Congo Attualità n. 180 – Editoriale a cura della Rete Pace per il Congo
L’M23 sta rivelando il suo vero volto.
Il Movimento del 23 marzo (M23), un gruppo armato responsabile di gravissimi crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel Nord Kivu, una provincia dell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), sta rivelando, a chi lo vuol capire, il suo vero volto.
Parla di dialogo e di negoziati come vie non violente nella ricerca di soluzioni politiche e condivise per porre fine al conflitto e ristabilire la pace sul territorio. Nello stesso tempo, brandisce la minaccia delle armi per riprendere il controllo sulla città di Goma e costringere, quindi, il governo congolese a “negoziare” e ad accettare le sue condizioni.
L’M23 costringe la popolazione civile ad opporsi al dispiegamento di una forza supplementare decisa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per combattere e disarmare i vari gruppi armati, tra cui lo stesso M23. Si tratta di una strategia ben studiata: far apparire che è la popolazione stessa che è contraria a tale invio, in realtà è l’M23 che teme l’arrivo di una tale forza e che, quindi, cerca di impedirlo.
È stata bravissima la popolazione che ha preferito abbandonare il villaggio, pur di non partecipare alla manifestazione indetta dall’M23, non volendo entrare nel tranello della complicità. L’M23 è arrivato al punto di bloccare per giorni una decina di veicoli della Monusco, la forza ONU nella RDCongo, carichi di materiali da costruzione, ma che l’M23, invece, sospettava trasportassero materiale bellico destinato alla prossima forza supplementare della stessa Monusco.
L’M23 ha scritto ai parlamentari del Sud Africa e della Tanzania, affinché facciano pressione sui rispettivi governi per convincerli a non mettere loro truppe a disposizione della nuova forza di intervento della Monusco. Nel caso fosse attaccato dalla Monusco, l’M23 minaccia di rispondere con le armi, con l’inevitabile rischi di aggravare la crisi umanitaria.
L’attuale capo militare dell’M23, Sultani Makenga, ha disarmato Bosco Ntaganda, suo capo militare fino a poche settimane fa, e l’ha fatto arrestare. Con questa operazione, l’M23 vuole dare ad intendere che sta collaborando con la giustizia e che, quindi, merita una ricompensa: essere riconosciuto come movimento di pace ed essere reintegrato a pieno titolo nell’esercito nazionale e nelle istituzioni politiche congolesi. In realtà, non c’è nessuna differenza tra Bosco Ntaganda, ricercato dalla corte penale internazionale e Sultani Makenga, espulso dall’esercito congolese e oggetto di sanzioni da parte del Consiglio dei Sicurezza dell’Onu. No, assolutamente no: il governo non può accettare di sperperare amnistie a basso prezzo e cadere nella trappola della reintegrazione di criminali nelle file del suo esercito. In tal caso, non farebbe altro che perpetuare il ciclo della violenza.
Quindi, nessun accordo con l’M23, tanto più che un recente decreto presidenziale ha sancito l’espulsione di oltre una decina di alti ufficiali dell’M23 dall’esercito. Per il resto delle truppe dell’M23, il governo non ha che da applicare la legge sui casi di diserzione. Dopo un equo processo, i militari dell’M23 dovranno scontare la pena prevista dalla legge e, solo in seguito, se lo vorranno, potranno continuare la loro attività militare, dopo un periodo di adeguata formazione. Per quanto riguarda la revisione dell’accordo del 23 marzo 2009 tra il governo e l’allora ribellione del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), firmatario dell’accordo, essa dovrà essere discussa, emendata e approvata in sede politica, cioè in Parlamento.
Le cause di certi atteggiamenti di prepotenza.
Le reazioni dell’M23 rivelano atteggiamenti di prepotenza, di menzogna e di minaccia. Due potrebbero essere le cause.
L’M23 potrebbe percepire ormai prossima la sua fine e nascondere così, dietro un atteggiamento di apparente sicurezza di sé, la paura della sua sconfitta finale. In tal caso, la popolazione potrebbe tirare un respiro di sollievo e continuare a sperare in una prossima pace.
Oppure l’M23 si sente veramente sicuro di sé, sapendo che c’è ancora chi lo appoggia. In tal caso, occorrerebbe identificare e svelare chi continua a sostenerlo. Tra questi ultimi, ci potrebbero essere ancora alcuni Paesi limitrofi (il Ruanda e l’Uganda) già citati negli ultimi rapporti dell’Onu. Se così fosse, com’è probabile, essi dovrebbero essere oggetto di sanzioni da parte della Comunità Internazionale, dell’Onu e dell’Unione Africana. È questo il nodo critico.
Il nodo critico.
I Presidenti dell’Uganda e del Ruanda, Yoweri Museveni e Paul Kagame, non sono che pedine in mano alle multinazionali minerarie e petrolifere e ai Paesi occidentali, soprattutto Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, che li hanno portati al potere e che continuano ad appoggiarli, in nome del commercio delle risorse naturali, della competitività con la Cina e altri Paesi emergenti e della lotta contro l’espansionismo dell’influenza araba e islamica. In questo contesto, la Comunità Internazionale, soprattutto i Paesi occidentali più direttamente implicati e appena citati, dovrebbero rivedere la loro politica estera nei confronti dell’Africa, in generale, e della Regione dei Grandi Laghi, in particolare, cessando di appoggiare i regimi totalitari di Yoweri Museveni (Uganda) e di Paul Kagame (Ruanda), i primi responsabili dei crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini di genocidio commessi, negli ultimi venticinque anni, nella regione dei Grandi Laghi. La memoria di quasi 10 milioni di vittime, dirette e indirette, delle varie guerre combattute nella Regione dei Grandi Laghi e l’estrema sofferenza dei milioni degli attuali sfollati e rifugiati esigono un tale cambiamento.
La pace, frutto di un impegno per la democrazia.
Il governo congolese e l’intera classe politica hanno il diritto di chiedere un tale cambiamento, ma anche il dovere di renderlo possibile, eliminando tutto ciò che può impedirlo: le complicità interne, l’accaparramento del potere, la ricerca del profitto personale a scapito del bene comune, l’instabilità politica, la malversazione delle risorse naturali e dei beni dello Stato, la corruzione, l’impunità, …
La democratizzazione della politica, il coraggio di intraprendere le riforme necessarie dei servizi di sicurezza (esercito, polizia e servizi segreti), della commissione elettorale e della giustizia, il rispetto della costituzione e dei diritti umani, una buona gestione delle risorse naturali (minerarie, petrolifere, agricole, forestali e idriche) e l’incremento delle infrastrutture e dei servizi sociali (sanità, istruzione, viabilità, trasporti) renderebbero il Paese più forte, quindi più autonomo dalle ingerenze ruandesi e ugandesi e più credibile davanti alla comunità internazionale.