dello Stato: dal controllo dei documenti di identità alla riscossione delle tasse. […] Dai gruppi armati irregolari ai ranghi dell’esercito nazionale, a volte non c’è che un passo che, peraltro, viene spesso fatto in entrambe le direzioni. E, al contrario, il fatto di dichiararsi “cittadini” come i Rayia Mutomboki o “patrioti” come i Mai-Mai non impedisce, secondo le occasioni, di combattere contro l’esercito del proprio Paese».
La ricercatrice mette in discussione la teoria del saccheggio dei minerali come unica motivazione (e obiettivo primario) dei gruppi armati che, secondo lei, come milizie di autodifesa, hanno anche altre aspirazioni. A causa della lunga durata della guerra, un’intera generazione di congolesi non conosce che la lotta armata come mezzo di resistenza e di sopravvivenza in un territorio privo di istituzioni legittime: «Per gran parte dei giovani del Kivu, l’esercizio della violenza non significa tanto combattere un potere o un sistema, ma cercare di trovare una posizione migliore al suo interno».
Ciò fa eco alle parole di William Barnes che già affermava: «l’uso della forza è sempre più considerato come il modo migliore per realizzare le proprie ambizioni individuali o accedere a un minimo di confort materiale». La diffusione delle armi tra la popolazione civile rafforza una «situazione di caos, dovuta al crollo dell’autorità pubblica e all’incapacità della polizia di garantire la sicurezza delle persone e dei loro beni».
Quando si stabiliscono permanentemente in un territorio, i gruppi armati diventano le autorità di fatto e instaurano una loro nuova amministrazione. Anche se non hanno l’ambizione di fare una secessione dalla RDC, cioè di creare un nuovo Stato, essi si considerano tuttavia come unica entità legittima sul territorio che occupano, anche senza il riconoscimento da parte della comunità internazionale. Si tratta dunque della “disintegrazione di uno Stato in situazione di guerra civile” che corrisponde a una libanizzazione del Paese, perché lo Stato congolese è imploso. Questa situazione esiste fin dalla seconda guerra del Congo, quando l’RCD e l’MLC, tra altri, controllavano immensi territori. La RDC si trova quindi “libanizzata” dal 2002, anno in cui la vastità delle zone occupate dai movimenti politico-militari (RCD e MLC) aveva raggiunto il suo culmine.
Nel Kivu, i gruppi armati come i Mayi-Mayi, i Rayia Mutomboki e l’NDC affermano che il loro obiettivo è di proteggere le popolazioni civili. Se ciò può essere vero in molti casi, si deve tuttavia ammettere che sono proprio questi gruppi armati locali che mettono in pericolo le popolazioni locali, a volte indirettamente, perché altri gruppi loro avversari organizzano spesso delle incursioni per occupare quei medesimi territori e, altre volte direttamente, perché essi stessi compiono angherie e soprusi (imposizione di tasse illegali, arresti arbitrari, rappresaglie, lavoro coatto) contro quella stessa popolazione che essi dicono voler proteggere. Questo paradosso è evidenziato da Brabant, che ha paragonato questi gruppi armati alla mafia, che impone il pizzo in cambio di protezione. I gruppi armati si sono moltiplicati a partire dai conflitti degli anni 1990, fino al punto da diventare parte integrante del panorama sociale, politico ed economico del Kivu. Alcuni di questi gruppi armati locali cercano di prendere il controllo su un determinato  territorio mediante il ricorso alle armi, per far pressione sul governo centrale, al fine di poter ottenere qualche vantaggio di ordine politico, economico o militare. Vari sono in contatto con partiti di opposizione, altri sono alleati di regimi di paesi limitrofi. Altri ancora sono gruppi stranieri avversari dei regimi al potere nei loro rispettivi Paesi. Infine, in una regione dove raramente si accede al potere in modo democratico, la guerra è diventata il mezzo a cui fare ricorso per conquistare il potere, come affermato dal geopolitico francese Jean-Christophe Victor nel 1998: «Qui, la guerra e i massacri sono diventati una modalità di conquista del potere» e Stéphane Rosière aggiunge: «il terrore è diventato la regola». Nella RDC e nel Kivu in particolare, i minori di 20 anni rappresentano più della metà della popolazione e non hanno mai conosciuto la pace.

2.3. La debolezza delle istituzioni dello Stato favorisce l’insicurezza

L’impotenza, se non l’indifferenza, di Kinshasa nei confronti del Kivu, la sua reale distanza geografica e simbolica, fanno di questa provincia una zona grigia, isolata dal resto del Paese da una linea di “confine” che separa il territorio controllato dal governo centrale dalla zona insurrezionale. Rispetto a Kinshasa (capitale della RDC), le città di Kigali, Kampala e Bujumbura (capitali del Ruanda, dell’Uganda e del Burundi) si trovano molto più vicine a questa zona senza legge e conflittuale. Ciò spiega l’influenza e il controllo che questi Stati esercitano sul Kivu, perché le autorità politiche e militari di questi paesi vi possono intervenire molto più facilmente e rapidamente rispetto a quelle congolesi. In questo senso, il dottor Crézé ha affermato che dei soldati ruandesi continuano ad attraversare la frontiera senza essere minimamente disturbati, il che fa del Kivu una terra sotto occupazione.
Il territorio del Kivu, che potrebbe essere definito come apolide, è teatro di una guerra “moderna”, nel senso che le linee del fronte tra un campo e l’altro non sono ben definite. A questo proposito,  Brabant sottolinea: «oggi, nel Congo le violenze non si riducono allo scontro tra due forze nemiche separate da una linea del fronte. In un territorio teoricamente amministrato dallo Stato congolese esistono qua e là degli isolotti che sfuggono al suo controllo e dove i signori della guerra hanno reclutato uomini e armi, più che sufficienti per imporre la loro legge: “proteggere ma anche saccheggiare e tassare”».
Infatti, come detto in precedenza, i gruppi armati si sostituiscono alle istituzioni dello Stato e governano con la forza. Si tratta quindi di una vera e propria occupazione.
L’occupazione del Kivu da parte di gruppi armati alleati o avversari di stati limitrofi ha contribuito all’indebolimento del regime di Kinshasa, incapace di reagire alla minaccia che essi rappresentano. Nello stesso tempo, questa fragilità dello Stato congolese viene essa stessa presentata come un “vettore di instabilità”, perché essa ha permesso alle milizie di alimentare l’insicurezza e la crisi politica, sociale ed economica. I vari gruppi armati Mai-Mai si sono creati (o hanno consolidato la loro presenza) reagendo alle violenze commesse dallo stesso esercito regolare e dalle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) e “approfittando” dell’assenza dello Stato e della disorganizzazione delle forze di sicurezza. Secondo Berghezan, «Il fenomeno dei gruppi armati Mai-Mai è nato in reazione all’invasione ruandese e ugandese del periodo 1998 – 2003. Il ritiro delle forze di occupazione ruandesi e ugandesi non ha però segnato la loro fine. Mobilitati inizialmente in nome della difesa della propria comunità (contro eserciti o gruppi armati stranieri, poi contro le milizie di comunità etniche percepite come rivali), i gruppi Mai-Mai non hanno mai completamente accettato di aderire al programma di disarmo e di reinserimento. Avendo la maggior parte dei combattenti rifiutato di integrarsi nelle file dell’esercito regolare o di reinserirsi nella vita civile e sociale, essi hanno continuato a far parte del loro gruppo armato».
Quando dei combattenti decidono di consegnare le armi, infatti, occorre affrontare il problema del loro reinserimento sociale. Come ancora sottolineato da Georges Berghezan, la mancanza di opportunità lavorative, in particolare la disoccupazione giovanile, può provocare sentimenti di frustrazione in ex combattenti che a volte non hanno altra scelta che quella di tornare (o di rimanere) a far parte di un gruppo armato: «Per molti di questi giovani, un’arma in mano è diventata uno strumento di sopravvivenza, di cui non potrebbero fare a meno. […] Finché dovranno scegliere tra una vita miserabile all’interno della società e l’adesione ad un gruppo armato, che potrebbe permettere loro non solo di avere qualcosa di che nutrirsi, ma anche di acquisire un certo status sociale, è chiaro che sceglieranno la via del gruppo armato».
Tuttavia, l’integrazione degli ex combattenti nell’esercito regolare congolese, una soluzione adottata già da tempo, non deve condurre all’impunità in nome della riconciliazione, come già avvenuto in diverse occasioni nella RDC a partire dalla fine della Seconda Guerra.
In effetti, come potrebbe essere possibile entrare in un processo di “riconciliazione” se dei combattenti che hanno commesso gravi crimini si ritrovano pochi mesi dopo nominati generali dell’esercito? Purtroppo, nella RDC, l’impunità è diventata la regola per conquistare e mantenere il potere. Ciò deriva dal fatto che il settore giudiziario è tra i primi ad essere stato colpito dal fallimento dello Stato, perché delle istituzioni deboli non sono in grado di garantire la giustizia, soprattutto in un paese che ha vissuto trent’anni di dittatura dopo l’indipendenza. Il fallimento dello Stato porta quindi necessariamente al fallimento della giustizia.
Secondo Mopo Kobanda, «gli strumenti giuridici congolesi ereditati dalla colonizzazione, che non sono stati oggetto di una profonda riforma, sono inadeguati e quasi arcaici e non offrono un quadro legislativo e istituzionale favorevole all’amministrazione di una giustizia trasparente, imparziale, efficiente, adeguata e indipendente dal potere politico».
Di conseguenza, la «cultura dell’impunità che regna nella RDC» può continuare ad esistere e a compromettere «gli sforzi di pace». Perciò, come ricordato dal dott. Denis Mukwege, «oggi i Congolesi non hanno né pace né giustizia». Finché giustizia non sarà fatta, il Kivu rimarrà senza dubbio l’epicentro dei conflitti in Africa centrale, perché è diventato il luogo di rifugio per dei criminali di guerra. Viceversa, per le popolazioni vittime della guerra, la riaffermazione di uno Stato di diritto e la democratizzazione del Paese sono esigenze vitali e prioritarie. Infatti, come sottolineato da Thierry Vircoulon, «non può esserci democratizzazione del settore della sicurezza se non c’è democratizzazione del regime».
Inoltre, come già sottolineato, la composizione dell’attuale esercito congolese è spesso il risultato di successive integrazioni di ex membri di gruppi armati, a volte tra loro alleati, altre volte avversari e nemici. Questa idea di un esercito “misto” risale alla fine degli anni 1990, ma è all’origine dell’indisciplina, delle pratiche illegali e della mancanza di coesione e di efficienza dell’esercito stesso. L’esercito regolare, che dovrebbe assicurare l’ordine e il mantenimento della pace, è spesso implicato nell’economia del commercio minerario illegale, come dimostrato dai ricercatori dell’IPIS. Da parte sua, Global Witness ha sottolineato che non si tratta soltanto di una pratica limitata a pochi soldati, ma di una “pratica generalizzata […] con un sistema di ricompense ben organizzato” e i cui “profitti arrivano fino ai vertici della gerarchia militare”. Pertanto, «nella misura in cui si detiene un determinato grado all’interno dell’esercito, si ha accesso anche alle risorse naturali», ha confidato una fonte dell’ONU alla ONG britannica.
È per questo che, per la pacificazione del Kivu, è ormai necessario tendere alla rifondazione dello Stato di diritto nella RDC. Come osservato dalla Banca Mondiale nel suo rapporto del 2011, «è fondamentale rafforzare la governabilità e le istituzioni legittime dello Stato, per garantire la sicurezza dei cittadini, assicurare il buon funzionamento della giustizia e spezzare la catena dei cicli di violenza». In effetti, come ha affermato Hochschild, un territorio immensamente ricco e privo di  leadership governativa, costituisce un “grave incentivo alla violenza e al caos generale”. Anche il dott. Denis Mukwege sostiene che, «per ricostruire la pace, occorre soprattutto ristabilire l’autorità dello Stato e riformare l’esercito, la polizia, il sistema giudiziario. […] La lotta contro l’impunità è una priorità e deve essere posta al centro del processo di pace».

2.4. Conclusione della 2ª parte

Christophe Boltanski affermava che, «contrariamente a un’idea comunemente accettata, nel Kivu lo Stato [congolese] non è assente. Esso esiste con le sue istituzioni e funzioni, ma come uno zombie, un involucro senza contenuto». Il governo centrale ha quindi un’autorità de jure ma non de facto, Nel caso particolare del Kivu, lo Stato si trova diluito in una zona grigia, dove le milizie amministrano il territorio che occupano, il contrabbando è diventato la norma, le disposizioni dei capi tradizionali possono avere la priorità sulle leggi nazionali, le élite politiche e militari sono schiave della corruzione e la giustizia è sostituita dall’impunità. Come lo sottolineava Stewart Andrew Scott, «è difficile, se non impossibile, garantire lo svolgimento delle funzioni sovrane dello Stato, senza poter contare né sulle forze di sicurezza (polizia ed esercito), né sul sistema giudiziario».
In un ambiente particolarmente bellicoso come il Kivu, i gruppi armati sono riusciti a imporre la loro propria autorità. In questo senso, Jean-Paul Mopo Kobanda ha spiegato che i gruppi armati hanno spesso sostituito le autorità preposte al governo, soprattutto nel settore economico: «alcune multinazionali hanno ammesso di aver trattato direttamente con i gruppi armati, in seguito alla mancanza dell’autorità dello Stato. Secondo loro, i gruppi armati erano le autorità de facto a cui dover rivolgersi per tutti gli atti amministrativi». Sempre secondo Mopo Kobanda, «nel caso della RDC, la cui economia dipende fortemente dalle entrate derivanti dall’esportazione di risorse naturali (nel 2017, i minerali rappresentavano il 74% delle esportazioni della RDC), la gestione del commercio dei minerali da parte dei gruppi armati  ha privato il governo centrale di gran parte delle entrate fiscali  dello Stato, necessarie per pagare gli agenti statali (funzionari, insegnanti, medici, ecc.) […]. Ciò ha contribuito in modo significativo ad aggravare la povertà delle popolazioni congolesi in generale e di quelle che vivono nelle zone occupate in particolare.
Come Minassian ha precisato, «al movimento di sorpasso dello Stato dall’alto, attraverso gli interventi di entità giuridiche transnazionali, come le multinazionali, i circuiti finanziari, le ONG e i mass media, corrisponde un movimento di smembramento dello Stato dal basso, attraverso l’intervento di attori illegali collegati ai gruppi armati, al terrorismo e alla criminalità organizzata».
Secondo Georges Berghezan, essendo la RDC uno Stato fallito, «è l’intero Stato congolese che deve essere ricostruito». Ciò è primordiale, soprattutto per consentire alle nuove generazioni di poter finalmente voltare la pagina della guerra. Attualmente, infatti, “la mancanza di opportunità offerte ai giovani smobilitati è un elemento che contribuisce a perpetuare i conflitti. In questo contesto estremamente travagliato, infatti, i giovani hanno poche possibilità di scelta al di fuori della lotta armata o dell’emigrazione.
Infine, come affermato da Mopo Kobanda nel 2006: «il conflitto ha rimesso in discussione l’autorità dello Stato, ha favorito l’arrivo di autorità di fatto nei territori occupati e ha costretto il governo a negoziare le condizioni di fine crisi, condizioni che hanno necessariamente avuto gravi ripercussioni sull’applicazione del diritto e della legge. Questa situazione di disintegrazione dell’autorità pubblica dello Stato, che alcuni descrivono come pura e semplice scomparsa dello Stato congolese, deve essere seriamente presa in considerazione nell’analisi e nelle proposte di soluzioni al problema del saccheggio e dello sfruttamento illegale delle risorse minerarie. In effetti, è questa debolezza e/o assenza dello Stato che dà luogo a una permanente situazione di insicurezza nell’est del Paese, ciò che permette al Ruanda di importare illegalmente delle risorse naturali dall’est della RDC, a scapito dello stesso popolo congolese».
Pertanto, come affermato dal giornalista congolese Eric Kajembe, «i paesi limitrofi hanno interesse a che questa situazione di disordine, malgoverno e insicurezza continui, perché permette loro di  alimentare le loro economie». Il Kivu si trova quindi da decenni al centro di ingerenze e di interessi economici che vanno ben oltre i confini congolesi, come si vedrà nella terza parte.

3. GLI INTERESSI ECONOMICI COME LIMITI ALLO SVILUPPO LOCALE? LE SFIDE DELL’EST CONGOLESE

3.1. Lotte d’influenza nella RDC: una “economia di saccheggio” dei minerali

Già nel 1999, il politologo William Barnes affermava che «il Kivu è oggetto delle bramosie del Ruanda e dell’Uganda, che approfittano della guerra per instaurare un’economia di saccheggio e di riesportazione». Da parte ruandese, questa economia di saccheggio si è concretizzata durante la seconda guerra, con la creazione di un “Dipartimento Congo” all’interno del regime del Fronte Patriottico Ruandese (FPR), che “supervisionava l’estrazione e il commercio del coltan, allora in pieno sviluppo” (saccheggio organizzato). Secondo Mopo Kobanda, «questo dipartimento posto sotto il comando del capo di stato maggiore dell’esercito ruandese, il generale James Kabarebe, secondo i rapporti del gruppo di esperti delle Nazioni Unite, era incaricato sia della supervisione delle operazioni di estrazione effettuate direttamente dai militari dell’FPR, sia del coordinamento dei contratti conclusi con le multinazionali». Infatti, il governo di Kigali aveva creato una vera e propria “rete d’élite”, che il gruppo degli esperti dell’ONU per la RDC ha portato alla luce nei suoi vari rapporti all’inizio degli anni 2000. Secondo questi rapporti, le entrate totali del “Dipartimento Congo” ammontavano a 320 milioni di dollari, corrispondenti all’80% del bilancio del ministero ruandese della difesa.
La metà dei minerali estratti veniva fatta passare oltre confine mediante la pratica del contrabbando, essendo inviata direttamente a Kigali via aerea. Un ruolo importante era affidato ai centri di acquisto e di esportazione di Goma (Nord Kivu) e di Bukavu (Sud Kivu), raramente gestiti da Congolesi. Il contrabbando transfrontaliero dei minerali avveniva anche attraverso i laghi Kivu e Tanganica e, dopo essere stati trasportati in Ruanda e in Burundi, i minerali venivano esportati verso l’Asia meridionale e orientale, attraverso i porti di Dar-es-Salam (Tanzania) e Mombasa (Kenya), situati sulla costa dell’Africa orientale.
La maggior parte dei minerali prodotti nel Nord Kivu e nel Sud Kivu viene ancora oggi esportata attraverso il Ruanda e il Burundi e le autorità provinciali del Kivu non sono in grado di controllarne le esportazioni. In tal modo, il Kivu è diventato l’entroterra economico del Ruanda e del Burundi.
Essendo il Congo praticamente senza sbocco sul mare e, quindi, dipendente dalle infrastrutture dei Paesi limitrofi per quanto riguarda le esportazioni, il governo congolese non riuscirà a prendere il controllo sull’esportazione dei minerali, finché non avrà ristabilito la propria autorità sull’intero territorio. Secondo Mopo Kobanda, «solo l’instaurazione di uno stato di diritto nella RDC potrà permettere di tentare di risolvere il problema del saccheggio delle risorse naturali».
Già nel 2002, gli esperti dell’ONU affermavano che «la maggior parte del coltan esportato dall’est della RDC (non meno del 60-70%) veniva estratto sotto la diretta sorveglianza dei supervisori dell’esercito ruandese». Di conseguenza, come sottolineato da Patrick Mbeko, a proposito del coltan, il Ruanda si ritrova ad essere oggi il primo esportatore mondiale di un minerale che non possiede nel suo sottosuolo! Infatti, secondo l’United States Geological Survey (USGS), nel 2016 il Ruanda era il principale “produttore” mondiale di coltan, con un totale di 300 tonnellate, mentre la RDC occupava solo il secondo posto, con 220 tonnellate. Tuttavia è il Congo che possiede l’80% delle riserve mondiali di questo minerale e che assicura “ufficialmente” il 65% della sua produzione a livello mondiale. Per quanto riguarda la cassiterite, nello stesso anno 2016, la RDCne  ha prodotto 150 tonnellate, più del Ruanda, che ha comunque raggiunto le 50 tonnellate. Infine, per quanto riguarda l’oro, Global Witness ha rivelato che le esportazioni d’oro da parte del Ruanda sono notevolmente aumentate nel 2015 (30 milioni di dollari USA), anche se l’Autorità ruandese per le risorse naturali non ha menzionato che tre soli esportatori e benché il Ruanda non detenga che un piccolo numero di miniere d’oro artigianali.
Si nota dunque che “l’economia di guerra incentrata sull’attività mineraria” avvantaggia pienamente il Ruanda, che ha avuto uno sviluppo economico del tutto inaspettato dopo il drammatico genocidio perpetrato sul suo territorio nel 1994. Di fronte al continuo impoverimento della RDC, l’emergenza del “paese delle mille colline” come nuovo polo economico e motore di crescita per l’Africa sub-sahariana è addirittura definito come un “miracolo”. Considerato come uno dei Paesi più promettenti del continente africano, il Ruanda sarebbe il secondo paese africano più attraente per gli investitori stranieri. Pertanto, nonostante una popolazione contadina che rimane generalmente povera, l’aspettativa di vita ruandese è quasi raddoppiata tra il 2001 e il 2015.
Secondo Pierre Péan, lo sviluppo economico del Ruanda è dovuto al controllo che esso esercita dall’altra parte della sua frontiera, l’est della RDC: «il Ruanda continua di fatto ad occupare l’est della RDC e a sfruttare illegalmente le ricchezze del Kivu, con il pretesto di voler sconfiggere i “fautori del genocidio” del 1994. Continuando a sventolare la bandiera di vittima del genocidio, il regime ruandese spera di ottenere dalla comunità internazionale la disgregazione del Congo, nonostante l’articolo 3 della Carta dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), che sancisce l’intangibilità delle frontiere».
In un’intervista rilasciata in febbraio 2018 alla radio congolese “Réveil FM International”, il giornalista investigativo franco-camerunese Charles Onana ha dichiarato: «Kagame interpreta il ruolo di fabbricatore di re nella RDC: tutti lo incontrano, discretamente o ufficialmente, convinti che sia lui il capo della RDC. È un triste spettacolo per la vita politica congolese. […] Si vorrà forse  sacrificare il popolo congolese, in cambio delle tonnellate di coltan, cassiterite e oro?».
Sempre a proposito del “ricco” Ruanda, nel 2016 la giornalista belga Colette Braeckman scriveva: «quelli che  si meravigliano dell’espansione economica di Kigali e visitano i nuovi quartieri dove si sono costruite delle ville dalle dimensioni hollywoodiane, hanno dimenticato che, all’inizio, i quartieri di Nyarutarama e di Kimisagara e altre zone di lusso erano comunemente chiamate “Coltan City” o “Merci Congo”. È stato in Congo che un pugno di nuovi ricchi […] hanno potuto praticare quella che Marx avrebbe chiamato “l’accumulazione primitiva del capitale”».
In tal modo, lungi dal portare dei benefici alle popolazioni del Kivu e allo sviluppo dell’est della RDC, le ricchezze minerarie vengono indirettamente estratte e commercializzate da attori esterni, che sono i paesi limitrofi. Avendo il controllo sulle miniere del Kivu, l’Uganda e soprattutto il Ruanda beneficiano di risorse che avrebbero potuto dare alla RDC un immenso potenziale, per integrarsi nella globalizzazione e nel circuito economico e commerciale internazionale.
Da parte loro, il Ruanda e l’Uganda hanno interesse a che l’instabilità, che caratterizza l’est della RDC da più di vent’anni, continui ancora per molto tempo. Il mantenimento di uno Stato congolese debole è anche nell’interesse di altri attori più potenti, tra cui le multinazionali e i paesi occidentali. La guerra dell’est del Congo permette di alimentare “l’economia del saccheggio” e la stabilità della Regione dei Grandi Laghi Africani e del mondo intero dipende dall’instabilità del Congo.
I comportamenti ruandesi che violano le norme del diritto internazionale (occupazione illegale di un paese straniero, non rispetto della sovranità dello Stato congolese sul suo sottosuolo), come spiegato da Mopo Kobanda, alimentano in molti Congolesi un sentimento di ostilità nei confronti del paese vicino, e questo sin dalla prima guerra nel 1996/97. Queste reazioni negative nei confronti dei Ruandesi (siano essi Hutu o Tutsi) sono illustrate dalla testimonianza di un soldato Rayia Mutomboki riportata da Justine Brabant nel 2016: «noi siamo contro tutti quei Ruandesi che hanno la cattiva intenzione di invadere, occupare e balcanizzare il Congo».
Simili opinioni sui Ruandesi da parte dei Congolesi vanno evidentemente intese come una reazione alla situazione che prevale nell’Est del Paese. Esse sono la conseguenza di quel circolo vizioso di violenze che si è instaurato nel Kivu, dove si si sono formati gruppi armati congolesi di “resistenza di fronte all’invasione straniera”, rappresentata quest’ultima da quei movimenti politico-militari (AFDL, RCD, CNDP) creati, appoggiati e guidata da Kigali e che, nel 2016, Colette Braeckman definì come gli “avamposti del Ruanda nella sua inesorabile avanzata verso il Congo”.
Da parte sua, nel 2009, Roland Pourtier affermava: «se nel Kivu il conflitto persiste, è in gran parte perché molti attori esterni vi trovano il loro interesse. Per il Ruanda, il perpetuarsi del conflitto nel Kivu facilita la sua influenza politica e militare sull’est della RDC e sulla regione dei Grandi Laghi Africani e, soprattutto, favorisce il suo sviluppo economico, che dipende in gran parte dall’estrazione e dalla commercializzazione delle risorse minerarie del Kivu. Per le multinazionali, i minerali estratti dal sottosuolo del Kivu da una moltitudine di miserabili minatori sono una manna dal cielo perché, immessi sul mercato mondiale a basso prezzo, permettono profitti considerevoli lungo tutta una catena di approvvigionamento e di commercializzazione, dove attività ritenute lecite interagiscono spudoratamente con l’oscuro mondo dell’illecito e dell’illegale».
Gli attori occidentali sono quindi altrettanto implicati nella guerra del Kivu, dal momento in cui le loro multinazionali beneficiano del pieno accesso a quei minerali insanguinati che alimentano quella guerra. L’indifferenza dei governi delle potenze europee e nordamericane deve essere messa in discussione e, se dimostrata, deve sollevare la questione della continuità del neocolonialismo in Africa.

3.2. Il  Kivu, luogo centrale del neocolonialismo?

L’opacità che caratterizza molte transazioni commerciali e che conduce al saccheggio dei minerali del Congo a vantaggio dei paesi limitrofi, ha molti tratti di somiglianza con un sistema coloniale di sfruttamento, dove nessun profitto va a beneficio della popolazione locale, ma contribuisce ad arricchire le grandi potenze. Secondo Jean-Paul Mopo Kobanda, non sono solo dei paesi europei che “riproducono” dei legami neocoloniali attraverso flussi e reti commerciali sfavorevoli alla RDC, paese detentore delle ricchezze naturali. Come ha sottolineato Patrick Mbeko, il Canada è, ad esempio, la prima potenza mineraria del mondo, poiché ospita il 75% delle società minerarie, che vi hanno stabilito la loro sede legale, e la Borsa di Toronto, seconda borsa più grande del Nord America. Che siano europee, nordamericane o asiatiche, le grandi potenze intervengono quindi indirettamente nell’economia di guerra dei Grandi Laghi, attraverso le loro multinazionali che si riforniscono presso i rivenditori internazionali di minerali.
Anche non essendo direttamente presenti nell’est del Congo, ma importando dei minerali congolesi a partire dal Ruanda, le società minerarie internazionali non solo legittimano il contrabbando ruandese, ma hanno anche una grande responsabilità in una “guerra economica”, in cui gli interessi commerciali congolesi si scontrano e si mescolano con gli interessi privati ​​e/o pubblici degli Stati limitrofi, fino a formare delle zone di dominazione commerciale.
Secondo Roland Pourtier, «le grandi potenze nordamericane, europee e asiatiche esercitano un’azione decisiva anche a monte della filiera mineraria, perché sono loro che acquistano i minerali e che, quindi, finanziano indirettamente i gruppi armati illegali che ne controllano la produzione». Tuttavia, quando si tratta di risolvere il problema, esse sembrano non cogliere il nocciolo della questione, cioè l’accesso delle parti belligeranti alle risorse naturali. In effetti, le varie iniziative internazionali di pace tendono a escludere la dimensione economica del conflitto. Già nel 2009, Global Witness affermava che gli accordi politici che tendono ad ignorare la questione dello sfruttamento illegale delle risorse naturali, come uno dei principali motori del conflitto armato nell’est del Congo, difficilmente genereranno una pace duratura. È quindi deplorevole che, nonostante abbia a disposizione una documentazione sempre più ampia sull’argomento, la comunità internazionale non affronti il ​​cuore del problema, ma ciò è dovuto agli enormi interessi economici che si nascondono dietro l’instabilità locale.
La dimenticanza delle cause della guerra contribuisce a legittimare il potere di Kagame. Secondo Bischoff, infatti, «la soluzione prospettata dall’Occidente consiste nell’affidare al Ruanda la leadership economica della regione dei Grandi Laghi Africani, a scapito del Congo, che è il produttore della maggior parte dei minerali esportati a partire dal Ruanda […] Non si sta adottando alcuna disposizione per dotare il Congo di uno Stato forte, anche se si riconosce che la rifondazione di un vero Stato di diritto in Congo sarebbe la prima condizione per la cessazione della guerra».
In definitiva, i settori vitali dell’economia dei paesi africani continuano a dipendere dai paesi industrializzati. Inoltre, da circa vent’anni, anche i paesi emergenti, soprattutto quelli asiatici, tra cui la Cina per prima, hanno iniziato ad intromettersi negli affari economici occidentali in Africa e stanno investendo ingenti somme in quel continente. Il loro principale obiettivo è firmare accordi e contratti che permettano loro di estrarre ed esportare i minerali di cui hanno bisogno per le loro industrie. Tra essi, per esempio, la Cina, che è ancora il Paese più popoloso del pianeta e che ha conosciuto uno sviluppo notevole negli anni 1980 e 1990, ha un fabbisogno colossale di materie prime. Secondo Pierre Péan, «Nel 2005, la Cina era già il principale fornitore dell’Africa sub-sahariana e il terzo partner commerciale del continente. Diventando un attore importante in Africa, la Cina ha iniziato a sconvolgere il gioco delle potenze occidentali in Africa e, in futuro, potrebbe addirittura perturbarlo completamente».
Il geopolitologo Cyril Musila ha dimostrato che il Kivu, che «fa decisamente parte di una geopolitica transfrontaliera», è una regione orientata più verso Oriente, cioè verso l’Oceano Indiano e i mercati asiatici, piuttosto che verso Ovest, cioè verso Kinshasa che è la capitale congolese. Le vie di comunicazione sono infatti molto più confluenti verso i porti del Kenya e della Tanzania che verso le coste dell’Africa occidentale. Sempre secondo Musila, «il Kivu si trova quindi diviso tra il polo politico di Kinshasa, la capitale situata nell’estremo Ovest del Paese, e il polo economico del dell’Africa orientale e dell’Asia». Come già visto anteriormente, i conflitti degli anni 1990 hanno notevolmente contribuito ad allontanare maggiormente le colline del Kivu da Kinshasa. Di conseguenza, sono le rotte commerciali orientate verso Oriente che permettono di evacuare ed esportare più facilmente le ricchezze del sottosuolo del Kivu. Questa apertura all’Africa orientale e al Sud-Est asiatico avvantaggia quindi i Paesi emergenti dell’Oceano Indiano, che scommettono sul proprio mercato o su quello cinese.
Patrick Mbeko ha giustamente affermato che la RDC è sempre stata un paese strategicamente importante per le grandi potenze. Secondo lui, è per le ricchezze minerarie congolesi che gli Stati Uniti avrebbero fatto di tutto affinché la “Françafrique” diventasse un semplice segmento della ”Américafrique”. Ma non si possono neppure dimenticare le strategie geo-economiche asiatiche, poiché oggi è senza dubbio il sistema “Chinafrique” a dominare il continente africano. Oltre alla Cina, anche la Malesia, la Tailandia, Hong Kong, lo Sri Lanka, l’Indonesia e persino il Vietnam interferiscono nella economia di saccheggio dei minerali congolesi, tramite le loro multinazionali (per esempio: East Rise Corporation, Malaysia Smelting Corporation, Specialty Metals Resources) o perché sono diventati dei punti strategici sulle rotte commerciali mondiali, senza preoccuparsi se le loro operazioni finanziano una guerra o se la popolazione locale non ne trae alcun beneficio.
Tuttavia, dall’inizio degli anni 2010, si sono compiuti alcuni piccoli progressi per quanto riguarda la trasparenza e la responsabilità delle società minerarie che investono nel settore della cassiterite, del coltan, dell’oro, ecc. Nel 2010, con l’amministrazione Obama, il Congresso americano ha approvato la legge Dodd-Frank  per tentare di assicurare la tracciabilità dei minerali preziosi, imponendo alle società minerarie di rivelare le fonti del loro approvvigionamento in minerali. La legge Dodd-Frank costituisce un vero passo avanti, perché prevede che le imprese applichino il principio del “dovere di diligenza”, secondo il quale devono assicurarsi che l’estrazione e la commercializzazione di minerali provenienti dalle zone di conflitto non contribuiscano né a finanziare gruppi armati, né a perpetuare i conflitti in corso.
Nello stesso anno, nell’ambito della Conferenza Internazionale per la Regione dei Grandi Laghi (CIRGL), la RDC, il Ruanda e l’Uganda, tra altri, hanno firmato la Dichiarazione di Lusaka, che ha approvato la guida dell’Organizzazione di Cooperazione per lo Sviluppo Economico (OCSE).
Dal 2011, anche l’International Tin Supply Chain Initiative (ITSCI), ratificata dalla RDC e dal Ruanda, impone alle società minerarie di presentare rapporti annuali sui loro fornitori.
Nonostante questi piccoli progressi, si deve tuttavia ammettere che il conflitto del Kivu è volutamente dimenticato e trascurato dai leader della Comunità Internazionale, che fingono di ignorarne uno dei principali aspetti, quello economico, perché in gioco ci sono degli interessi inconfessabili, tra cui l’arricchimento delle multinazionali del settore dell’alta tecnologia, che non hanno alcun interesse a porre fine alla violenza e all’instabilità nel Kivu.
Forse la loro intenzione è quella di mantenere il loro controllo su uno stato congolese debole, impotente, facile da dominare e con un potenziale minerario immenso.
Secondo Mopo Kobanda, «purtroppo è il gioco degli interessi e dei rapporti di forza che orienta le decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e che, talvolta, penalizza l’applicazione imparziale del diritto internazionale». Le potenze europee, nordamericane e asiatiche, che non trarrebbero che pochi benefici da una risoluzione negoziata della guerra, forse hanno, in realtà, l’intenzione di mantenere il loro controllo su uno stato congolese debole e impotente, ma con un potenziale minerario tuttavia immenso.

3.4. Conclusione della 3ª parte

Inserito in un importante spazio geostrategico, quello dei Grandi Laghi Africani, al crocevia tra l’area culturale swahili e anglofona a est e quella lingala e francofona a ovest, il Kivu possiede una grande quantità di risorse minerarie che alimentano ulteriormente le lotte per il controllo sul suo territorio. Così, oltre a subire l’ingerenza delle potenze occidentali che desiderano consolidare o acquisire posizioni di vantaggio nel cuore del continente africano, il Kivu è preda di un’economia di saccheggio che dura da più di vent’anni. La creazione di reti commerciali illegali è stata favorita dagli stati limitrofi al Congo (Ruanda e Uganda) che, appoggiati dalle potenze anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna), hanno intrapreso una guerra contro questo paese, una guerra che, in seguito, si è rivelata essere la continuazione dei disordini politici che hanno sconvolto la regione dei Grandi Laghi negli anni 1990. A proposito del continente africano, nel 2017, Roland Pourtier faceva notare che, «dove gli Stati detentori di ricchezze naturali si sono indeboliti per crisi politiche interne, là si sono formate anche delle “reti internazionali di affaristi” che fomentano la “criminalizzazione dello Stato”, interferiscono nella politica locale e favoriscono il commercio clandestino delle armi». Questa situazione corrisponde a quella dell’est della RDC, dove le multinazionali di altri continenti che si approvvigionano in minerali preziosi permettono alle “reti di affaristi” di arricchirsi sulle spalle di uno Stato impotente.

4. CONCLUSIONE GENERALE

Fulcro delle ribellioni contro il governo centrale a partire dagli anni 1960, cioè il decennio successivo all’indipendenza del Congo, l’est della RDC costituisce oggi una zona grigia all’interno di uno Stato libanizzato. Nel contesto del conflitto in corso nel Kivu, la popolazione locale è la prima vittima del saccheggio economico e dell’ingerenza da parte di alcuni Stati confinanti e di potenze esterne che riproducono un modello neocoloniale.
Come precisato dal ricercatore Thierry Vircoulon nel 2018, «la seconda guerra del Congo è iniziata nel 1998 ed è terminata nel 2003 ma, nel Kivu l’economia di guerra è continuata, ciò che ha contribuito alla proliferazione dei gruppi armati e alla continuazione delle violenze». Le violenze e le rivalità territoriali tra i diversi gruppi armati trovano la loro origine in una frenetica “corsa ai minerali”, in cui la popolazione non ottiene alcun beneficio e rimane estremamente povera.
Secondo Justine Brabant, ci sono molti falsi giudizi e preconcetti sulla guerra del Kivu: o se ne sa poco o nulla, o la si conosce male. Secondo lei, per normalizzare definitivamente la regione, è importante stabilire una “buona diagnosi”. Tra i pregiudizi sui Grandi Laghi africani c’è quello delle “tensioni interetniche”, quando invece oggi sono le cause politiche ed economiche a prevalere.
In questo senso, in contraddizione con le idee ricevute, già nel 1998 Jean-Christophe Victor dichiarava a proposito del Ruanda: «non si tratta di un conflitto etnico, ma di un conflitto per il potere». La stessa idea è espressa nel 2016 da Brabante: «si tratta di conflitti politici che acquistano temporaneamente un profilo di divisioni etniche, spesso grazie o a causa della strumentalizzazione da parte di personalità politico-militari». Sembra quindi importante non cadere nella faciloneria della categorizzazione etnica, per spiegare conflitti molto complessi che coinvolgono una moltitudine di attori e di interessi. Secondo Global Witness, la maggior parte dei gruppi armati attualmente attivi nel Kivu è essenzialmente attratta dal profitto economico che può derivare dal commercio dei minerali: «poiché la loro sopravvivenza dipendeva sempre più dai profitti derivanti dal commercio dei minerali, alcuni gruppi armati hanno deciso di concentrare la loro attenzione e le loro risorse a questa attività. In molti casi, i benefici finanziari sono diventati così attraenti che l’agenda economica sembra aver sostituito le rivendicazioni politiche o etniche che avevano originariamente motivato la loro nascita».
Per comprendere i conflitti dell’Africa Centrale, non si possono trascurare le tensioni derivanti dalla configurazione delle frontiere tra i Paesi della Regione dei Grandi Laghi Africani ereditate dal periodo coloniale e contestate dal Ruanda sin dal 1910. Inoltre, sempre durante la colonizzazione, i paesi europei avevano riprodotto in Africa l’organizzazione statale propria del loro continente, ma non adeguata al continente africano: lo stato vestfaliano e la sua inviolabile sovranità.
Secondo il ricercatore Alexandre Liebeskind, collaboratore presso il Centro per il dialogo umanitario con sede in Svizzera, quasi tutte le guerre africane sono, in definitiva, dovute ad sistemi inappropriati di governabilità, al fallimento delle risoluzioni da essi proposte e a visioni distorte degli Stati africani, in cui i diplomatici non tengono sufficientemente conto delle comunità locali. Nel 2019, Liebeskind affermava: «i sistemi di governo ereditati dalla tradizione degli Stati-nazioni europei, sono fondamentalmente poco adatti per l’Africa, dove il tessuto politico e sociale è costituito dalle comunità locali. Infatti, l’esistenza di regimi presidenziali forti e di governi molto centralizzati non fanno che dissuadere le comunità locali dalla partecipazione attiva alla vita politica e concentrare il potere e l’accesso alle risorse nelle mani di una sola piccola minoranza. In Africa quindi si può ben passare da un ciclo elettorale all’altro, da una guerra a un accordo di pace ma, finché non si correggano i parametri di governabilità, ci saranno sempre tensioni e conflitti».
Ciò che caratterizza la singolarità del Kivu rispetto ad altri casi di guerra in Africa, al di là della sua lunga durata, è la “maledizione delle risorse naturali”, risorse che suscitano gli interessi degli Stati limitrofi. Nel Kivu, questa maledizione colpisce innanzitutto la popolazione, in particolare le donne e i bambini. Sono loro che pagano il prezzo più alto: «Lungi dall’essere una manna per i suoi abitanti, [la ricchezza mineraria] diventa una maledizione che attira ogni cupidigia. Le multinazionali, le élite locali, le potenze occidentali, i paesi africani limitrofi, tutti hanno interesse a che il Kivu rimanga nel caos perché, proprio nel caos, possono continuare a saccheggiarlo senza essere minimamente disturbati. Il Kivu è una gioielleria a cielo aperto.
Per porre fine ai conflitti armati nel Kivu, diversi elementi appaiono come essenziali.
Per risolvere la crisi congolese, Ben Katoka ritiene che sia essenziale migliorare la governabilità del settore minerario congolese: «La buona governabilità è un elemento chiave, affinché le risorse naturali possano portare dei vantaggi economici e sociali alla popolazione. Essa consiste nello stabilire e applicare le regole e i meccanismi che obbligano il governo a rendere conto e a essere trasparente nei confronti dei cittadini. […] Senza questi meccanismi, le risorse naturali e la gestione del reddito che esse producono non possono che portare all’arricchimento esclusivo delle élite minoritarie. […] Per esempio, finora alcuni funzionari statali di alto rango possono utilizzare la loro posizione ufficiale per firmare, per conto dello Stato, dei contratti con società di cui essi stessi sono azionisti o amministratori».
In secondo luogo, è necessario riaffermare o rivisitare e applicare il diritto alla proprietà del suolo e del sottosuolo, in modo tale che esso possa apportare benefici concreti alla popolazione congolese. Finché la popolazione che dovrebbe beneficiare dei profitti economici provenienti dalle materie prime non sarà messa in primo piano, difesa e protetta dall’autorità dello Stato, il saccheggio dei minerali e l’impunità di chi lo commette non cesseranno. Come afferma il dottor Denis Mukwege, la sfida è quella di riuscire a “passare dalla maledizione dei minerali di sangue alla benedizione dei minerali dello sviluppo e della pace”.
In terzo luogo, occorre cercare e trovare una soluzione adeguata e coerente alla questione demografica, per meglio governare i flussi migratori delle popolazioni  e mettere fine alle tensioni xenofobe che ne derivano.
Infine, occorrerebbe chiedersi se un potere decentralizzato, con l’emergere di vere entità locali forti e autonome, che tengano conto delle comunità locali e delle necessità dei cittadini, non sia nell’interesse di un Paese, il cui territorio sembra troppo grande da poter essere gestito da istituzioni che legiferano e governano a più 1500 km di distanza. Dato che la “politica della pancia” rimane un rischio poiché, anche dopo l’indipendenza fino ad oggi, il potere e la ricchezza sono rimasti nelle mani di poche élite congolesi, non sarebbe auspicabile un’altra forma di Stato? Sarebbe possibile trasformare questo paese lacerato in uno stato federato?