INDICE
EDITORIALE: Gruppi armati – tra massacri e interessi economici e politici
KIVU
Le Forze Democratiche Alleate (ADF)
Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR)
Il Movimento del 23 Marzo (M23)
Il processo contro i presunti implicati nell’assassinio del Colonnello Mamadou Ndala
KIVU
Le Forze Democratiche Alleate (ADF)
Il 21 ottobre, il Centro per la Governance (CEGO) ha dichiarato, in un comunicato stampa, che i massacri perpetrati sul territorio di Beni durante il mese d’ottobre dimostrano l’estrema e persistente fragilità delle forze di sicurezza congolesi.
Il CEGO ha notato con preoccupazione che l’improvviso deterioramento della sicurezza smentisce categoricamente le dichiarazioni ufficiali sul ricupero e controllo delle roccaforti dei ribelli ugandesi delle Forze Democratiche Alleate / Esercito Nazionale per la Liberazione del Uganda (ADF-Nalu), in seguito all’operazione militare “Sokola 1” intrapresa e condotta con pompa dalle Forze Armate della RDCongo (FARDC) ed enfatizzata attraverso una campagna sistematica dei mezzi di comunicazione.
In realtà, le operazioni “Sokola” erano già da lungo tempo minate da altri fattori inquietanti, tra cui la morte improvvisa e misteriosa degli ufficiali Mamadou Ndala e Lucien Bauma, il mancato pagamento dei salari dei militari impegnati sulla linea del fronte e, soprattutto, l’implicazione di ufficiali militari nel contrabbando e nel commercio illegale delle risorse naturali, tra cui il legno, l’oro e il coltan. Tutti questi fattori hanno contribuito a un deterioramento generale della fiducia tra le truppe impegnate nell’operazione “Sokola”.
Secondo fonti locali, infatti, tra gli ufficiali generali dispiegati nella regione esistono frequenti litigi originati dalla pratica del commercio delle risorse naturali, un commercio finanziato, per altro, dai fondi che dovrebbero essere utilizzati per pagare i salari dei militari. Tra le cause di deterioramento del clima in seno alle FARDC si cita anche la decisione del governo congolese di sostituire le truppe dell’Unità di Rapida Reazione (UPR), precedentemente comandate dal colonnello Mamadou Ndala, con altre truppe meno addestrate e sprovviste di mezzi.
Davanti a massacri di tale crudeltà, le popolazioni civili hanno bisogno di protezione e di assistenza da parte delle autorità locali e nazionali. Invece, sono proprio queste ultime che chiedono alla popolazione una maggior vigilanza e una maggiore collaborazione con le FARDC, soprattutto nel settore delle informazioni sull’avversario, ciò che è in contrasto con l’obbligo dello Stato di garantire la sicurezza delle persone civili.
Il CEGO teme che la crescente insicurezza e gli appelli all’autodifesa rivolti alle comunità aprano la strada alla proliferazione e alla persistenza dei gruppi armati, con il rischio di incrementare le violazioni dei diritti umani.
È per questo che il CEGO raccomanda:
Al governo congolese:
– di prendere delle misure per porre fine alla crescente insicurezza nel territorio Beni;
– di aprire delle inchieste sulla vera origine degli attacchi e i massacri perpetrati sul territorio di Beni contro le popolazioni civili e perseguire in giustizia gli autori e i complici di questi massacri;
– di aprire delle inchieste sull’indebita malversazione dei salari dei militari da parte di certi ufficiali e sull’attività commerciale illegale in cui sono implicati altri ufficiali militari;
– di rivedere la decisione di dispiegare le truppe meno formate a scapito delle Unità di Rapida Reazione che hanno dimostrato un alto grado di professionalità e di capacità;
– di effettuare dei cambiamenti nella catena di comando della zona operativa di Beni, al fine di disporre di un comando al di sopra di ogni sospetto.
Ai finanziatori internazionali:
– Di condizionare l’appoggio finanziario e tecnico all’obbligo, da parte del governo congolese, di rispettare i diritti umani e di lottare contro l’impunità all’interno delle forze di sicurezza.
Alla Monusco e, in particolare, alla Brigata d’intervento:
– di dispiegarsi urgentemente nelle zone colpite dall’attivismo dei gruppi armati, soprattutto sul territorio di Beni.[1]
Il 29 ottobre, durante la notte, presunti ribelli ugandesi dell’ADF avrebbero ucciso 14 persone nelle località di Bango e Kampi ya Chui, in cui ci sono miniere d’oro frequentate da minatori artigianali, a una ventina di km. da Eringeti nel territorio di Bunia e a 70 km. a nord della città di Beni (Nord Kivu). I sopravvissuti che sono fuggiti e che sono arrivati ad Eringeti hanno affermato di aver scoperto i corpi delle vittime il mattino del 30 ottobre. Avendo notato che alcuni loro compagni non si erano presentati al lavoro, sono andati a cercarli nelle loro capanne ed è stato allora che hanno scoperto dei corpi senza vita, per la maggior parte uccisi all’arma bianca. Le autorità locali spiegano che, in quei due posti, non c’è alcun vero villaggio e che la gente vi arriva, alcuni in cerca d’oro e altri per coltivare dei campi. Gli agricoltori costruiscono delle capanne, ciascuno nel suo vasto campo, mentre i minatori vivono ognuno nel proprio angolo. Ciò lascia agli aggressori il tempo di operare, senza che i vicini se ne rendano conto.[2]
Il 30 ottobre, la federazione delle ONG locali ha annunciato che nove nuovi corpi di civili assassinati sono stati scoperti in varie località del territorio di Beni, nel Nord Kivu e teatro di innumerevoli massacri nel mese di ottobre. «Abbiamo scoperto altri morti. Il bilancio ormai è di 93 persone uccise. Questa mattina è stato ritrovato il corpo di una donna bruciata nella sua capanna e, più lontano, i corpi del marito e di un agricoltore, uccisi a colpi di machete», ha affermato Teddy Kataliko, presidente della Società civile del territorio di Beni, precisando che i corpi sono stati scoperti a Mavivi, a 15 chilometri a nord della città di Beni. Gli altri corpi sono stati trovati alcuni giorni prima, più a nord, a Kokola e presso la strada Oicha-Eringeti-Kaynama.
Inoltre, Teddy Kataliko ha fatto notare che l’operazione militare Sokola non ha, finora, raggiunto tutte le zone in cui sono presenti i miliziani dell’ADF, che essa si è “indebolita” negli ultimi tempi, soprattutto a partire dalla morte improvvisa, lo scorso agosto, del generale Jean-Lucien Bahuma che conduceva le operazioni e che non si è tenuto conto del fatto che l’ADF dispone di una vasta rete di intelligence e di relazioni economiche che gli ha permesso di disperdersi durante gli attacchi subiti per poi riorganizzarsi in seguito. Secondo fonti prossime all’amministrazione locale, sarebbero necessari alcuni cambiamenti a livello della catena locale di comando dell’esercito e della polizia nazionale, poiché si è constatata la complicità di alcuni ufficiali militari con i miliziani dell’ADF.[3]
Il 1° novembre, nella notte, uomini armati hanno ucciso undici persone nella città di Beni, situata a più di 350 km a nord di Goma (Nord Kivu). La società civile parla di 14 morti, tra cui due soldati. Questo massacro è stato perpetrato poche ore dopo la partenza del Capo dello Stato Joeph Kabila dalla città di Beni, dove era rimasto per quattro giorni. Il 31 ottobre, nel suo discorso alla popolazione di Beni, Joseph Kabila aveva chiesto alla Monusco di rafforzare la sua presenza nel territorio di Beni, per far fronte ai problemi d’insicurezza. Il Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite nella RDCongo, Martin Kobler, aveva accolto con favore tale richiesta.[4]
Secondo diversi testimoni, gli aggressori erano più di una quindicina, indossavano l’uniforme militare dell’esercito congolese e parlavano swahili con accento ruandese. Entrambi gli indizi seminano il dubbio tra la popolazione locale che comincia a credere che degli ex ribelli del M23 stiano progressivamente ritornando nel Nord Kivu dal Ruanda e dall’Uganda, sotto la copertura dell’ADF / Nalu o, addirittura, come militari congolesi sbandati dissimulati sotto l’uniforme dell’esercito regolare. Secondo il sindaco di Beni, Bwanakawa Nyonyi, è troppo presto per trarre delle conclusioni e commenta: «un accento ruandofono può essere scambiato per qualsiasi cosa». Tuttavia, le autorità ammettono di stare esplorando nuove piste di indagini sui recenti attacchi come, per esempio, possibili collaborazioni tra i ribelli ugandesi dell’ADF e i membri del M23 o di un altro gruppo armato.[5]
Il 3 novembre, il sindaco di Beni, Nyonyi Bwanakawa, ha annunciato un coprifuoco in città, per far fronte all’aumento dei massacri. Nyonyi Bwanakawa ha raccomandato la cessazione di ogni attività a partire dalle 18h30. Gli abitanti di Beni dovrebbero rimanere in casa fino alle 6h00 del mattino. Il sindaco ha affermato che «il coprifuoco permette ai servizi specializzati, tra cui l’esercito e la polizia, di riconoscere subito il nemico quando, durante le pattuglie notturne, incontrano qualcuno fuori casa. Questa disposizione durerà quanto sia necessario».
Da parte sua, la società civile del Nord Kivu ha chiesto al Capo dello Stato, Joseph Kabila, di dichiarare lo stato di emergenza nel territorio di Beni.[6]
Il 3 novembre, nel pomeriggio, si sono registrati degli scontri tra l’esercito congolese e i ribelli ugandesi ADF nei pressi di Beni, all’interno del Parco Nazionale dei Virunga. Il 4 novembre, i combattimenti sono continuati a Munzambay, a Mayangose e a Tubameme. Secondo fonti prossime alle FARDC, si parla di tre morti, tra cui un ufficiale dell’esercito congolese e due membri dell’ADF.[7]
Il 5 novembre, il direttore dei servizi informativi della Monusco, Charles Bambara, ha annunciato che «la polizia della Monusco ha istituito in collaborazione con la polizia nazionale congolese una strategia operativa di lotta contro l’insicurezza nel territorio di Beni che ha reso possibile l’arresto di 200 sospetti, tra cui alcuni membri del gruppo armato ADF». Bambara ha dichiarato che «questi arresti hanno portato al sequestro di armi, munizioni, bombe, radio e molti altri effetti militari». Per queste operazioni, la Monusco ha fornito “supporto logistico”. Il 1° novembre, le autorità provinciali avevano già presentato alla popolazione alcune persone sospette che si stavano preparando per attaccare il mercato di Beni con bombe artigianali e con machete, arma quest’ultima utilizzata anche nei recenti massacri.[8]
Il 12 novembre, nel corso d’una conferenza stampa a Goma, il governatore della provincia del Nord Kivu, Julien Paluku, ha denunciato l’esistenza di un macabro progetto di una nuova ribellione in gestazione a partire dal territorio di Beni. Mbusa Nyamwisi, presidente del RCD-KML è citato come il principale responsabile di questa nuova ribellione denominata Forze Ecumeniche per la Liberazione del Congo (Forc). Julien Paluku ha accusato certe personalità di Beni e Butembo, tra cui Mbusa Nyamwisi, di essere gli autori intellettuali dei massacri commessi in ottobre nel territorio di Beni. Julien Paluku basa la sua argomentazione su dichiarazioni di alcuni miliziani delle ADF che sono stati catturati e che erano stati membri dell’ex ribellione RCD-KML e attuale partito politico di Mbusa Nyamwisi. Infatti, due giorni prima, a Beni, sono stati catturati due uomini armati che hanno affermato di essere membri del RCD-KML. Dopo l’interrogatorio hanno confessato, afferma Julien Paluku, di essere stati reclutati da Mbusa. Hanno ammesso, secondo lui, che il loro gruppo Forc aveva attaccato la località di Ngadi e di aver fatto esplodere la cisterna di Set-Congo a Beni.[9]
Nelle ultime settimane, la Missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco) è spesso oggetto di accuse di ogni tipo da parte della popolazione di Beni e dintorni. Di notte, i Caschi Blu trasporterebbero dei ribelli ADF-Nalu in elicottero e porterebbero loro cibo, rifornimenti e armi. Alcuni abitanti arrivano perfino ad affermare che la Monusco distribuirebbe dei machete. Ma tutti affermano di non aver mai visto con i propri occhi, ma di aver ricevuto tali informazioni da commercianti di passaggio. Chi diffonde queste voci? E per quale scopo? Per il numero 2 della Monusco, Wafy Abdallah, si tratta di una campagna di disinformazione organizzata. Egli spiega che «l’ADF ha una lunga presenza a Beni. Così hanno potuto reclutare dei giovani del posto. Secondo alcune stime, oggi quasi il 40% dei combattenti dell’ADF sarebbero originari del territorio di Beni. Cercano quindi di intossicare la popolazione locale per sollevarla contro le FARDC e la Monusco al fine di paralizzare le operazioni militari in corso». Infatti, una delle conseguenze della diffusione di queste voci è che la popolazione cerca a volte d’impedire alle forze della Monusco di circolare e di condurre le ordinarie operazioni di pattuglia, richieste invece dalla situazione d’insicurezza in cui vive la stessa popolazione.[10]
Secondo Caroline Hellyer, giornalista, analista della politica e specializzata nelle questioni relative al Grande Nord del Nord Kivu, è possibile che i recenti massacri commessi nel territorio di Beni siano opera dell’ADF, ma potrebbero anche essere stati commessi da alcuni miliziani Mai-Mai aventi stretti legami con l’ADF.
Caroline Hellyer ha fatto riferimento a quella vasta operazione militare denominata Sokola, in seguito alla quale le principali basi dell’ADF sono state distrutte, ciò che ha costretto l’ADF a ritirarsi nella foresta e a dividersi in piccoli gruppi. Ma occorre ricordare che l’ADF ha vissuto nell’est della RDCongo da oltre 25 anni, tessendo forti connessioni locali. Per questo, l’ADF non è un gruppo dai contorni ben definiti. I membri dell’ADF si sono mescolati con la popolazione.
Alcuni di loro possono essere dei vicini di casa. Altri possono essere attivi solo temporaneamente.
In effetti, si tratta di una rete. Quando hanno interessi comuni, l’ADF e certi gruppi armati Mai-Mai possono lavorare insieme, per poi dissociarsi quando non ci sono più interessi comuni. L’ADF è come le scatole cinesi. C’è una scatola interna, il nucleo duro, che è impossibile da raggiungere, ma più ci si allontana dal centro, diventa sempre più difficile dissociare l’ADF dai gruppi armati Mai Mai. Negli ultimi anni, i capi dei gruppi armati che formano questa rete si sono arricchiti moltissimo, lavorando al servizio di politici locali, di uomini forti locali e di gruppi di interesse economico. È un errore separare l’ADF da quell’ambiente. Si tratterrebbe di una lettura pericolosa della situazione. Queste reti criminali hanno spesso preso il sopravvento su certi settori del commercio, della società civile, dell’esercito … Sono reti transfrontaliere che sono estremamente forti. L’ADF ne fa parte ed è ciò che gli ha permesso di sopravvivere così a lungo.
Ci sono anche degli ufficiali dell’esercito molto corrotti che sono complici dei gruppi armati, tra cui l’ADF. Altri intrattengono delle relazioni puramente commerciali che, partendo da Kisangani (Provincia Orientale), passando per Beni e Butembo (Nord Kivu), attraversano la frontiera e raggiungono l’Uganda. Si tratta di vere e proprie relazioni d’affari. Il Grande Nord del Nord Kivu è alla frontiera con l’Uganda, una frontiera commerciale molto importante. Ci sono tutti i tipi di traffici, non necessariamente visibili dall’esterno, perché si tratta di reti commerciali informali e segrete … ma con decine di milioni di dollari che circolano. Il Grande Nord del Nord Kivu è una zona ricca di miniere d’oro, il cui traffico raggiunge l’Uganda e il Burundi. E l’insicurezza serve come uno “strumento politico”, è ciò che impedisce che le cose cambino. Sul posto, è questo che la gente intende per “politica”.
Fa comodo a tutti etichettare tutto ciò che succede come commesso dall’ADF. È il modo migliore per mettere fuori uso il presidente Joseph Kabila, l’esercito congolese e la Monusco. Attribuire la perpetrazione dei massacri all’ADF permette di inviare tutti i tipi di messaggi, come “il presidente Kabila non controlla il territorio”, “l’esercito non riesce a sconfiggere i gruppi armati”, “la Monusco e le Nazioni Unite non riescono a proteggere le popolazioni civili”. La disinformazione è utilizzata come strumento politico. È per questo che una soluzione puramente militare non risolverà nulla, occorre trovare soluzioni politiche locali, incrementare lo sviluppo della regione e creare posti di lavoro.[11]
Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR)
Il 3 novembre, in una lettera indirizzata al presidente congolese Joseph Kabila, a Martin Kobler, responsabile della Monusco, alle autorità della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa australe (SADC) e della Conferenza Internazionale per la Regione dei Grandi Laghi (CIRGL), i ribelli ruandesi delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) hanno informato la Monusco e le autorità di Kinshasa della loro “disponibilità” ad effettuare una visita di ricognizione sul luogo scelto per la loro delocalizzazione temporanea a Kisangani, nel nord-est della RDCongo.
Dopo aver a lungo rifiutato, le FDLR sembrano ora accettare l’idea di de-localizzare i loro membri in un centro di raggruppamento abilitato dalla Monusco in un campo militare dell’esercito congolese a Kisangani.
Il “Generale Maggiore” Victor Byiringiro, capo del gruppo armato ruandese, ha precisato che «questa visita di controllo da parte di un gruppo misto composto da delegati del governo congolese, della SADC, della Monusco e delle FDLR (…) aiuterà a sensibilizzare i 200 membri delle FDLR attualmente raggruppati nei campi di transito di Kanyabayonga, nel Nord Kivu, e di Walungu, nel Sud Kivu, affinché possano accettare il loro trasferimento a Kisangani, a partire dal 17 novembre». La Forge Fils Bazeye, un dei portavoce delle FDLR, conferma la decisione del gruppo armato e afferma che «si tratta di un altro gesto della nostra buona fede» e ricorda il loro impegno di trasformare la loro insurrezione in lotta politica all’interno del Ruanda.
I paesi della regione avevano concesso a questi ribelli ruandesi un ultimo ultimatum di sei mesi – fino al 2 Gennaio 2015 – per deporre volontariamente le armi. Resta da vedere se quest’ultimo annuncio da parte delle FDLR sarà, questa volta, realmente accompagnato da un’azione di trasferimento e di raggruppamento a Kisangani.
In linea di principio, questo nuovo annuncio da parte dei ribelli Hutu ruandesi, questa volta visto positivamente da molti osservatori, dovrebbe essere un passo significativo verso la normalizzazione della situazione della sicurezza nelle province del Nord e Sud Kivu. La grande incognita del momento, è la data effettiva dell’inizio delle operazioni di trasferimento dai territori del Nord e Sud Kivu, che hanno occupato per 20 anni, al centro di acquartieramento di Kisangani. Si spera che non trovino un nuovo pretesto per differire ulteriormente il loro trasferimento.
Un’altra incognita è l’atteggiamento del Ruanda che non sembra affatto disposto ad accettare il rimpatrio dei membri delle FDLR smobilitati, incluso di quelli che non sono implicati nel genocidio del 1994. La chiusura ermetica delle frontiere ruandesi alle FDLR potrebbe bloccare il processo de loro ritorno nel loro paese d’origine, che dovrebbe essere il punto d’arrivo delle operazioni di disarmo volontario e di acquartieramento a Kisangani. Se la comunità internazionale non riuscirà a convincere o a costringere il Ruanda ad implicarsi positivamente nella questione del rimpatrio delle FDLR nella loro patria o per trovare loro un paese d’accoglienza diverso dalla RDCongo, allora si sarà ritornati al punto di partenza.[12]
Il 5 novembre, in una dichiarazione resa pubblica a New York, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è detto profondamente preoccupato per l’assenza di progressi nel processo di disarmo volontario dei ribelli ruandesi delle Forze Democratiche per La liberazione del Ruanda (FDLR) nell’est della RDCongo. Il Consiglio ha sottolineato che la scadenza del 2 gennaio 2015, fissata dai Capi di Stato della Regione dei Grandi Laghi per il disarmo volontario, non potrà essere prolungata. Il presidente del Consiglio ha chiesto al governo congolese e alla Monusco di prepararsi per iniziare, già in gennaio 2015, delle operazioni militari contro i capi e i membri delle FDLR che non avranno aderito al processo di smobilitazione o continuano a violare i diritti umani.
Nello scorso agosto, a Luanda, i Capi di Stato e di governo della CIRGL e della SADC avevano concesso alle FDLR un nuovo ultimatum fino al 31 dicembre 2014 FDLR per deporre volontariamente le armi e accettare di integrare il processo di smobilitazione, disarmo, rimpatrio, reinsediamento e reintegrazione (DDRRR). Riunite a Luanda il 20 ottobre scorso, queste due organizzazioni africane hanno ribadito la loro decisione di neutralizzare con la forza i ribelli ruandesi che non deporranno volontariamente le armi entro il 2 Gennaio 2015.[13]
Presunti ribelli delle FDLR sono accusati di aver ucciso, dal 3 al 5 novembre, 13 persone e violentato una decina di donne nei villaggi di Misau e Misoke, nel territorio di Walikale (Nord Kivu). Per poter limitare le sofferenze della popolazione civile locale, il capo dell’antenna locale dell’Ong Creddho, Aise Kanendu, ha chiesto che l’operazione militare contro le FDLR sia anticipata e che si prendano i provvedimenti necessari per la protezione della popolazione prima, durante e dopo l’operazione stessa.[14]
Il Movimento del 23 Marzo (M23)
Secondo alcuni analisti, nel caso in cui il governo congolese non riuscisse a dare risposte soddisfacenti alle rivendicazioni del Movimento del 23 marzo (M23), si preparerebbe un terreno fertile per la nascita di un nuovo gruppo armato nell’est della RDCongo.
Secondo Thierry Vircoulon, membro di International Crisis Group (ICG), «il M23 non è stato smobilitato. È stato semplicemente respinto. Pertanto, rimane una forza che potrebbe riorganizzarsi qualora il Ruanda e l’Uganda lo volessero».
Un analista politico congolese ha affermato, sotto anonimato, che «un eventuale fallimento del disarmo delle FDLR (i ribelli hutu ruandesi delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda) potrebbe essere il pretesto per un’altra guerra».
La lotta contro le FDLR e il ritorno dei rifugiati tutsi congolesi che ancora vivono all’estero – fuggirono l’ostilità della popolazione locale che, nonostante la loro presenza nel Kivu da generazioni, li considera ruandesi o li accusa di essere al soldo del regime di Paul Kagame – sono tra le principali rivendicazioni del M23. Ma le FDLR hanno ottenuto un altro rinvio – fino al 31 dicembre – per arrendersi e deporre le armi e il ritorno dei rifugiati tutsi è ancora in fase di stallo.
L’analista congolese fa osservare che «le ragioni che “ufficialmente” stavano dietro la creazione del M23 – la lotta contro le FDLR, il ritorno dei rifugiati tutsi congolesi, il malgoverno, il mancato rispetto degli accordi da parte del governo, sono questioni ancora aperte e potrebbero motivare una riorganizzazione del M23».
Da parte sua, l’analista Christoph Vogel ha affermato che, «a lungo termine, una riorganizzazione del M23 è possibile nel caso di un fallimento del processo d’integrazione sociale, economica e politica dei suoi membri». Per evitare questo rischio, il deputato Juvénal Munubo Mubi, membro della Commissione Difesa e Sicurezza dell’Assemblea Nazionale, raccomanda, tra l’altro, di «accelerare il processo di disarmo, smobilitazione, reinserimento, rimpatrio e reinsediamento (DDRRR)» e di «rafforzare la presenza dell’esercito nell’est della RDCongo».[15]
Il 7 novembre, dei membri del governo congolese e del Movimento del 23 Marzo (M23) dovevano incontrarsi a Kinshasa, per valutare l’attuazione degli impegni assunti quasi un anno fa a Nairobi. Ancora una volta, la delegazione del M23 non si è presentata all’incontro. Gli ex ribelli hanno motivato la loro assenza adducendo dei “rischi per la loro sicurezza”.
Da Kampala, in Uganda, il presidente del M23, Bertrand Bisimwa, ha affermato che «le cause del conflitto […] rimangono ancora senza alcuna risposta, in particolare il tema dell’insicurezza nell’est del Paese, dove molti miliziani continuano ancora ad uccidere», accusando l’esercito congolese di “essere complice di queste forze” o “di lasciarle fare”, o di “essere incapace di neutralizzarle”, concludendo che, «se il governo non rispetta i suoi impegni […], nessuno ci costringerà a rispettare i nostri».
Secondo François Muamba, coordinatore del Meccanismo Nazionale di Controllo (MNS), più di 2.100 di loro hanno firmato individualmente l’atto di rinuncia alla violenza che consente loro di usufruire della legge di amnistia emanata nel mese di febbraio. Bisimwa, invece, avanza la cifra di 4.500 firmatari.
Secondo la delegazione governativa, 549 membri del M23 hanno beneficiato della legge di amnistia promulgata dal Presidente della Repubblica. Tuttavia, non si è ancora registrato alcun progresso nel processo di ritorno degli ex combattenti del M23 fuggiti in Uganda o in Ruanda. Per facilitare questo ritorno, i responsabili del M23 hanno chiesto la liberazione di quelli che tra loro sono stati fatti prigionieri e la costituzione di alcune commissioni, come ad esempio quella per la riconciliazione nazionale, che dovrebbe contribuire alla lotta contro la discriminazione etnica e risolvere i contenziosi per la proprietà delle terre, tutti i motivi per i quali il M23 aveva preso le armi. Kinshasa ha promesso di creare rapidamente tali commissioni e di adempiere a tutti gli impegni presi entro la fine dell’anno.
Il Vice Primo Ministro e Ministro della Difesa nazionale, Alexandre Luba Ntambo, ha deplorato l’atteggiamento degli ex combattenti del M23 che emettono delle riserve nei confronti del governo congolese circa il loro raggruppamento presso il centro di transito e d’orientamento istituito all’interno della base militare di Kamina (Katanga). Il ministro ha indicato che gli ex ribelli chiedono, come condizione per il loro raggruppamento presso il centro di transito, la garanzia della loro sicurezza. Ha ricordato che «era stato programmato un incontro per il 7 novembre, a Kinshasa, sulle modalità pratiche per il loro reinserimento sociale nell’ambito dell’operazione di smobilitazione, disarmo e reintegrazione (DDR). Ma stanno ponendo altri problemi di sicurezza. Essi credono che, se vi vanno, saranno arrestati. Però li vediamo di tanto in tanto attraversare la frontiera per andare divertirsi a Goma. In questo caso non hanno paura di essere arrestati. Ma quando si tratta d’andare a Kinshasa per rendere effettive le condizioni del loro ritorno, allora ritengono che non ci siano le condizioni necessarie».[16]
Il processo contro i presunti implicati nell’assassinio del Colonnello Mamadou Ndala
Il 1° ottobre, a Beni (Nord Kivu), si è aperto il processo contro i presunti assassini del colonnello Mamadou Ndala, ucciso il 2 gennaio 2014 in un attentato a Beni.
Il primo giorno di udienza, nella sua testimonianza davanti al tribunale militare operativo del Nord Kivu, il primo testimone, il sergente Arsène Ndabu Mangudji, che era alla guida della jeep 4×4 di Mamadou Ndala nel momento dell’attacco, ha ritrattato la versione dei fatti che aveva fornito precedentemente al procuratore generale, al momento dell’inchiesta. Al procuratore egli aveva detto che la jeep del colonnello Ndala aveva preso fuoco nel momento dell’agguato, subito dopo l’impatto del razzo sul veicolo. Una dichiarazione che ha ritirato, indicando di averla fatta sotto pressione e in assenza del suo avvocato.
Per quasi quattro ore, l’autista del colonnello Ndala ha dato una versione diversa dell’attentato perpetrato contro Mamadou Ndala. Nella sua seconda versione, Ndabu ha dichiarato che, dopo il tiro del razzo contro il veicolo, egli ha «preso subito un taxi, per andare a cercare aiuto nella città di Beni». Infatti, era accusato proprio per “non assistenza”. Al suo ritorno, era rimasto sorpreso nel vedere la jeep di Ndala “incendiata”. Ndabu ha anche dichiarato che, tornando sul luogo dell’attacco, ha visto degli agenti dei servizi segreti militari che erano già lì, davanti al veicolo di Mamadou Ndala.
La testimonianza di Arsène Ndabu porta nuovi elementi inquietanti riguardo all’attentato del 2 gennaio 2014. Per le autorità congolesi, infatti, sono i ribelli ugandesi delle ADF-Nalu che avrebbero organizzato l’attacco al convoglio di Mamadou Ndala. Ma per altri, gli autori potrebbero trovarsi in seno all’esercito congolese (FARDC). Secondo la sezione di Beni dell’Associazione africana per la difesa dei diritti dell’uomo (ASADHO), la causa della morte del colonnello Ndala potrebbe essere un conflitto interno in seno all’esercito congolese stesso.[17]
Il 2 ottobre, il sergente maggiore Ndabu, l’autista del colonnello Mamadou Ndala, è deceduto intorno alle 5 ora locale, a Beni. Egli era accusato di omissione di soccorso a persona in pericolo. La morte inaspettata e quindi sospette di questo testimone fondamentale dell’attacco alla jeep di Mamadou Ndala potrebbe aver seriamente compromesso il proseguimento del processo. Molti abitanti di Beni che hanno assistito al processo hanno stimato che la morte del Sergente Maggiore Ngabu cambiasse la situazione. Per loro, questa morte potrebbe complicare il lavoro della corte militare e dell’accusa nella fase di istruttoria del processo.
L’udienza è proseguita con l’audizione di Ndongala e di Safari Banga, due marescialli dell’esercito congolese e guardie del corpo del colonnello Mamadou Ndala.
Il primo, Ndongala, ha dichiarato di essere arrivato nei primi minuti dopo l’attacco al colonnello Mamadou veicolo, di aver trovato la jeep in fiamme, di aver visto il corpo del colonnello Mamadou chinato in avanti, mentre stava bruciando all’interno della cabina. Ha affermato di aver tentato di rimuovere il corpo del comandante del veicolo e che non ci sarebbe riuscito a causa del calore delle fiamme. Il secondo, Safari Banga, era a bordo della jeep durante l’attacco. Sin dall’inizio, il Pubblico Ministero lo ha considerato come uno dei principali sospettati per l’assassinio di Mamadou Ndala.[18]
Il 7 ottobre, l’attuale comandante dell’operazione “Sokola”, il Generale Muhindo Akili Mundos, ha testimoniato al processo contro i presunti assassini del colonnello Mamadou Ndala. Secondo la sua versione, Mamadou Ndala è stato assassinato dai ribelli ugandesi delle ADF.
È stato ascoltato anche un secondo ufficiale, il colonnello Tito Bizuri, considerato dagli investigatori come il sospettato numero uno per l’assassinio di Mamadou Ndala. Davanti al tribunale militare, il colonnello Tito Bizuri si è dichiarato non colpevole. Ha affermato che si era recato sul luogo dell’attacco per garantire la sicurezza, avendo ricevuto l’ordine dal comandante del 81° settore FARDC che si trovava già sul posto. Altri due alti ufficiali delle FARDC sono comparsi davanti al tribunale: il colonnello Yav Avulu, come persona informata dei fatti e il colonnello Ildefonse Ngabo, come imputato. Il primo è responsabile per la logistica dell’operazione Sokola e il secondo Sokola gestisce il settore delle informazioni delle FARDC nella città di Beni.[19]
Il 21 ottobre, il tribunale militare operativo del Nord Kivu ha interrogato a Beni due nuovi ufficiali dell’esercito congolese nel quadro del processo per l’assassinato, il 2 gennaio 2014, del colonnello Mamadou Ndala, ex comandante del’operazione Sokola condotta contro i ribelli ugandesi dell’ADF. I colonnelli Kamuleta Joker e Birotso Nzanzu Kosi sono comparsi davanti alla Corte rispettivamente come imputato e testimone. Il secondo, Birotso Nzanzu, è stato arrestato dopo la deposizione del primo. È stato accusato di complicità nell’assassinio dell’ex comandante del commando 42° Battaglione delle FARDC. Nella sua dichiarazione, il colonnello Kamuleta Joker ha affermato davanti alla Corte che, quando Mamadou Ndala è stato assassinato, la moglie del colonnello Birotso Nzanzu lavorava, già da diversi giorni, per conto dei ribelli ugandesi dell’ADF, in certe zone del territorio di Beni. Ha pure aggiunto che la moglie del colonnello Birotso Nzanzu si era recata una delle basi dei ribelli ugandesi con il veicolo di suo marito. Dopo questa dichiarazione, il procuratore ha ordinato l’arresto del colonnello Birotso.[20]
Il 3 novembre, davanti al tribunale militare di Beni, un ex ufficiale ribelle dell’ADF, il cui volto era stato tenuto nascosto e l’identità segreta, ha accusato un alto ufficiale delle FARDC, il tenente colonnello Nzanzu Birosho, di aver ricevuto, dall’alto comando dei ribelli ADF, una somma di 27.000 dollari, per pianificare l’assassinio del colonnello Mamadou Ndala, responsabile dell’operazione militare Sokola 1 condotta dall’inizio di gennaio contro le ADF. Il colonnello Mamadou Ndala è stato ucciso il 2 gennaio. Al colonnello Nzanzu era stato promesso anche un premio supplementare da rimettergli dopo l’esecuzione della missione, ha detto senza aggiungere maggiori dettagli l’ex capo ribelle ugandese, secondo cui è stato il colonnello Nzanzu Birosho, ufficiale delle FARDC, che ha organizzato l’agguato in cui è caduto il colonnello Mamadou Ndala. È il tenente colonnello Nzanzu Birosho che avrebbe comunicato il percorso del convoglio del colonnello Mamadou e l’ora in cui ha lasciato Beni verso Mavivi e diretto a Eringeti.
L’ex ufficiale ribelle ADF ha anche spiegato che, all’interno delle FARDC, il colonnello Nzanzu Birosho aveva il compito di contattare l’ADF per le varie operazioni. È stato lui che ha consegnato all’ADF armi, munizioni, uniformi militari, informazioni sulle varie operazioni militari e altri mezzi necessari per le loro attività criminali. L’ex ufficiale dell’ADF ha aggiunto che anche la moglie del colonnello Nzanzu collaborava con i ribelli ugandesi in attività commerciali e forniva informazioni sui movimenti del colonnello Mamadou. Davanti la corte militare, l’ufficiale Nzanzu ha affermato la sua innocenza e ha parlato di un “puro montaggio” contro di lui.
Alla luce delle dichiarazioni dell’ex ufficiale dei ribelli ugandesi, si capisce ciò che sta accadendo con gli ultimi attacchi dell’ADF nel territorio di Beni dove, nel solo mese d’ottobre, più di 120 persone sono state uccise, quasi tutte a colpi di machete. Coloro che parlano di tradimento e di complicità all’interno delle FARDC potrebbero avere ragione.[21]
Il 7 novembre, il pubblico ministero della Corte militare del Nord Kivu a Beni ha chiesto l’ergastolo per il colonnello delle FARDC Birocho Nzanzu, processato per tradimento e partecipazione al gruppo armato “ADF-Nalu”, fornendogli munizioni, uniformi e insegne di rango. Per l’accusa, il tenente-colonnello era direttamente coinvolto nell’assassinio del colonnello Mamadou. La testimonianza di un ex-ribelle ADF ne costituisce la prova principale. Il colonnello Birocho Nzanzu è accusato di aver fornito un supporto essenziale al commando che ha ucciso il colonnello Mamadou Ndala. Secondo l’accusa, è grazie alle uniformi fornite ai ribelli ADF che questi ultimi hanno potuto tendere l’agguato al colonnello Mamadou con tanta facilità, rapidità e sicurezza. L’ufficiale FARDC avrebbe anche ricevuto una somma di 27.000 dollari per pianificare il colpo mortale contro il colonnello Mamadou Ndala.
L’ergastolo è stato chiesto anche per il capo dei ribelli ADF Jamil Mukulu che, attualmente, si trova in fuga. Per altri imputati perseguiti in questo caso, l’accusa ha chiesto pene che vanno da 2 a 15 anni di carcere, secondo le varie accuse, tra cui quelle di furto e dissipazione di munizioni. L’accusa ha anche chiesto l’assoluzione del colonnello Tito Bizulu, comandante militare della città di Beni e di tre delle sue guardie del corpo. Sono circa 23 gli imputati che compaiono, dall’inizio di ottobre, nel processo del caso Mamadou Ndala a Beni. Il verdetto del processo è atteso per il 15 novembre.[22]
Il 10 novembre, Augustin Tshisambo, avvocato della difesa, ha dichiarato che il suo cliente, il colonnello Birocho Nzanzu non è un ribelle e che non ha minimamente partecipato all’assassinio del defunto colonnello Mamadou Ndala. Ha poi chiesto all’accusa di presentare al tribunale militare le testimonianze materiali delle sue accuse, tra cui le uniformi e l’equipaggiamento militare dell’esercito che l’imputato Birocho avrebbe fornito ai ribelli ugandesi delle ADF[23]
L’11 novembre, il tribunale ha trattato 4 casi, tra cui quelli degli accusati colonnello Kamulete, Yusufu Mandefu e Ndale Assan Yusia.
La difesa del colonnello Kamulete, membro dell’esercito congolese, ha affermato che il suo cliente dovrebbe beneficiare di circostanze attenuanti, per avere collaborato con la corte, fornendo vari elementi nel corso del processo. L’imputato Kamuleta è quello che, davanti al tribunale, ha accusato il colonnello Birocho Nzanzu, accusandolo di aver pianificato l’assassinio del colonnello Mamadou Ndala nel mese di gennaio scorso. Pertanto, l’avvocato di Kamuleta ha chiesto che il suo cliente possa essere assolto, invece di essere condannato a 15 anni di carcere, come richiesto dal Pubblico Ministero.
La difesa degli imputati Yusufu Mandefu, un ribelle ADF utilizzato per il trasporto di merci tra l’ADF e il colonnello Birocho, ha chiesto l’assoluzione del suo cliente che, secondo lei, non ha partecipato, direttamente o indirettamente, all’assassinio di Mamadou Ndala.
La difesa ha chiesto che anche l’imputato Ndale Yusia Assan sia assolto per aver detto la verità sulla sua implicazione nell’assassinio di Mamadou Ndala.
Secondo fonti giudiziarie, sono circa venti gli imputati, tra cui otto civili, quattro alti ufficiali delle FARDC e due ex guardie del corpo del colonnello Mamadou Ndala.[24]
Il 17 novembre, il tribunale militare ha condannato il colonnello Birocho Nzanzu Kosi alla pena di morte, per la sua partecipazione a un movimento insurrezionale e terrorista. È anche stato radiato dalle FARDC e obbligato al pagamento di 2,9 milioni di $ alla parte civile e alla successione del colonnello Mamadou Ndala per danni e interessi. La corte ha anche condannato in contumacia alcuni ribelli ADF in fuga. Tra di loro, Jamili Mukulu, condannato alla pena di morte. L’ufficiale ADF Yusufu Mandefu è stato condannato a 15 anni, mentre il suo compagno Yosia è stato condannato a 5 anni per partecipazione all’assassinio di Mamadou Ndala.
Tra le FARDC, il tenente colonnello Kamulete Joker è stato condannato a 20 anni di carcere per partecipazione a movimento insurrezionale. I maggiori Ngabo e Viviane Masika sono stati condannati a 12 anni di carcere per dissipazione di effetti militari e furto. Il tribunale militare ha assolto tre imputati, tra cui il capitano Mosè Banza e il tenente colonnello Tito Bizuru.
La pena di morte non è applicabile nella RDC a causa di una moratoria in vigore da oltre un decennio. Tale sanzione sarà trasformata in ergastolo.
Secondo la società civile congolese, si tratta di una giustizia incompleta. L’avvocato Omar Kavota, vicepresidente e portavoce della società civile del Nord Kivu, ha affermato che «coloro che sono stati condannati, hanno una loro responsabilità. Ma al di là di loro, ce ne sono altri. E sono questi altri che non sono ancora stati rivelati al pubblico. Essi non sono stati condannati e continuano ad essere liberi, dentro o fuori del paese. Quindi il tribunale militare ha fatto un certo lavoro, ma parziale». L’avvocato George Kapiamba, Presidente dell’Associazione congolese per l’accesso alla giustizia, ha ritenuto che «il lavoro svolto oggi dalla Corte di giustizia militare è soddisfacente solo in parte, perché non tutti i colpevoli e i complici implicati nell’assassinio di Mamadou Ndala sono stati chiamati a comparire in tribunale».[25]
Le dichiarazioni della società civile vengono a confermare alcune ipotesi che erano state formulate all’indomani dell’assassinio del colonnello Mamadou Ndala.
Se l’ipotesi di un’implicazione dei ribelli ugandesi dell’ADF-Nalu nell’assassinio di Mamadou Ndala sembrava allora abbastanza plausibile, alcuni osservatori non avevano però escluso la pista di un “assassinio” da parte di “compagni d’armi”. Infatti, alcuni testimoni non avevano affatto escluso l’ipotesi di un regolamento di conti interno all’esercito congolese. Molto popolare tra la gente, Mamadou si era attirato qualche gelosia. Egli era visto dalla popolazione come il vero eroe della vittoria contro l’M23, a scapito dei suoi superiori e anche del potere politico.
Inoltre, la popolazione di Beni aveva in quel tempo attribuito l’assassinio di Mamadou Ndala a dei militari ruandofoni delle FARDC dispiegati a Beni e complici con l’M23, poco tempo prima sconfitto dalle truppe guidate da Mamadou Ndala.
Un politico locale aveva rivelato che gli ufficiali militari di Beni non avevano visto di buon occhio l’arrivo, sul loro territorio, del colonnello Mamadou Ndala e dei suoi uomini. «Secondo loro, Mamadou N’Dala era andato a fare un lavoro che essi non erano riusciti a fare: neutralizzare l’ADF/Nalu», aveva egli affermato, aggiungendo che «dal 2009 (data del loro arrivo a Beni), essi avevano trasformato la zona operativa del Ruwenzori – dove si trovavano i ribelli ugandesi – in una zona di commercio». Egli aveva quindi concluso denunciando certi “accordi” tra il comando militare di Beni e i capi dei ribelli dell’ADF/Nalu e auspicando che un’inchiesta indipendente potesse far luce anche sulla presunta collusione contro natura tra alcuni ufficiali dell’esercito congolese e gli uomini della ADF/Nalu.
Secondo le diverse fonti, la presenza di Mamadou N’Dala avrebbe dunque rappresentato una minaccia per l’esistenza dei reggimenti mono-etnici tutsi e l’affarismo che prevaleva tra alcuni alti ufficiali militari di questa zona. Purtroppo, sembra che, al processo che si è svolto a Beni, il tribunale militare operativo del Nord Kivu abbia completamente evitato di prendere in considerazione queste ipotesi e che si sia accontentato di condannare alcuni pesci piccoli, per coprire quelli grandi, membri del comando militare.
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PETIZIONE
Ai Parlamentari europei e ai membri della Commissione Europea
In riferimento al progetto di regolamento europeo per l’importazione responsabile di stagno, tantalio, tungsteno e oro ed i rispettivi minerali grezzi, provenienti da aree in conflitto o ad alto rischio, chiediamo:
- di modificare il progetto di regolamento in modo da sostituire lo schema di auto-certificazione volontaria con un regime obbligatorio per le imprese, affinché rendano pubblicamente conto di ciò che hanno fatto circa l’applicazione del dovere di diligenza alle loro catene di approvvigionamento, in conformità con la Guida OCSE;
- di ampliare il campo d’applicazione delle imprese coperte dal progetto, finora limitato agli importatori, alle fonderie e alle raffinerie, per potervi includere le principali società che commercializzano in Europa il tantalio, lo stagno, il tungsteno e l’oro sotto forma di prodotti finiti.
- di approvare e rendere operativo il regolamento nei tempi più rapidi possibili.
FIRMA LA PETIZIONE SU: http://www.change.org/p/minerali-clandestini
E diffondila ovunque. Grazie!
[1] Cf Congoindépendant, 22.10.’14
[2] Cf Radio Okapi, 31.10.’14
[3] Cf AFP – Africatime, 30.10.’14
[4] Cf Radio Okapi, 02.11.’14
[5] Cf RFI, 04.11.’14; Kimp – Le Phare – Kinshasa, 05.11.’14
[6] Cf Radio Okapi, 03.11.’14
[7] Cf AFP – Africatime, 03 et 04.11.’14
[8] Cf AFP – Africatime, 05.11.’14
[9] Cf ACP – Goma, 12.11.’14; 7sur7.cd – Goma – 12.11.’14
[10] Cf RFI, 13.11.’14
[11] Cf Sonia Rolley – RFI, 29.10.’14
[12] Cf Trésor Kibangula – Jeune Afrique, 06.11.’14; Myriam Iragi – Le Phare – Kinshasa, (via mediacongo.net, 06.11.’14)
[13] Cf Radio Okapi, 06.11.’14
[14] Cf Radio Okapi, 10.11.’14
[15] Cf AFP – Africatime, 03.11.’14
[16] Cf RFI, 08.11.’14 ; Radio Okapi, 08.11.’14; AFP – Africatime, 10.11.’14
[17] Cf Radio Okapi, 02.10.’14; Christophe Rigaud – Afrikarabia, 05.10.’14
[18] Cf Radio Okapi, 02.10.’14
[19] Radio Okapi, 08.10.’14
[20] Cf Radio Okapi, 22,10.’14
[21] Cf Radio Okapi, 04.11.’14; Kandolo M. – Forum des As – Kinshasa, 05.11.’14
[22] Cf Radio Okapi, 08.11.’14; RFI, 07.11.’14
[23] Cf Radio Okapi, 10.11.’14
[24] Cf Radio Okapi, 12.11.’14
[25] Cf Radio Okapi, 17.11.’14; Ibrahima Bah – DW, 17.11.’14