MOBILITÀ DEGLI HUTU IN ITURI: TRA ACCETTAZIONE E DIFIDENZA
Pole Institute – Ottobre 2020[1]
INDICE
1. CAPITOLO 1: MOBILITÀ DELLE POPOLAZIONI NELLA RD CONGO E DEGLI HUTU IN ITURI
1.1. Provincia di Ituri: geografia, popolazione e risorse naturali
1.2. Accesso alle risorse, conflitti e violenze
1.3. Mobilità della popolazione, configurazione etnografica e conflitti in Ituri
1.3.1. Antiche migrazioni e popolamento dell’Ituri: alle origini dei conflitti attuali
1.3.2. Conflitti e etnicità in Ituri
1.4. Migrazioni più recenti e conflittualità
1.4.1. La migrazione nande
1.4.2. Le migrazioni dei Banyabwisha
2. CAPITOLO 2: MOBILITÀ HUTU E FATTORI DI INTEGRAZIONE IN ITURI
2.1. Arrivo e insediamento degli Hutu nell’Ituri
2.2. Fattori caratterizzanti la migrazione delle popolazioni hutu verso l’Ituri
2.2.1. I fattori della migrazione hutu dal punto di vista degli interessati
2.2.2. Il punto di vista degli autoctoni sui fattori della migrazione degli Hutu verso l’Ituri
2.2.3. Traiettoria migratoria e meccanismi di insediamento degli Hutu in Ituri: facilità e ostacoli
1. CAPITOLO 1: MOBILITÀ DELLE POPOLAZIONI NELLA RD CONGO E DEGLI HUTU IN ITURI
La provincia di Ituri è situata nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo. Ad est confina con due stati: l’Uganda, attraverso il Lago Albert, e il Sud Sudan, più a nord. A sud, confina con la provincia del Nord Kivu, a ovest con la provincia della Tshopo e a nord con l’Haut-Uélé. L’Ituri occupa una superficie di 65.658 km2 e la sua popolazione è stimata sui 5.612.000 abitanti, con una densità media di 85 abitanti per km2.
Il suo capoluogo è la città di Bunia, nel territorio di Irumu. Quest’ultimo ha una superficie di 8.730 km2. Gli altri quattro territori sono: Aru (6.740 km2), Djugu (8.184 km2), Mahagi (5.221 km2) e Mambasa (36.783 km2). La densità media della popolazione, 85 ab./km2, è poco rappresentativa dell’insieme, perché alcuni territori sono densamente popolati, mentre gran parte della provincia è occupata dalla foresta tropicale.
La densità della popolazione è più alta nel territorio di Mahagi, dove in alcune zone rurali supera i 500 abitanti per km2, e in quello di Djugu. Queste zone densamente popolate sono caratterizzate da conflitti di ordine fondiario. La densità della popolazione è più bassa nel territorio di Irumu, in seguito all’attività della pastorizia che vi è ampiamente praticata e che richiede vaste estensioni riservate ai pascoli. Mambasa è il territorio meno popolato di tutti, con una densità media di circa 6 ab./km2, essendo principalmente costituito da zone occupate dalla foresta tropicale.
1.1. Provincia dell’Ituri: geografia, popolazione e risorse naturali
La provincia dell’Ituri ha un notevole potenziale economico, in particolare per quanto riguarda l’agricoltura, l’allevamento, la pesca e il legname. Possiede anche molti minerali, tra cui l’oro. La provincia possiede anche molte riserve petrolifere, soprattutto nei pressi del lago Alberto, dove sono stati scoperti grandi giacimenti sul versante ugandese. L’estrazione di queste risorse e la loro commercializzazione hanno suscitato enormi interessi interni ed esterni e, anche durante i vari conflitti, hanno permesso di tessere nuovi legami economici regionali e di indirizzare l’economia dell’Ituri verso i Paesi limitrofi dell’est, in particolare verso l’Uganda, soprattutto per quanto riguarda il commercio dell’oro e del legname.
La popolazione dell’Ituri comprende circa dieci gruppi etnici, di cui i gruppi maggioritari sono gli Alur (27%), concentrati principalmente a Mahagi, i Lendu (24%) e gli Hema (18%) stabiliti nei territori di Irumu e Djugu, e il Lugbara (12%) localizzati nel territorio di Aru.
Oltre a queste etnie considerate indigene, perché arrivate prima della colonizzazione, negli ultimi decenni il territorio della provincia di Ituri ha accolto numerosi immigrati, tra cui quattro gruppi principali:
– Gli arabizzati, provenienti dalla provincia del Maniema intorno al 1915, sono oggi localizzati nel distretto di Mambasa.
– I Nande, provenienti dalla vicina provincia del Nord Kivu sin dal 1930, avevano costituito dei propri raggruppamenti di villaggi, tra cui Makeke, Mambembe, Bila/Teturi e Bakaïko nel distretto di Babila/Babombi. Attualmente, si stanno stabilendo anche nei distretti di Mambasa, Bombo, Bandaka, Babila/Bakwanza e Walese Karo.
– I Babudu, provenienti dal territorio di Wamba, si insediarono più di 40 anni fa nei distretti di Bandaka e di Bombo.
– Il quarto gruppo, arrivato più recentemente, è formato dagli hutu, denominati anche “Banyabwisha”, la cui immigrazione è oggetto di questo studio.
1.2. Accesso alle risorse, conflitti e violenze
L’elevato tasso di densità della popolazione in alcuni territori della provincia è una delle principali cause dei vari tipi di conflitti fondiari che minacciano la pace e la coesione sociale.
Un’inchiesta condotta a livello nazionale dal Centro per i Diritti Umani ha identificato i seguenti tipi di conflitti fondiari:
– la messa in discussione dei confini tra le diverse entità amministrative (collettività, raggruppamenti e località) dopo gli anni della guerra;
– lo spostamento di popolazioni da una determinata comunità verso un’altra comunità vicina, rifiutandosi di sottomettersi alle autorità della comunità ospitante;
– la messa in discussione e l’occupazione di concessioni private da parte della popolazione;
– la messa in discussione e l’occupazione, da parte della popolazione, dei pascoli collettivi concessi a degli allevatori attraverso l’Ufficio Progetto Ituri (BPI);
– il rifiuto, da parte degli allevatori, di ritornare con le loro mandrie nelle comunità in cui avevano vissuto prima dello scoppio delle violenze intercomunitarie.
Altre ricerche hanno identificato altri tipi di conflitti fondiari che potrebbero sovrapporsi ai precedenti. Tra essi, in ordine decrescente: conflitti tra vicini, con il proprietario o con l’amministrazione comunale; terreni venduti senza l’autorizzazione della persona abilitata; appezzamenti di terre utilizzati illegalmente; litigi con famiglie ritornate dopo essere temporaneamente fuggite. I capi locali e gli agenti amministrativi sono spesso implicati nella vendita illegale di proprietà terriere o in concessioni abusive di diritti d’uso.
Oltre il 60% della popolazione ritiene che i conflitti di tipo fondiario siano la causa principale delle frequenti violenze che dilaniano la provincia.
In assenza di strutture locali e nazionali efficaci, credibili e capaci di risolvere questi conflitti fondiari, la coesione sociale ne risulta gravemente compromessa. Questi conflitti di tipo fondiario ( uso delle terre, dei pascoli, dei boschi, dei fiumi, delle zone minerarie) provocano forti tensioni intercomunitarie, a scapito delle popolazioni presenti sul territorio.
I conflitti fondiari alimentano addirittura il tacito appoggio delle singole comunità alle loro rispettive milizie, sempre pronte ad intervenire per proteggerle in caso di violenze subite. Ne consegue quindi un’insicurezza permanente alimentata dall’intervento delle milizie e dalla circolazione delle armi all’interno delle comunità. Come altrove nella Repubblica Democratica del Congo, la geografia delle milizie è strettamente legata a quella delle risorse naturali e viceversa.
L’accesso alle risorse naturali è generalmente controllato da elite politiche, militari ed economiche dominanti che, rafforzandosi continuamente, diventano sempre più dominanti. La lotta per l’accesso e il controllo delle risorse è un fattore costante nelle dinamiche politiche e militari locali e strettamente legato all’accesso alle terre.
1.3. Mobilità della popolazione, configurazione etnografica e conflitti in Ituri
1.3.1. Antiche migrazioni e popolamento dell’Ituri: alle origini dei conflitti attuali
I primi abitanti dell’Ituri sarebbero stati i pigmei Mbuti.
Nel XVI° secolo sarebbero arrivati i Banyali, i Bira e altri gruppi etnici provenienti dal territorio oggi costituito dall’Uganda. Si stabilirono in zone situate a sud e ad ovest del lago Alberto, ciò che oggi corrisponde ai territori di Irumu e Djugu.
Più o meno nello stesso periodo, altri gruppi, tra cui i Lendu, sarebbero arrivati dal territorio che oggi è costituito dal Sud Sudan. Alcuni Lendu, detti anche Bbale, si insediarono nella parte settentrionale dell’Ituri, precisamente nei territori di Mahagi e Djugu, mentre altri, ormai meglio conosciuti come Ngiti, si stabilirono più a sud, vicino al villaggio di Getty. Tradizionalmente, i Lendu praticavano l’agricoltura ma, con il passare del tempo, acquistarono del bestiame dai pastori Hema che vennero posteriormente a stabilirsi vicino a loro.
Nel 18° secolo, altri due gruppi formati da Hema sarebbero emigrati verso Ituri, provenienti dal regno di Bunyoro, situato in Uganda. Alcuni Hema si stabilirono a ovest del Lago Alberto e furono denominati Gegere, o Hema del Nord. I Gegere stabilirono un dominio politico ed economico sui Lendu, già presenti nella regione. Per rafforzare la coesione con i Lendu, i Gegere adottarono la lingua Lendu e favorirono i matrimoni con le donne Lendu. Per la costruzione delle loro case adottarono un’architettura basata sul modello Lendu e iniziarono a praticare l’agricoltura come i Lendu, assimilandone le tecniche di coltivazione. Infine, adottarono anche alcuni principi matriarcali dei Lendu.
Quasi contemporaneamente, altri Hema si stabilirono a ovest e a sud-ovest del Lago Alberto, in una zona che oggi costituisce il territorio di Irumu. Quì gli Hema imposero il loro dominio sulle popolazioni Lendu (Ngiti), mantenendo la propria cultura e la propria lingua, il kihema.
In genere, gli Hema meridionali erano dei pastori-allevatori che avevano rapporti commerciali con i contadini-agricoltori ma, progressivamente, gli Ngiti iniziarono ad acquisire del bestiame e divennero importanti pastori, cancellando così ogni distinzione tra le attività pastorali e agricole degli Hema e degli Ngiti. Inoltre, gli Hema dell’Ituri meridionale erano dei nomadi che, suddivisi in almeno sette gruppi o clan, avevano un’autorità decentralizzata.
Quando, alla fine del XIX° secolo, le autorità coloniali belghe presero il controllo dell’Ituri meridionale, il dominio degli Hema era notevolmente diminuito e gli Ngiti erano politicamente ed economicamente indipendenti dagli Hema e dalle altre tribù dell’Ituri meridionale.
Un altro gruppo che emigrò verso l’Ituri nel XVIII° secolo era costituito dagli Alur, che arrivarono contemporaneamente ai Luo e provenienti dall’odierno Sud Sudan. Gli Alur si stabilirono nelle savane situate a nord e a nord-ovest del lago Alberto, in una zona prossima all’attuale frontiera tra l’Uganda e la RDCongo. Come gli Hema, gli Alur imposero il loro dominio politico ed economico sui Lendu dell’Ituri settentrionale, negli attuali territori di Mahagi e Djugu.
Sono questi quattro gruppi di migranti che sono poi diventati gli autoctoni dell’Ituri e che attualmente ne costituiscono poco più dell’80% della popolazione. Si tratta degli Alur, dei Lendu, degli Hema e dei Lugbara.
1.3.2. Conflitti e etnicità in Ituri
In maniera convergente, le popolazioni che si considerano autoctone dell’Ituri fanno risalire le origini dei loro conflitti agli interventi stranieri che si sono susseguiti dalla spedizione di Stanley fino alla colonizzazione belga. Questi vari interventi stranieri hanno avuto delle notevoli conseguenze sulle lotte locali per il controllo del potere politico ed economico.
Durante la missione di preparazione dell’impresa coloniale di Leopoldo II, re del Belgio, Henry Morton Stanley raggiunse l’Ituri ed entrò in contatto con gli Hema e i Lendu Ngiti. Nei suoi scritti, egli descrisse l’accoglienza ricevuta dagli Hema e l’ostilità incontrata tra i Lendu Ngiti. Stanley elogiò le qualità fisiche e morali degli Hema e deplorò la rudezza e la violenza dei Lendu Ngiti.
Le percezioni di Stanley trasmesse attraverso i suoi scritti ebbero un’enorme ripercussione sulla politica coloniale posteriore. Infatti, usando questo schema basato su considerazioni razziali, essa giunse a classificare gli Hema come una razza superiore e i Lendu Ngiti come razza inferiore. In tal modo, la colonizzazione favorì gli Hema, sia nel campo politico ed economico, sia per quanto riguardava l’accesso alle risorse e all’istruzione. Questi vantaggi permisero la formazione di un’élite Hema capace di trarre profitto da tutte le opportunità che le si sono presentate prima e dopo l’indipendenza. Attraverso la politica del dividere per dominare, l’impresa coloniale accentuò le disuguaglianze e le tensioni latenti tra le comunità Hema e Lendu e rafforzò notevolmente gli stereotipi basati sui complessi di inferiorità e di superiorità assimilati nelle due comunità.
Con l’indipendenza, il declino dell’estrazione industriale dell’oro portò l’agricoltura in primo piano, provocando tensioni sociali ed economiche. Ben formate e privilegiate, le élite Hema acquisirono grandi fattorie e piantagioni situate in zone abitate dai Lendu, il che rafforzò le frustrazioni delle élite di quest’ultima comunità.
Subito dopo l’indipendenza, l’accesso alla proprietà terriera divenne un elemento centrale della lotta tra le élite politiche ed economiche locali. La ridistribuzione delle concessioni fondiarie che erano state accordate ai coloni fu oggetto di una spietata concorrenza tra le élite. Dopo una serie di decisioni, prima con l’abrogazione delle precedenti titolarità e poi con la richiesta di altre nuove, tutte le proprietà, tra cui fattorie, ranch, piantagioni, concessioni, società commerciali e agenzie immobiliari furono nazionalizzate.
La riallocazione di proprietà e di diritti sotto il regime di Mobutu si svolse a notevole beneficio dell’élite Hema, grazie alle sue strette relazioni con le reti politiche ed economiche esistenti, il che contribuì a rafforzare ancora una volta le frustrazioni dei Lendu e a cristallizzare definitivamente le divisioni tra Lendu e Hema.
A metà degli anni 1970, sorse un movimento di emancipazione Lendu, per protestare contro il dominio economico degli Hema e, più precisamente, contro l’acquisizione, da parte degli Hema, di grandi concessioni terriere in zone abitate prevalentemente dai Lendu. Tuttavia, questo movimento politico, denominato Partito di Liberazione dei Walendu (PLW), degenerò rapidamente in una milizia anti-Hema. Tra i due gruppi, iniziò un periodo di scontri che si conclusero in seguito a un patto di riconciliazione tra le comunità Lendu e Hema.
Negli anni 1990, le divisioni tra Hema e Lendu si accentuarono e si assistette alla creazione di associazioni culturali per la difesa dei diritti di ogni comunità. I Lendu fondarono la loro Associazione Culturale per la Liberazione degli Oppressi e dei Rifiutati di Ituri (ACL, localmente denominata Liberazione della Razza Oppressa in Ituri “LORI”), mentre gli Hema crearono la loro denominata Associazione Culturale de la Comunità Hema (ENTE).
Tra le due comunità, il principale punto di contesa era quello delle controversie relative ai confini delle proprietà delle terre, a cui si aggiunse un problema risalente al 1910 e relativo alla delimitazione dei confini delle entità territoriali appartenenti ai Bahema del Sud e ai Walendu Ngiti, ciascuno dei quali rivendicava l’autorità su tre villaggi (Nombe, Lakpa e Lagabo) situati sulla linea di demarcazione tra le due entità. Sotto il regime di Mobutu, le pretese dei Walendu su questi tre villaggi furono represse almeno due volte ma, alla fine, fu firmato un accordo tra le due parti. In seguito a tale accordo, fu organizzato un referendum e le popolazioni coinvolte scelsero di porsi sotto l’autorità del Walendu Bindi. Questo accordo di pace fu firmato il 18 luglio 1993. L’accordo includeva anche la rinuncia, da parte dei Walendu Bindi, ai diritti sulle rive del Lago Alberto, accordati alla comunità dei Bahema del Sud. Questo accordo non fu attuato, a causa dell’instabilità politica che caratterizzava questo periodo di transizione a livello nazionale.
Quando, nel 1996, è scoppiata la prima guerra della Repubblica Democratica del Congo, i conflitti irrisolti e relativi al controllo delle risorse, ai diritti fondiari e alle delimitazioni delle entità territoriali sono diventati un terreno fertile per i conflitti intercomunitari. Ma più in generale, la riproduzione e la permanenza delle violenze in Ituri sono il risultato dell’utilizzazione, da parte di personalità ed entità locali e regionali, di un conflitto locale imperniato sull’accesso alla terra, alle risorse disponibili e al potere economico e politico. La guerra è stata utilizzata come un modo per riorganizzare lo spazio sociale, economico e politico locale. La strumentalizzazione della guerra ha contribuito alla perpetuazione di una lotta tra i diversi gruppi di pressione che, composti dai signori della guerra locali e dai loro sponsor interni ed esterni, hanno condotto al ricorso di nuove strategie di regolamentazione socioeconomica e persino politica.
Il disordine, l’insicurezza e lo stato generale di impunità hanno favorito l’apparizione di nuovi gruppi militarizzati che permettessero di ottenere dei benefici economici, in riferimento all’identità etnica come parte integrante e centrale di strategie di controllo e di resistenza. L’epicentro della prima guerra nell’Ituri fu il territorio di Djugu dove, per molti anni, le popolazioni Hema e Lendu furono coinvolte in un accumularsi di tensioni basate su dispute fondiarie irrisolte.
Dal 1999, la guerra per l’accesso alle risorse naturali si è trasformata in una guerra per il controllo delle terre, dei mercati e, addirittura, delle strade di accesso ai mercati. Inoltre, ogni gruppo armato combatteva per il controllo di una o più miniere d’oro. I vari siti minerari sono stati oggetto di violenti scontri tra diversi gruppi armati che volevano assicurarsene il controllo. Lo stesso valeva per il controllo della pesca sul lago Alberto e di alcune vie commerciali. Ad esempio, nel 2002, il controllo della strada che porta verso il centro commerciale di Beni, nel Nord Kivu, è stato aspramente conteso tra Hema e Lendu.
In questo gioco di influenze e di controllo delle risorse, i Nande, tradizionalmente concorrenti degli Hema in affari economici, hanno logicamente sostenuto i gruppi Lendu. Queste rivalità commerciali sono spesso degenerate in operazioni di pulizia etnica contro i Nande, poi contro tutti quelli che erano considerati come degli stranieri. Sono state queste rivalità commerciali che hanno dato al conflitto dell’Ituri una dimensione più vasta, mediante l’implicazione dei Nande, attraverso l’APC, un gruppo armato del Nord Kivu, che ha appoggiato i Lendu, per controllare l’Ituri meridionale a beneficio dei Nande.
In breve, in Ituri, la guerra è stata la risultante di tre conflittualità: terre, commercio e politica, con l’implicazione delle élite delle principali etnie presenti sul territorio e tra loro concorrenti per l’accesso e il controllo delle risorse.
Se l’operazione militare internazionale Artemis e alcune procedure penali internazionali hanno posto fine al violento conflitto che ha devastato l’Ituri tra il 1999 e il 2003, altre violenze sono riprese in dicembre 2017. Ancora una volta, in queste violenze hanno opposto tra loro dei gruppi armati delle comunità Lendu e Hema. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, tra dicembre 2017 e settembre 2019, sono stati uccisi almeno 402 membri della comunità Hema. Sempre secondo tale rapporto, queste atrocità “potrebbero presentare elementi costitutivi di crimini contro l’umanità” o addirittura di “crimini di genocidio”. Sembra infatti che la stragrande maggioranza delle vittime sia stata presa di mira a causa della loro appartenenza alla comunità Hema.
I principali gruppi armati in Ituri e le loro affiliazioni etniche:
– UPC: Unione dei Patrioti Congolesi. Gruppo armato degli Hema del Nord (denominati anche Gegere), guidato da Thomas Lubanga. Questo gruppo si è diviso nel 2003.
– PUSIC: Partito per l’Unità e la Salvaguardia dell’Integrità del Congo. Gruppo armato degli Hema del Sud, guidato da Kahwa.
– FNI: Fronte dei Nazionalisti Integrazionisti. Gruppo armato dei Lendu del Nord, guidato da Njabu.
– FRPI: Fronte di Resistenza Patriottica dell’Ituri. Gruppo armato dei Lendu del Sud (denominati anche Ngiti), guidato successivamente da vari comandanti.
– FAPC: Forze Armate del Popolo Congolese. Gruppo armato senza base etnica, guidato dal “Comandante” Jérôme e attivo nel Nord Ituri.
– APC: Esercito Popolare Congolese. Ramo armato dell’RCD-K/ML.
– FDPC: Forze Popolari per la Democrazia in Congo. Gruppo armato degli Alur, guidato da Thomas Ucala, ma mai operativo.
– CODECO: Cooperativa per lo Sviluppo del Congo. Una milizia armata di obbedienza Lendu, ma non accettata dai notabili di questa comunità. Inizialmente era guidata da Justin Ngudjolo, sostituito dopo la sua morte, nel mese di marzo 2020, da Olivier Ngabi Ngawi.
– URDPC: Unione Rivoluzionaria per la Difesa del Popolo Congolese, una specie di prolungamento della CODECO.
1.4. Migrazioni più recenti e conflittualità
1.4.1. La migrazione nande
Alcune fonti fanno risalire la migrazione dei primi Nande al periodo della colonizzazione, intorno agli anni 1930. Essi si insediarono principalmente nel sud del territorio di Mambasa (distretto di Babombi), dove convivono con i Lesse, i Bila, gli Mbo, gli Ndaka e i Pigmei (Twa).
Molto più tardi, verso il 2008, si è assistito all’arrivo di altri gruppi Nande provenienti dal Nord Kivu e costituiti principalmente da migranti economici. Essi si sono stabiliti soprattutto nei distretti di Walese Vonkutu (asse stradale Luna – Komanda) e di Baniari Tchaby, dove hanno acquistato vaste distese di terre, entrando in conflitto con le comunità locali.
Questo vasto afflusso di migranti economici del 2008 ha messo in difficoltà i capi locali, che hanno visto aumentare il numero delle richieste di terreni agricoli da coltivare. Questa forte domanda di terre ha provocato un boom del mercato fondiario introducendo, nello stesso tempo, delle modalità di acquisizione dei terreni che sfuggivano al controllo dell’amministrazione locale e dei capi tradizionali locali, responsabili della distribuzione delle terre. Improvvisamente, queste transazioni hanno privato le entità locali (i distretti) dell’85% delle terre a disposizione delle loro comunità e hanno beneficiato i migranti Nande. Questa situazione ha provocato una tensione latente tra autoctoni e non autoctoni, ciò che rischia di degenerare in violenza.
Questo vasto afflusso di immigrati ha creato una nuova dinamica caratterizzata da una forte pressione demografica e una maggiore competizione per l’accesso alla terra e altre risorse naturali e ha contribuito a creare un clima di sfiducia reciproca e di tensione che potrebbe sfociare in violenza.
Ben presto, i Nande si sono dedicati al commercio del legname e dell’oro.
L’abbattimento delle piante è praticato soprattutto nei due distretti di Walese Vonkutu e di Banyari Tchabi. Questa attività di disboscamento da parte dei Nande ha avuto un ruolo importante nello sviluppo di conflitti, tra cui quello riguardante i confini tra entità locali limitrofi poiché, in foresta, spesso le delimitazioni non sono ben identificate. Inoltre, questa attività è spesso effettuata in circuiti mafiosi che sfuggono al controllo dello Stato e delle comunità locali che, di conseguenza, non ne traggono alcun beneficio in termini di sviluppo economico del territorio.
Inoltre, l’alto tasso di intensità di questa attività porta progressivamente alla distruzione della foresta, il che rappresenta un serio pericolo per l’ambiente e l’ecosistema della zona. Infine, tale attività provoca la progressiva perdita dei tradizionali mezzi di sussistenza dei pigmei.
I Nande praticano anche l’estrazione artigianale dell’oro, soprattutto nel territorio di Mambasa. Con il passare del tempo, questo tipo di commercio ha acquisito una dimensione etnica, perché quasi il 90% dei commercianti d’oro che operano a Mambasa sono Nande. Investendo in questo settore, i Nande orafo hanno aperto importanti rotte commerciali non solo verso Beni e Butembo, nel Nord Kivu, da cui provengono, ma anche verso l’Uganda, approfittando della loro appartenenza allo stesso gruppo etnico dei Konjo, che abita sulle montagne del Rwenzori, nella parte sudoccidentale dell’Uganda facilitando, in tal modo, la creazione di nuove vie commerciali transfrontaliere.
1.4.2. Le migrazioni dei Banyabwisha
I vasti spostamenti di popolazioni all’interno della RDCongo risalgono all’epoca coloniale, quando furono organizzati dalla colonizzazione per motivi economici in occasione della scoperta di miniere di rame nel Katanga e di oro nell’Ituri all’inizio del XX° secolo. Per quanto riguarda l’Ituri, la regione dell’Alto-Uelé fu la principale riserva di lavoro per le miniere d’oro e per le nuove piantagioni agricole. Tuttavia, nell’Alto-Uelé, il vasto reclutamento di giovani abili al lavoro raggiunse una soglia insostenibile per la sopravvivenza delle comunità locali. Perciò, già nel 1936, investitori e coloni presero in considerazione altri ambiti di reclutamento, come quello dell’immigrazione organizzata dei Banyarwanda nell’Ituri. È così che migliaia di lavoratori del Ruanda-Urundi furono reclutati per lavorare nelle miniere d’oro dell’Ituri.
È però alla fine degli anni 1990 che un numero significativo e sempre più crescente di Hutu ruandofoni, provenienti dal Nord Kivu e dal Sud Kivu (Masisi, Kalehe, ecc.), iniziò a stabilirsi nei due distretti di Boga e Tchaby, nel territorio di Irumu, “alla ricerca di nuovi spazi abitativi”. Successivamente, raggiunsero anche i distretti di Mitego e di Walese Vonkutu. Generalmente, essi arrivavano individualmente o in piccoli gruppi, dapprima in modo esplorativo, per poi chiamare il resto della famiglia, nucleare o allargata. Attualmente, il loro numero non è ben noto, ma alcune fonti parlano di alcune decine di migliaia di persone. Un deputato di Beni, Grégoire Kiro, ha dichiarato che potrebbero essere circa 50.000 – 60.000.
Con il passare del tempo, i nuovi arrivi sono diventati sempre più numerosi, con evidenti conseguenze dal punto di vista economico. L’aumento del numero di migranti ha, infatti, destato una crescente preoccupazione tra gli autoctoni, che hanno cominciato a temere di perdere i loro diritti ancestrali alla terra e gli altri diritti politici ed economici acquisiti nel passato.
I problemi causati dall’imponente insediamento di questi nuovi immigrati sono molteplici.
Da una parte, si tratta di problemi di ordine politico, soprattutto per quanto riguarda la rappresentanza politica ai diversi livelli del Paese.
Dall’altra, si tratta di problemi di ordine fondiario, estremamente conflittuali e relativi alla gestione del territorio, soprattutto perché, tra gli autoctoni la terra è proprietà collettiva, mentre tra i non autoctoni la terra, soprattutto acquistata e messa in valore, è proprietà privata e può essere lasciata in eredità ai propri discendenti. Inoltre, come altrove nella Repubblica Democratica del Congo, la competizione per l’accesso alle risorse naturali è inevitabile e genera tensioni che possono sfociare in conflitti violenti. La concomitanza di questi spostamenti di popolazioni con l’esistenza di giacimenti petroliferi nella regione, soprattutto nelle zone prossime al lago Alberto in Uganda, suscita molte speculazioni e sospetti che, a volte, conducono a teorie complottiste.
Il progressivo arrivo di migranti hutu ruandofoni viene analizzato dagli autoctoni anche sotto il profilo della storia recente del Nord Kivu e del Sud Kivu, con particolare riferimento alla presenza e all’attivismo di milizie armate composte da hutu ruandofoni e, addirittura, ruandesi, tra cui gli ex interahamwe, confluiti nelle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR). In effetti, gli autoctoni nutrono una grande diffidenza nei confronti dei nuovi migranti hutu, a cui attribuiscono una “dubbia nazionalità” e intenzioni poco chiare.
Tuttavia, a volte, alcuni autoctoni riconoscono che i nuovi arrivati apportano un notevole contributo, soprattutto per quanto riguarda la diversificazione dei prodotti agricoli e l’aumento della loro offerta sul mercato, con grande soddisfazione dei consumatori locali e urbani.
2. CAPITOLO 2: MOBILITÀ HUTU E FATTORI DI INTEGRAZIONE IN ITURI
2.1. Arrivo e insediamento degli Hutu nell’Ituri
La migrazione degli Hutu verso l’Ituri è probabilmente iniziata negli anni 1960 in modo sporadico e individuale. All’inizio molto discreto, questo fenomeno migratorio era quasi impercettibile dalle comunità autoctone e beneficiava di una buona accoglienza da parte loro. Poi esso ha subito una relativa accelerazione negli anni 1980 e una notevole intensificazione a partire dal 2008, soprattutto tra il 2012 e il 2013, durante la guerra condotta dal Movimento del 23 marzo (M23). Questa variazione di intensità ha modificato l’atteggiamento delle popolazioni locali. Piuttosto favorevole in occasione dei primi arrivi, ancora pochi, si trasformò poi in diffidenza, poi in una sorta di ostilità, man mano che il numero degli arrivi cresceva.
I migranti hutu si stabilirono principalmente nel distretto di Wanyali Tchabi (soprattutto a Malibongo, una comunità molto accogliente nei loro confronti), nel distretto di Walesse Vukuntu (in particolare a Matete e Zunguluka) e nel distretto di Bahema Mitego. Nel distretto di Bahema Boga, i migranti hutu si stabilirono in un solo raggruppamento (Bulei), sui quattro che componevano questo distretto e, più precisamente, in un unico villaggio, Malaya. Secondo varie fonti, i migranti hutu incontrarono una grande ostilità nel distretto di Walendu Bindi (Ngiti), in cui non poterono insediarsi.
Infine, dei migranti hutu si insediarono anche a Walu, tra i Babira e, in numero minore, sul lato di Berunda, nel distretto di Bahema Nord, a Djugu.
Secondo le loro dichiarazioni, i migranti hutu provenivano principalmente dalle province del Nord Kivu e del Sud Kivu. Nel primo caso, essi sarebbero stati originari dei territori di Masisi e di Rutshuru, in modo particolare dei distretti di Bahunde, Masisi, Kisonja e Tchuyi e, più precisamente, dei villaggi di Kishongo, Runyana, Kashunga, Bishusha e Kibabi. Nel secondo caso, sarebbero stati originari del territorio di Kalehe.
2.2. Fattori caratterizzanti la migrazione delle popolazioni hutu verso l’Ituri
Gli interessati hanno menzionato due fattori principali. Il primo è la ricerca di terre coltivabili. Il secondo è l’insicurezza derivante dalle varie guerre e violenze in corso nei loro territori d’origine.
È utile affrontare queste questioni dapprima dal punto di vista delle persone interessate, per poi confrontarlo con quello degli autoctoni residenti nelle zone di accoglienza.
2.2.1. I fattori della migrazione hutu dal punto di vista degli interessati
2.2.1.1. La ricerca di terre coltivabili
Secondo i migranti hutu, il primo fattore che ha causato il loro spostamento verso l’Ituri è la ricerca di terre coltivabili non lontane dal loro luogo di origine. La scelta dell’Ituri è stata determinata anche da molte sue somiglianze con la loro terra d’origine, sia per quanto riguarda la fertilità delle terre stesse che il clima favorevole alle attività agricole: «il suolo e il clima dell’Ituri sono simili ai nostri». Inoltre, scegliendo il territorio di Irumu, nel sud dell’Ituri, come loro zona di insediamento preferita, i migranti hutu hanno avuto il vantaggio di trovarvi già altri che, non solo hanno dato loro delle informazioni sulle modalità di viaggio, ma hanno offerto loro anche delle strutture di accoglienza e di alloggio. Il primo fattore della migrazione hutu è, quindi, stato la ricerca di terreni da coltivare, diventati rari nel Nord Kivu, a causa dell’elevato tasso di demografia e dell’alto livello di attività pastorizia con troppi capi di bestiame.
Numerosi studi hanno confermato la scarsità e la mancanza di terre nel Nord Kivu. I motivi principali sono due. Innanzitutto c’è un’alta concentrazione di popolazione, con una densità che, in alcune zone, supera i 600 abitanti per km2. Poi c’è la questione delle concessioni che, risalenti all’epoca coloniale, sono costituite da vaste aree spesso inutilizzate. Ci sono delle concessioni che non vengono utilizzate dagli aventi diritto, perché sono “assenti” e lasciano che le loro terre vengano “occupate” dalle popolazioni vicine. In questo caso, i contadini che occupano queste terre si trovano in una situazione di precarietà drammatica, perché possono essere “sfrattati” in qualsiasi momento. In altri casi, i proprietari o i titolari di queste concessioni affittano le loro terre a terzi o le affidano a dei mezzadri. In questo caso, i contadini o mezzadri non hanno altro mezzo per accedere alla terra se non quello di accettare delle forme di contratti, la cui natura dipende dalla volontà dei titolari delle concessioni stesse.
Infine, l’acquisto di terreni è ormai diventato una prerogativa delle persone facoltose, che usano la loro influenza sociale e il loro potere finanziario e politico per ottenere, spesso mediante corruzione, notevoli agevolazioni da parte dell’amministrazione e delle autorità tradizionali, a detrimento dei contadini. L’accaparramento delle terre da parte di pochi facoltosi crea così una crescente situazione di incertezza e precarietà, in cui i semplici contadini si trovano con poche terre, o addirittura senza terre e, quindi nell’impossibilità di poter mantenere le proprie famiglie.
2.2.1.2. La fuga dalla persistente insicurezza della provincia del Nord Kivu
Sempre secondo le dichiarazioni dei migranti hutu, un secondo fattore che ha causato la loro migrazione verso Ituri è la persistente insicurezza che caratterizza il Nord Kivu.
Un rapporto delle Nazioni Unite, redatto sulla situazione del 2009, sottolinea che, nel Nord Kivu, la presenza di gruppi armati incontrollati e la persistenza dei conflitti, soprattutto nelle aree rurali, hanno contribuito all’aumento dell’insicurezza, con la conseguente diminuzione della circolazione delle persone e delle merci.
Di conseguenza, l’attività economica della provincia si è rallentata, la disoccupazione è aumentata e il reddito della popolazione è drasticamente diminuito e la popolazione ha sempre meno avuto accesso ai beni essenziali e ai servizi di base (cibo, acqua potabile, elettricità, trasporti, sanità, istruzione, ecc.). Un altro fatto da segnalare è il massiccio reclutamento, spontaneo o forzato, di bambini e giovani, nei gruppi armati e nelle milizie locali. Tutto ciò ha contribuito a impoverire maggiormente la popolazione.
Le migrazioni degli Hutu si sono intensificate tra il 2008 e il 2013, un periodo in cui i conflitti nel Nord Kivu sono diventati sempre più violenti. È stato soprattutto tra il 2012 e il 2013 che si è osservato un vasto afflusso di migranti hutu verso l’Ituri. Questo periodo coincide con la guerra del Movimento del 23 marzo (M23), un movimento politico – militare a predominanza tutsi, anch’essi ruandofoni. La guerra si concluse il 7 novembre 2013, con la sconfitta dell’M23, dopo diciotto mesi dalla sua creazione.
2.2.2. Il punto di vista degli autoctoni sui fattori della migrazione degli Hutu verso l’Ituri
Da un lato, alcuni autoctoni credono ai motivi avanzati dai migranti hutu: da un lato, la ricerca di terreni da coltivare e, dall’altro, la fuga dall’insicurezza che prevale nella loro provincia di origine. Dall’altro, altri autoctoni contestano le ragioni addotte dai migranti hutu, a cui attribuiscono piuttosto delle intenzioni e ambizioni mantenute nascoste.
2.2.2.1. La ricerca di uno spazio vitale riconosciuta come legittima da parte di alcuni autoctoni
Attraverso una sua benevola accoglienza verso gli immigrati hutu, una parte degli autoctoni esprime la sua solidarietà nei loro confronti, rispondendo favorevolmente alla loro duplice ricerca di terre coltivabili e di sicurezza. Concretamente, questo atteggiamento si manifesta nel modo con cui una parte della popolazione autoctona, soprattutto quella di Irumu (Ituri), ha accolto questi migranti, in tempi diversi e per decenni. A parte alcune eccezioni, l’ospitalità offerta dalle autorità tradizionali autoctone è stata impeccabile, soprattutto all’inizio.
Varie testimonianze abbondano in questa direzione. Secondo un funzionario di Tchabi, i migranti hutu «sono venuti a Tchabi in gran numero, perché vi hanno trovato l’ospitalità del popolo Nyali. Si sono dedicati all’agricoltura, all’allevamento e alla produzione del legname». Questa versione è confermata da un abitante autoctono di Nyali: «li abbiamo accolti bene, abbiamo concesso loro degli appezzamenti di terre da coltivare, affinché potessero vivere». L’accoglienza va ben oltre la concessione di terre e, in determinate circostanze, comprende anche la condivisione di cibo e alloggio.
La modalità dell’accoglienza varia secondo i tempi, le zone e le generazioni. Sono i giovani che si sono mostrati più ostili. L’accoglienza da parte delle popolazioni autoctone è andata diminuendo con l’aumentare del numero dei migranti.
Mentre i primi arrivati erano stati accolti con grande benevolenza, questo atteggiamento è andato sempre più affievolendosi, man mano che il numero dei migranti aumentava, provocando un certo timore e preoccupazione all’interno delle comunità autoctone, che iniziarono a temerli per motivi demografici, economici, politici e di sicurezza.
2.2.2.2. La contestazione della ricerca di sicurezza
Una parte delle popolazioni autoctone non ritiene credibile il motivo della ricerca di sicurezza evocata dai migranti hutu. Alcuni ritengono che, tra i migranti hutu, vi siano anche degli ex miliziani che, nel 1994, avevano partecipato al genocidio ruandese e che si starebbero spostando verso l’Ituri, per allontanarsi dalla frontiera ruandese, al fine di fuggire dalla giustizia ruandese.
Il numero crescente dei migranti hutu nell’Ituri incute un grande timore che, conseguentemente, mobilita una certa opinione pubblica contro di loro. La loro identità è continuamente oggetto di dubbi, messa in discussione e presentata come un pericolo per gli autoctoni e per l’integrità territoriale della nazione congolese. Fin dall’inizio, alcune autorità tradizionali si sono mostrate molto ostili nei loro confronti e hanno rifiutato che si insediassero nei territori sotto la loro giurisdizione.
Ma concretamente qual è il problema? Che cosa si rimprovera ai migranti hutu?
Una parte degli autoctoni, a cui si aggiungono i Nande stabilitisi nell’Ituri, mette in discussione l’identità dei migranti hutu. Secondo loro, quelli che si definiscono “Banyabwisha” sono, in realtà, dei ruandesi che si sono rifugiati nel Kivu dopo il genocidio ruandese del 1994. Viene addirittura avanzata l’ipotesi che, tra loro, se non tutti, ci siano delle persone inviate direttamente dal governo ruandese, con documenti di identità congolese prodotti dai servizi del loro paese. In un’intervista, un abitante autoctono ha detto: «Ho l’impressione che questi migranti hutu stiano sfruttando le nostre terre, ma che stiano investendo nel loro paese di origine che è il Ruanda».
Questi sospetti e accuse fomentano la teoria del complotto. Tra la gente del posto, molti hanno affermato che i migranti hutu hanno probabilmente intenzioni poco chiare e un’agenda nascosta.
Questa ricerca ha rilevato l’esistenza di molti stereotipi che, fomentati dagli autoctoni nei confronti dei migranti hutu, ostacolano una convivenza pacifica tra autoctoni e migranti. Secondo uno di questi stereotipi, i migranti hutu possederebbero delle armi che essi potrebbero “usare, in futuro, per rivendicare la loro autorità sulle entità territoriali in cui si sono stabiliti con la forza”. Propagati attraverso differenti canali, questi stereotipi creano e rafforzano la sfiducia e la diffidenza tra le popolazioni autoctone e i migranti hutu.
2.2.3. Traiettoria migratoria e meccanismi di insediamento degli Hutu in Ituri: facilità e ostacoli
La problematica dell’insediamento dei migranti hutu in Ituri va presa in considerazione tenendo conto dei tempi. Secondo alcune testimonianze, il viaggio e l’insediamento nelle zone di accoglienza sono stati molto agevolati durante i primi anni della migrazione, quando il numero dei migranti era ancora basso e impercettibile. Man mano che, tra gli Hutu, aumentava la tendenza alla migrazione, cresceva anche la diffidenza delle popolazioni autoctone dell’Ituri e di quelle che essi incontravano sul loro cammino, in particolare i Nande. Questi ultimi avevano già avuto dei problemi con gli Hutu anche nel Nord Kivu.
2.2.3.1. Un’accoglienza calorosa
I meccanismi di accoglienza e di insediamento sono cambiati con il passare del tempo. Ciò che sembra essere rimasto immutato è l’atteggiamento di accoglienza benevola riservata ai migranti hutu da parte delle autorità tradizionali locali, purché ci siano i requisiti necessari per l’accesso alla proprietà delle terre: i documenti di viaggio in regola e il pagamento di una certa somma all’autorità tradizionale locale, cioè due capre per un ettaro di terra.
Per i primi arrivati, negli anni 1980, l’accoglienza è stata piuttosto calorosa, come racconta un migrante arrivato nel 1980: «Sono stato accolto molto bene dalla popolazione autoctona. In quel tempo, però, i membri della mia comunità erano ancora pochi».
Poi l’atteggiamento di accoglienza è andato sempre più raffreddandosi. Ecco la testimonianza di un migrante hutu arrivato nel 2008: «Sono stato accolto molto bene dai membri della mia comunità, che mi hanno presentato all’autorità tradizionale locale, alla quale ho pagato due capre per avere in cambio i un ettaro di terra da coltivare. La popolazione autoctona era indifferente, né calda né fredda».
Verso il 2012, l’accoglienza è passata dall’indifferenza alla diffidenza. Al loro arrivo in Ituri, alcuni migranti hutu furono arrestati e condotti a casa dell’autorità tradizionale. Dopo il controllo dei loro documenti di viaggio, furono rilasciati, tra l’indifferenza della popolazione autoctona. Poi, con il passare del tempo e l’aumento del numero dei migranti, l’indifferenza si è trasformata in diffidenza, perché la popolazione autoctona ha iniziato a considerare i migranti come “dei ribelli e degli stranieri”, anche se “il capo tradizionale locale aveva provveduto alla loro identificazione e al controllo dei loro documenti”.
Si constata che c’è un divario significativo tra l’atteggiamento delle autorità tradizionali, generalmente benevolo, e quello della popolazione autoctona, piuttosto indifferente e persino diffidente. Si nota anche un conflitto di tipo generazionale. Molti giovani accusano i capi tradizionali, solitamente anziani, di ingenuità e di complici, perché vendono dei terreni comunitari a dei migranti hutu, il cui obiettivo finale sarebbe la “balcanizzazione dell’Ituri”.
A parte i primi arrivati, le successive ondate di migranti hutu verso l’Ituri hanno beneficiato delle informazioni e della solidarietà di quelli che vi si erano già stabiliti precedentemente. Ciò avviene attraverso reti di comunicazione costituite da familiari o conoscenti che consentono ai candidati migranti di avere delle informazioni sulle condizioni e modalità di viaggio e di accoglienza. Quando arrivano a destinazione, i migranti vengono assistiti dai loro familiari o “fratelli” di comunità già presenti sul posto, che procurano loro cibo e terreni da coltivare temporaneamente, prima di presentarli al capo tradizionale locale per l’accoglienza ufficiale e l’acquisizione di terre coltivabili. E così il ciclo continua.
2.2.3.2. Stereotipi e diffidenza
Spesso i migranti hutu vengono arrestati, consegnati alla polizia, poi rimandati nei luoghi di origine. Questa è la testimonianza di uno di loro: «Durante il viaggio, verso Eringeti, abbiamo avuto dei problemi di insicurezza: alcuni sono stati uccisi, altri derubati o sequestrati dai ribelli. Ci siamo scontrati anche con la diffidenza di alcune comunità che ci consideravano come degli stranieri». La famiglia di questo migrante è riuscita a raggiungere l’Ituri, ma altre decine sono state rimandate indietro. Per esempio, il 19 maggio 2017, a Goma, a 63 famiglie hutu è stato impedito di continuare il loro viaggio verso Ituri. In aprile 2019, una decina di famiglie hutu, tra cui uomini, donne e bambini, sono state bloccate a Beni e impedite di andare in Ituri, dov’erano diretti, alla ricerca di terre coltivabili.
Di fronte a questi frequenti ostacoli, i migranti avrebbero deciso di trovare altre rotte (attraverso l’Uganda) che consentissero loro di raggirare la zona del Grande Nord, dove i Nande li bloccano e li respingono. Questi cambiamenti di percorso e di itinerario hanno fatto pensare alle popolazioni autoctone dell’Ituri che tale deviazione sia stata dettata dal volere evitare, per dubbi motivi, i controlli di identità effettuati sul loro percorso. Ancora una volta ritorna la teoria del complotto, ideata e veicolata da alcuni ambienti sociali e politici dell’Ituri.
[1] Testo integrale: https://www.pole-institute.org/sites/default/files/pdf_publication/Pole_etude_mobilite_hutu_version_finale%2010Nov18112020.pdf