L’INSEDIAMENTO UFFICIALE DEL SINDACO DEL COMUNE RURALE DI MINEMBWE (SUD KIVU) [3]
INDICE
1. CHI SONO I BANYAMULENGE?
2. DOSSIER MINEMBWE: SFIDE E PROSPETTIVE
a. L’inviolabilità dei territori ancestrali
b. La nazionalità congolese per acquisizione
c. Le prospettive di futuro
3. I DIVERSI ASPETTI DELLE VIOLENZE COMMESSE SUGLI ALTIPIANI DEL SUD-KIVU
a. Le violenze commesse sugli altipiani del Sud Kivu sono il risultato di un conflitto “etnico” o “intercomunitario”
b. Le violenze perpetrate sugli altipiani del Sud Kivu sono dovute alla creazione del comune rurale di Minembwe
c. Le violenze commesse sugli Altipiani sono il risultato di ingerenze straniere
d. Qual è allora la causa di questa terribile violenza?
4. IL “MINEMBWEGATE” O L’ANTIFONA DELLA “BALCANIZZAZIONE”
a. Lo spettro della balcanizzazione
b. Uno schema morale semplice che associa gli “stranieri” al “male” e gli “autoctoni” ai “buoni”
1. CHI SONO I BANYAMULENGE?
Nel mese di ottobre 1996, quando l’esercito ruandese di Paul Kagame attraversò per la prima volta la frontiera dell’allora Zaire di Mobutu, fu per smantellare i campi dei rifugiati hutu, dove si erano nascosti anche molti autori del genocidio ruandese del 1994, ma anche per venire in aiuto dei Banyamulenge, i Tutsi del Sud Kivu, che temevano di essere vittime di un genocidio simile a quello del Ruanda.
In agosto 1998, a Bukavu e a Goma, delle fazioni dell’esercito congolese, inquadrate da unità dell’esercito ruandese, si ribellarono al presidente Laurent Désiré Kabila e questo ammutinamento, che segnò l’inizio della seconda guerra del Congo, era stato presentato come una ribellione dei Banyamulenge.
Nel mese di giugno 2004, alcuni militari disertori dell’esercito congolese hanno occupato Bukavu, capoluogo della provincia del Sud Kivu, adducendo come motivo, ancora una volta, la necessità di proteggere i Banyamulenge.
Chi sono questi Tutsi congolesi, detonatori di queste ripetute guerre?
Nel Sud Kivu, inizialmente denominati Banyarwanda e successivamente Banyamulenge (dal nome della collina Mulenge, attorno alla quale si erano stabiliti), questi pastori tutsi di origine ruandese avevano lasciato il Ruanda in ondate successive: le prime risalgono al XIX° secolo, in seguito a un conflitto con l’allora Mwami (capo) Rwabugiri. Nel Nord Kivu, altri Tutsi denominati anch’essi Banyarwanda e già presenti nella regione di Rutshuru, furono raggiunti negli anni 1930 da altri gruppi di Ruandesi nell’ambito della “Missione di Immigrazione dei Banyarwanda” organizzata dall’autorità coloniale belga. Con dei Tutsi come caporali e degli Hutu come mano d’opera, l’obiettivo della missione era quello di intensificare la coltivazione del caffè e del tè sulle colline del Masisi e di consentire l’insediamento dei coloni europei, nonostante l’ostilità delle popolazioni autoctone, tra cui gli Hunde e i Nyanga. Dopo l’indipendenza, le terre di questi coloni caddero nelle mani dei pastori tutsi.
Perseguiti dagli Hutu.
Dopo l’indipendenza dei paesi dei Grandi Laghi nei primi anni 1960, molti Tutsi ruandesi si rifugiarono nell’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, perché perseguiti dal regime hutu ruandese. Arrivati nell’allora Zaïre, vi proseguirono gli studi e alcuni riuscirono a fare fortuna.
Ma la nazionalità di questi cittadini di origine ruandese è sempre stata messa in discussione, non tanto per lo sciovinismo o la xenofobia delle altre etnie congolesi, ma perché molti di questi “Banyarwanda” avevano assunto un atteggiamento opportunista, attraversando la frontiera e cambiando passaporto secondo i propri interessi. Inoltre, all’inizio degli anni 1990, un buon numero di giovani tutsi del Kivu si recò in Ruanda per arruolarsi nelle file del Fronte Patriottico Ruandese (FPR) che, creato da Paul Kagame a partire dall’Uganda, occupò Kigali, la capitale, in luglio 1994.
Divisioni interne.
In quella data, i Tutsi del Congo ritornarono in massa in Ruanda. Nel 1996, quando si trattava di combattere i “genocidari” hutu che si erano rifugiati nel Kivu, questi giovani tutsi, ormai diventati esperti militari, furono rimandati nell’allora Zaïre: anche se Congolesi e “Banyamulenge”, erano rimasti fedeli all’FPR, che li usò come sua ala armata nell’allora Zaïre. Questo uso militare dei giovani tutsi di origine congolese aumentò, non c’è da sorprendersi, il sospetto e persino l’odio delle popolazioni autoctone del Kivu, ormai prese dalla paura di vedere le loro terre invase e occupate dai Ruandesi in cerca di spazio vitale e di risorse economiche, utilizzando, come punto di ancoraggio, le minoranze ruandofone presenti nella regione. Le popolazioni civili di origine ruandese che vivevano nel Kivu furono quindi vittime di sospetti e violenze da parte degli altri gruppi autoctoni, il che rafforzò ulteriormente la determinazione di Kigali a intervenire negli affari congolesi.
Questi interventi ruandesi in Congo hanno creato delle divisioni all’interno della comunità Banyamulenge, poiché alcuni di loro hanno voluto vivere in armonia con i loro vicini congolesi e hanno rifiutato di lasciarsi strumentalizzare dal Ruanda. La rivolta di un giovane comandante munyamulenge, Patrick Mazunzu, che si era alleato con altri gruppi congolesi, tra cui dei Mai-Mai, era stata duramente repressa e, nel Sud Kivu, l’esercito ruandese ha bombardato alcune comunità di Banyamulenge che invece avrebbe dovuto proteggere! Nello stesso tempo però, l’attuazione degli accordi di Sun City non è riuscita ad eliminare l’ambiguità della situazione dei Banyamulenge: diventato vicepresidente della Repubblica responsabile della difesa e della sicurezza, il leader degli ex ribelli RCD, Azarias Ruberwa, lui stesso munyamulenge, non è riuscito o non ha voluto evitare l’ammutinamento di altri tre militari banyamulenge, Jules Mutebuzi, Eric Ruhorimbere e Laurent Nkunda. In giugno 2004, questi ultimi hanno attaccato e occupato la città di Bukavu per, secondo loro, proteggere ancora una volta la loro comunità banyamulenge da incombenti minacce. In realtà, questi “ribelli” e molti altri infiltrati erano dei “veterani” dell’esercito ruandese che, lasciati in Congo come cinghia di trasmissione di Kigali, si erano rifiutati di integrarsi nel nuovo esercito nazionale congolese. Ancora una volta, i crimini di guerra commessi da questi uomini (a Kisangani, nel 2002, fu Nkunda a far gettare i cadaveri delle vittime nel fiume, dopo averli zavorrati con pietre) hanno contribuito a concentrare la rabbia dei Congolesi sulla comunità Banyamulenge a cui questi assassini dicono di appartenere e di voler difendere.[1]
2. DOSSIER MINEMBWE: SFIDE E PROSPETTIVE
Secondo Ambroise Bulambo, professore di diritto all’Università di Kinshasa e membro della comunità Lega, il decreto che istituisce i comuni rurali non è conforme alla costituzione e alla legge e dovrebbe essere annullato con un nuovo decreto emanato dal Primo Ministro. Infatti, l’articolo 4 della Costituzione e l’articolo 46 della legge sulla decentralizzazione parlano semplicemente di comune. Da nessuna parte si parla di comuni rurali o urbani. A livello intenzionale, si constata che la creazione di questo comune si colloca nella linea di continuità della ribellione del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD) che, a suo tempo, aveva già creato un territorio di Minembwe, ciò che aveva già causato molti problemi. Ora si è cambiato nome e si parla di un comune rurale. Ma, come spiegato prima, secondo la legge il comune rurale non esiste. Per quanto riguarda la procedura giuridica, secondo l’articolo 46 della legge del 2008 sul decentramento, Minembwe non soddisfa le condizioni per essere elevato a comune, perché non è capoluogo di alcun territorio, ha una popolazione probabilmente inferiore ai 20.000 abitanti e non ha mai ricevuto il parere favorevole dell’Assemblea provinciale.
a. L’inviolabilità dei territori ancestrali
Inoltre, questo comune invade i territori “tradizionali” di altre comunità etniche, tra cui i Babembe, i Bafulero, i Balega e i Banyindu. Il professor Bulambo lo spiega così: il popolo dei Lega si identifica culturalmente con due fiumi: l’Ulindi e l’Elila e le loro sorgenti si trovano sugli Altipiani della catena dei monti Mitumba, verso Minembwe. Impossessarsi delle sorgenti di questi due fiumi significa violare le tradizioni profonde del popolo Lega, poiché esiste uno stretto legame emotivo e affettivo tra lui e le fonti dei fiumi Ulindi ed Elila. Inoltre, nel Bulega, nei pressi di Kasika, ci sono dei Nabatumba, originari della catena dei Mitumba. Ne consegue che il nuovo comune di Minembwe invade il territorio tradizionale lega. Lo stesso vale per i Bafulero, scesi da Nalwindi a Lemera e a Lubarika, vicino a Kasika. Secondo la cultura locale, non è possibile creare un nuovo territorio che invada i territori tradizionali di altri popoli. Ad esempio: se a Hidjwi ci fosse una comunità Bakanga di oltre 20.000 abitanti, condizione richiesta dalla legge per creare un nuovo comune, non è possibile farlo, perché invaderebbe il territorio dei Bahavu, già presenti in quella zona. Inoltre, non bisogna confondere i territori creati dai colonizzatori con i territori ancestrali che già esistevano prima dell’arrivo di Stanley. Quando arrivarono, i colonizzatori trovarono dei territori già strutturati: il Bubembe, il Bulega, il Bushi, il Buhavu ma, tra essi, non trovarono alcun territorio denominato Bunyarwanda, né Bunyamulenge.
Secondo la tradizione, la terra appartiene agli autoctoni, alle autorità ancestrali e l’articolo 3 della legge 0015/015 del 27 agosto 2015 relativa allo statuto dei capi tradizionali, stabilisce che l’autorità tradizionale è esercitata all’interno delle seguenti entità territoriali: il chiefdom, il raggruppamento e il villaggio organizzati secondo le tradizioni locali. Occorre precisare che, secondo la cultura tradizionale lega, non c’è terra senza proprietario e che, quindi, non è possibile creare una nuova entità senza il consentimento della comunità autoctona locale. Il diritto di proprietà è un diritto che si ottiene per tradizione (articolo 34 della Costituzione). I Balega e i Babembe hanno ottenuto questo diritto da tempo immemorabile e non hanno mai espresso la volontà di abbandonare le loro terre acquisite secondo la tradizione. Le autorità dello Stato non hanno alcuna facoltà di effettuare un esproprio di terre, nemmeno nei casi di pubblico interesse, se non dopo una sentenza positiva del tribunale amministrativo e il pagamento di un risarcimento. Tuttavia, anche in questo caso, la comunità lesa ha sempre la possibilità di appellarsi alla Corte africana dei diritti umani per denunciare ciò che potrebbe essere ritenuto come un atto di spoliazione di terre. Il decreto che crea il comune di Minembwe è quindi contrario all’articolo 34 della costituzione, poiché violerebbe il diritto alla proprietà acquisita secondo la tradizione.
Secondo la cultura lega e bembe, la terra non appartiene al capo tradizionale, ma a ciascun membro del clan. La terra appartiene a tutta la comunità in quanto tale.
Ma Minembwe si trova nel raggruppamento di Basimwenda, dei Babembe. Quindi in questo caso, la terra appartiene a tutti i Basimwenda, in quanto eredi comuni. Si tratta di una situazione simile a quella di un gruppo di fratelli a cui il padre lascia una casa e in cui ogni figlio ne diventa proprietario. Pertanto, non è possibile creare una nuova entità senza il consenso della comunità autoctona locale interessata. È in questo senso che la creazione del comune di Minembwe invade il territorio di un’entità già esistente, in questo caso il Territorio di Fizi.
C’è anche una guerra sulle date. Alcuni dicono che i Banyamulenge sono arrivati dal Ruanda nel XV° secolo, altri dicono che sono arrivati verso la fine del XIX° secolo o l’inizio del XX° secolo. Altri dicono verso il 1920 e altri ancora nel 1959. Non è questo il problema perché, secondo la tradizione, il fatto di arrivare anche à metà degli anni 1800, quindi ancor prima della creazione dello Stato Indipendente del Congo, non avrebbe loro permesso di diventare automaticamente proprietari delle terre. Per esempio: Stanley arrivò in Congo nel 1876, ma non si è mai detto che i britannici e i belgi siano diventati proprietari del Congo, perché Stanley vi arrivò nel 1876.
Anche se Diego Cao arrivò alla foce del fiume Congo nel 1422, non si è mai detto che, da quella data, la foce del Congo appartenga ai Portoghesi. Il motivo è che i Bakongo vi erano già presenti, ancor prima dell’arrivo di Diego Cao. Parallelamente, i Ruandesi giunti in Congo vi sono arrivati come migranti, non come proprietari della terra, perché vi hanno trovato delle popolazioni che erano già presenti. Quindi la data di arrivo dei Banyarwanda (Hutu e Tutsi) in Congo è un fatto secondario perché, qualunque sia la data del loro arrivo, avrebbero sempre trovato una terra già occupata da altri popoli: i Babembe, i Balega, i Banyindu e i Bafulero. Si tratta della legge del primo occupante.
b. La nazionalità congolese per acquisizione
Quando la costituzione congolese parla di Congolesi di origine o di popoli che avevano un loro proprio territorio, non sta parlando né dei Banyarwanda,né dei Banyamulenge, poiché essi non avevano alcun territorio proprio sul territorio congolese. In realtà, la nazionalità congolese dei Banyaruanda e dei Banyamulenge è una “nazionalità acquisita” per un decreto legge di Mobutu emanato nel 1972. È in quel momento che essi sono diventati Congolesi. Infatti, se essi fossero stati Congolesi di origine, perché allora Bisengimana avrebbe dovuto chiedere a Mobutu di firmare quel decreto? Quindi sapevano bene che non lo erano.
Come Congolesi, essi sono rappresentati in parlamento, hanno dei ministri al governo e occupano molte posti all’interno dell’esercito e della polizia.
E tutto questo in una percentuale molto più alta di quella delle altre etnie congolesi che, in certi casi, sono maggioritarie rispetto a loro, che sono una minoranza. Se hanno problemi di insicurezza, è perché essi stessi vi hanno contribuito: sono stati in prima linea durante la guerra dell’AFDL nel 1996-1997, la guerra dell’RCD nel 1998-2003, la guerra del CNDP nel 2005-2009 e la guerra dell’M23 nel 2012-2013. Infine, gli eventi di Minembwe permettono di sospettare che essi stiano tentando di creare, passo dopo passo, un piccolo stato prevalentemente tutsi e indipendente dalla Repubblica Democratica del Congo.
c. Le prospettive di futuro
Infine, in vista di una soluzione del conflitto derivante dalla creazione del comune di Minembwe, invece di ricorrere alle armi, chiunque può ricorrere al Consiglio di Stato o alla Corte Costituzionale, inoltrando una denuncia per violazione del diritto alla proprietà delle terre, poiché si tratta di un diritto di proprietà collettivo e individuale di ogni cittadino. Inoltre, per quanto riguarda una legittima richiesta di annullamento del decreto relativo alla creazione del comune di Minembwe, ci si può sempre rivolgere alle Corti e ai Tribunali per quanto riguarda l’aspetto giudiziario ed è sempre possibile intraprendere iniziative non violente per quanto riguarda l’aspetto politico.[2]
3. I DIVERSI ASPETTI DELLE VIOLENZE COMMESSE SUGLI ALTIPIANI DEL SUD-KIVU
Come altri conflitti dell’est della RD Congo, la crisi degli Altipiani del Sud Kivu è molto complessa, perché implica una serie di fattori conflittuali che comprendono diversi livelli, da quello locale a quello internazionale. I racconti che enfatizzano aspetti specifici e parziali o che danno spiegazioni semplicistiche, forniscono solo un tassello del puzzle. Ecco tre di questi racconti e perché, da soli, sono incompleti, se non imprecisi.
a. Le violenze commesse sugli altipiani del Sud Kivu sono il risultato di un conflitto “etnico” o “intercomunitario”
L’identità etnica ha svolto un ruolo importante nelle spiegazioni delle cause delle recenti violenze. Essa e ritenuta la causa del conflitto esistente tra i Banyamulenge, da un lato, e i gruppi che si definiscono “autoctoni” (i Babembe, i Banyindu, i Bafuliiru e i Bavira), dall’altro.
I numerosi conflitti che, sugli Altipiani, contrappongono i Banyamulenge ad altri gruppi etnici riguardano l’esercizio dell’autorità locale e il controllo delle terre e delle risorse, tra cui la riscossione delle tasse e la regolamentazione dei mercati, delle miniere e degli spostamenti del bestiame. Tuttavia, questi conflitti non si trasformano sempre in violenza armata. La violenza è opera soprattutto dei gruppi armati e delle milizie di “difesa locale”. Questi gruppi armati affermano di combattere per difendere determinate comunità etniche e sono spesso appoggiati da membri di queste comunità che cercano di proteggersi. Eppure la maggior parte dei cittadini comuni non è implicata nella pianificazione, nell’organizzazione, nella direzione, nell’istigazione o nella perpetrazione delle violenze. Non è quindi possibile attribuire questa violenza ai “gruppi etnici” in senso lato.
Ancora più importante, è necessario identificare e analizzare quando, perché e come i conflitti diventano violenti. Come dimostrato da varie ricerche effettuate, la violenza definita “etnica” è spesso motivata da una serie di altri motivi e obiettivi, tra cui conflitti interpersonali, concorrenza economica e politica e conflitti relativi alle terra e ad altri tipi di proprietà.
La narrazione dei “conflitti etnici” presuppone che ci siano due blocchi omogenei: i Banyamulenge e i cosiddetti gruppi “autoctoni”. Eppure questi gruppi sono spesso caratterizzati da molte divisioni interne, che si riflettono nella moltitudine di gruppi armati legati a una parte o all’altra.
Ci sono almeno tre gruppi armati Banyamulenge: i Twirwaneho, una coalizione di milizie locali che hanno anche un’ala politica; i Gumino, guidati da Shaka Nyamusharaba; e un gruppo armato comandato da un militare disertore delle FARDC, Michel Rukunda alias “Makanika”, che ha tra le sue file molti giovani Banyamulenge della diaspora residente in paesi limitrofi (Kenya, Ruanda, Burundi).
I gruppi armati legati ai Babembe, Bafuliru e Banyindu sono ancora più numerosi. Ci sono i Mai-Mai di Ebuela Mtetezi, a predominanza Bembe; i Mai-Mai Mulumba; i Mai-Mai Mupekenya e una serie di gruppi, principalmente Fuliru e Nyindu, che operano sotto il nome di “Biloze Bishambuke”.
Questi ultimi comprendono i gruppi di Ilunga, di Kashomba, di Mushombe e, nella zona di Minembwe, quelli guidati da Luhala Kasororo e Assani Malkiya.
Questi gruppi armati operano nell’ambito di ampie coalizioni, ma ci sono spesso delle tensioni e talvolta persino scontri tra gruppi che si ritiene stiano dalla stessa parte. Ad esempio, il 2 agosto, i Biloze Bishambuke, sotto il comando di Ilunga, si sono scontrati con le truppe di Kati Malisawa nei pressi del villaggio di Maheta, presumibilmente a causa di una discussione sorta dopo un furto di bestiame. Ciò indica che certi capi di gruppi armati, e i politici che li appoggiano, hanno anche degli obiettivi che sono diversi da quello della protezione delle loro comunità. Spesso aspirano a rafforzare la propria influenza politica ed economica, sia a livello locale che nazionale.
Tutto ciò indebolisce la tesi secondo cui la violenza è principalmente motivata da un “conflitto etnico”.
b. Le violenze perpetrate sugli altipiani del Sud Kivu sono dovute alla creazione del comune rurale di Minembwe
Un’altra frequente spiegazione della violenza, strettamente collegata alla narrativa del “conflitto etnico”, è che essa è causata dalla creazione del “comune rurale” di Minembwe, un’entità amministrativa locale decentralizzata. La creazione di questo comune risale a due decreti governativi pubblicati nel 2013 e 2018 e la nomina del sindaco e vice sindaco ad un atto di notificazione del mese di febbraio 2019.
La creazione di questo comune è senza dubbio motivo di conflitto. Si trova nel territorio di Fizi e occupa delle terre che, per tradizione, i membri della comunità Babembe ritengono loro. Essi infatti considerano la creazione del comune come un’invasione e un’occupazione delle loro terre ancestrali. Inoltre, vari di loro hanno contestato la nomina del sindaco, perché Munyamulenge. Ma soprattutto, la creazione del comune è considerata come il primo passo verso la restaurazione del territorio (entità amministrativa sub-provinciale) di Minembwe.
Infatti, durante la seconda guerra del Congo (1998 – 2003), l’amministrazione ribelle del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD), sobillato e appoggiato dal Ruanda, aveva creato il “Territorio di Minembwe”, che comprendeva gran parte degli Altipiani del Sud Kivu.
Questo “territorio” rispondeva a una richiesta formulata già da molto tempo dai Banyamulenge, ai quali le autorità coloniali avevano rifiutato di concedere un chiefdom o un raggruppamento, due entità amministrative locali generalmente formate su basi etniche. Di conseguenza, i Banyamulenge erano rimasti sottoposti all’autorità dei capi tradizionali di altre comunità autoctone. Il “Territorio”, in cui essi controllavano l’amministrazione, aveva risolto questo loro problema. Inoltre, in previsione di elezioni future, il Territorio, che è anche distretto elettorale, avrebbe consentito ai Banyamulenge di aumentare la loro rappresentanza politica in parlamento. Infatti, essendo minoritari in ciascuno dei tre territori (Fizi, Mwenga e Uvira) che si estendono fin sugli Altipiani, avevano avuto difficoltà a far eleggere dei loro propri candidati. Infine, il Territorio aveva avvicinato l’amministrazione locale agli abitanti di questa zona isolata, consentendo loro di ottenere certificati di nascita e altri documenti ufficiali con meno difficoltà e in tempi più brevi.
La creazione del territorio, ufficialmente abolita nel 2007, era stata fortemente contestata dagli altri gruppi etnici, che l’avevano considerata come un’occupazione delle proprie terre ancestrali. Inoltre, essa sembrava confermare la teoria del complotto, secondo cui i Banyamulenge sarebbero stati l’avanguardia di un’invasione straniera (ruandese), il cui obiettivo sarebbe stato quello di espropriare le terre dei gruppi “autoctoni” per impossessarsene e usurpare la loro autorità locale.
I membri di questi gruppi autoctoni hanno quindi un brutto ricordo del territorio di Minembwe. Inoltre, la creazione del Territorio di Minembwe ha provocato conflitti di leadership, a volte in corso ancora oggi. Per esempio, molti persone nominate in quel tempo hanno continuato a comportarsi come autorità locali de facto, anche se non ricoprono più incarichi ufficiali. Per questi motivi, il territorio di Minembwe conserva una valenza altamente simbolica, come indicatore di divisione e violenza.
La creazione del comune rurale di Minembwe evoca sentimenti molto simili, essendo al centro di lotte intercomunitarie per l’esercizio dell’autorità locale e la difesa dell’identità etnica. È diventata anche un caso politico a livello nazionale. Mentre importanti leader Banyamulenge, tra cui Azarias Ruberwa, attualmente ministro del Decentramento, sostengono la creazione di questo comune, molti politici Bembe, Fuliru e Nyindu, come Pardonne Kaliba, la osteggiano. Essa ha acceso un vivace dibattito anche tra i Congolesi della diaspora.
Tuttavia, la violenza sugli Altipiani del Sud Kivu e l’emergere della maggior parte dei gruppi armati implicati negli attuali scontri, sono anteriori alla creazione del comune di Minembwe. La violenza sugli Altipiani risale al 1996. L’attuale ciclo è iniziato nel 2016 e si è intensificato a metà del 2018. Questa escalation si è verificata per la prima volta nel raggruppamento di Bijombo. Questo raggruppamento non è compreso nel comune rurale di Minembwe, la cui area è molto più piccola di quella del Territorio (abolito) di Minembwe. Bijombo ha una dinamica di conflitto diversa da quella di Minembwe, perché ruota in larga misura intorno al posto del capo di raggruppamento, per il quale ci sono più contendenti appartenenti a diversi gruppi etnici. Un’altra importante zona di violenza è quella dell’Itombwe, anch’essa non inclusa nel comune rurale di Minembwe.
Insomma, anche se è un’importante fonte di conflitto e figura in primo piano nei discorsi dei belligeranti, la creazione del comune di Minembwe è solo uno dei tanti fattori degli scontri in corso.
c. Le violenze commesse sugli Altipiani sono il risultato di ingerenze straniere
Le coalizioni belligeranti che combattono sugli Altipiani comprendono anche gruppi armati stranieri, tra cui la Resistenza per uno Stato di Diritto in Burundi (RED-Tabara), il Fronte Nazionale per la Liberazione del Burundi (FNL) e il Congresso Nazionale Ruandese (RNC ). A volte, in questi gruppi ci sono anche dei militari degli eserciti dei paesi limitrofi in cui, peraltro, esistono reti di reclutamento e di approvvigionamento. D’altra parte, nell’est della RDCongo, diverse guerre sono state innescate proprio da ingerenze straniere. Quindi è facile concludere che i disordini sugli Altipiani sono il risultato di ulteriori interferenze.
Tuttavia questa spiegazione sembra ignorare i numerosi conflitti relativi all’esercizio dell’autorità locale e sopra citati. Sembra inoltre trascurare anche il ruolo dei politici provinciali e nazionali e della diaspora nel sostenere la mobilitazione dei gruppi armati e la polarizzazione etnica dei conflitti. Non si può nemmeno dimenticare che il linguaggio di “ingerenza straniera” è alquanto fuorviante, poiché porta a pensare che i conflitti sono generalmente opera di forze straniere che manipolano i Congolesi secondo i propri interessi.
Questo tipo di lettura trascura il fatto che i capi dei gruppi armati e i politici congolesi hanno un significativo margine di manovra rispetto alle forze straniere con le quali si alleano. Certi cambiamenti occasionali all’interno di queste alleanze testimoniano questa autonomia. Questi cambiamenti dimostrano anche che tali alleanze sono reciprocamente vantaggiose. Grazie ai loro alleati stranieri, i gruppi armati congolesi vedono aumentare la loro capacità militare, per esempio acquisendo armi pesanti. Ciò consente a questi gruppi di far prevalere la propria posizione nei conflitti relativi all’esercizio dell’autorità locale e all’accesso alle risorse naturali. Pertanto, l’implicazione di agenti stranieri non può essere preso in considerazione indipendentemente dalle dinamiche locali di conflitto e di violenza, poiché si intrecciano e si rafforzano a vicenda.
Detto questo, l’ingerenza straniera ha chiaramente contribuito ad un significativo aumento delle violenze, benché non ne sia la causa.
d. Qual è allora la causa di questa terribile violenza?
C’è un certo numero di meccanismi che si intrecciano gli uni con gli altri. In primo luogo, la narrativa della “violenza etnica” è diventata una profezia che si auto avvera: i conflitti e gli episodi di violenza sono visti principalmente attraverso un prisma etnico, anche se molte volte vi concorrono anche altri fattori. Ciò attiva un secondo meccanismo, che consiste nell’attribuire una responsabilità collettiva ad atti di violenza individuali. Di conseguenza, le popolazioni civili diventano vittime di attacchi perpetrati in rappresaglia per le violenze commesse dai gruppi armati. Questa mancanza di chiarezza nel saper distinguere le popolazioni civili dai gruppi armati è un fattore importante che genera violenza a scopo di vendetta. L’impunità generalizzata ha ulteriormente aggravato questa situazione: poiché i singoli autori delle violenze non sono obbligati a rendere conto, la responsabilità viene addossata ai gruppi nel loro insieme. Un altro meccanismo chiave è la militarizzazione, cioè la tendenza delle autorità locali e delle élite politico-militari a usare la forza e la violenza, per guadagnare terreno sia nelle situazioni di conflitto che nelle lotte per il potere. Tutto questo non implica solo i politici, gli uomini d’affari e i capi militari della RDCongo, ma anche gli attori governativi e altre élite della regione dei Grandi Laghi.
Tuttavia, l’emergenza e la persistenza dei gruppi armati non sono solo il risultato della militarizzazione: derivano anche da problemi di insicurezza locali derivanti dalla reciproca sfiducia tra le comunità. La presenza di gruppi armati considerati come difensori di particolari comunità etniche incita i membri di altre comunità a creare e a sostenere altri gruppi armati. La stessa logica spinge questi gruppi armati a mantenere un equilibrio militare del potere, ciò che motiva gli attacchi volti ad indebolire il nemico. I problemi locali di insicurezza si basano essenzialmente su una diffusa mancanza di fiducia nelle forze di sicurezza dello Stato, accusate di parzialità da tutte le parti. Sono anche radicati in una storia di violenza che risale alle guerre del Congo e che ha creato una profonda sfiducia tra i diversi gruppi.
Questi diversi meccanismi si svolgono a diversi livelli e si rafforzano a vicenda. Ad esempio, l’implicazione di attori armati stranieri è, in parte, il risultato delle strategie dei politici e dei capi militari che operano a livello nazionale. Una volta presenti, queste forze straniere aggravano i problemi di insicurezza locale e i conflitti relativi all’autorità e alle risorse locali. In questo modo, le diverse dinamiche di conflitto e di violenza si intrecciano tra loro. Le spiegazioni mono causali, come quella della “violenza etnica”, non rendono giustizia a questa complessità. In effetti, possono esacerbare la situazione. Accentuano ulteriormente le identità e legittimano l’attribuzione della responsabilità delle violenze commesse dai gruppi armati alle comunità civili. Nel descrivere le violenze commesse nell’est della RDCongo, occorre quindi sforzarsi di trovare un linguaggio analitico adeguato.[3]
4. IL “MINEMBWEGATE” O L’ANTIFONA DELLA “BALCANIZZAZIONE”
Il comune rurale di Minembwe, un’entità amministrativa locale ma non di diritto tradizionale, è situato sugli altipiani del Sud Kivu, teatro di tensioni tra i Banyamulenge “ruandofoni” e i Babembe “autoctoni”. Il recente insediamento del sindaco di questo comune ha accentuato le divisioni già esistenti. Per gli uni si tratta di un tentativo di pacificazione; per gli altri, invece, si tratta di un atto di provocazione.
Perché l’insediamento del sindaco di un comune locale ha creato tanta agitazione anche a livello nazionale? Quando si analizza il linguaggio usato, la risposta diventa subito più chiara: Minembwe evoca lo spettro della “balcanizzazione” che affiora regolarmente nel dibattito politico congolese.
La creazione di questo comune è vista come un tentativo intrapreso dai Banyamulenge, un popolo di lingua kinyarwanda e generalmente considerato come appartenente all’etnia “tutsi”, di voler controllare il potere locale nella regione. Si tratterrebbe quindi di un primo passo di un piano di smembramento della RD Congo, in vista dell’annessione di alcune parti dell’est congolese ai paesi vicini, soprattutto al Ruanda, al fine di creare un cosiddetto impero “Hema / Tutsi”.
In questo progetto, i Banyamulenge appaiono come degli “stranieri” o degli “invasori” che tentano di usurpare la terra e l’autorità di altri gruppi etnici che si considerano “autoctoni”. Il discorso sulla balcanizzazione va quindi di pari passo con la messa in discussione dello statuto dei Banyamulenge come cittadini congolesi.
a. Lo spettro della balcanizzazione
Il discorso sulla balcanizzazione comporta una serie di caratteristiche che lo rendono un attraente slogan per una coesione di gruppo. Prima di tutto è semplice. Fornisce una visione mono causale e chiara sull’attuale malessere politico ed economico, occultando il fatto che quest’ultimo è il prodotto di un complesso insieme di fattori. Inoltre, getta la responsabilità dei problemi del paese sugli “stranieri” e gli “outsider”, sviando in tal modo l’attenzione dei politici congolesi e di tutti quelli che occupano posti di responsabilità. Inoltre, concentra l’attenzione sui problemi di identità etnica, bloccando così il dibattito sulle riforme socio-economiche, tanto necessarie in uno dei paesi più poveri del continente. Anche nella RD Congo, l’insistenza sul problema dell’immigrazione è diventato un modo per evitare di parlare e di riparare i disastrosi effetti socio-economici delle riforme neoliberiste nel mondo.
b. Uno schema morale semplice che associa gli “stranieri” al “male” e gli “autoctoni” ai “buoni”
Il discorso sulla balcanizzazione è utilizzato per il suo forte richiamo emotivo che assicura un grande impatto sulle persone e sulle popolazioni locali: fa appello a dei sentimenti di appartenenza etnica profondamente radicati e rimanda ad uno schema morale semplice che associa gli “stranieri” ai “cattivi” e le popolazioni “autoctone” ai “buoni”.
Inoltre, evoca il trauma delle violenze subite durante le due guerre del Congo e i successivi conflitti armati, in cui l’ingerenza militare dei paesi limitrofi, soprattutto del Ruanda, ha svolto un ruolo cruciale. Nel caso specifico di Minembwe, l’argomento della balcanizzazione evoca anche certi timori di erosione dell’autorità tradizionale, elemento di identità etnica, giacché i capi tradizionali esercitano la loro autorità su dei gruppi etnici e dei territori specifici.
A causa del suo forte potenziale di mobilitazione e della spiegazione semplice, benché imperfetta, che offre, il discorso sulla balcanizzazione sta emergendo in un momento in cui l’incertezza e la concorrenza di tipo politico si combinano insieme. L’attuale impasse legata alla difficile convivenza tra Verso il Cambiamento (CACH) del presidente Tshisekedi e il Fronte Comune per il Congo (FCC) dell’ex presidente Kabila e la loro lotta per il potere lo stanno illustrando molto bene.
In questo periodo di instabilità, l’argomento della balcanizzazione viene usato per fare pressione e screditare gli avversari. Permette anche di dimostrare il suo potere suscitando la mobilitazione popolare. Ciò non significa che esso sia sempre utilizzato in modo deliberato e calcolato, ma che le circostanze politiche incitino a utilizzarlo.
Questo schema rimarrà d’attualità anche per il prossimo futuro. L’attuale impasse politico sembra inserirsi perfettamente in uno schema di posizionamento (pre) elettorale che condurrà al mantenimento sia della concorrenza che dell’incertezza sul piano politico. Finora non si percepiscono vere riforme socioeconomiche, il che incoraggia le élite a mantenere l’attenzione sulle questioni di identità etnica. Per lo stesso motivo, la nozione di cittadinanza “civica” tarda a prendere piede. Infine, l’ingerenza militare dei paesi limitrofi rimane una realtà, il che dà credito al discorso sulla balcanizzazione. Ci si può quindi aspettare che si continui a riciclare gli stessi discorsi politici.[4]
[1] Cf Colette Breckman- letemps.ch, 03.06.2004
[2] Cf https://www.youtube.com/watch?v=OhAxzyN0u7o
[3] Cf Judith Verweijen – blog.kivusecurity.org, 01.09.’20 https://blog.kivusecurity.org/fr/pourquoi-la-violence-dans-les-hauts-plateaux-du-sud-kivu-nest-pas-ethnique-et-autres-idees-recues-sur-la-crise/
[4] Cf Judith Verweijen – Jeune Afrique, 28.10.’20