Congo Attualità n. 162 – Editoriale a cura della Rete Pace per il Congo
Tutti tranne uno
In occasione dell’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, si è tenuto anche un mini vertice convocato dal Segretario Generale Ban Ki Moon sulla situazione in cui si trova l’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), in seguito alla creazione del nuovo gruppo armato denominato Movimento del 23 Marzo (M23) e appoggiato militarmente, logisticamente e finanziariamente dal regime ruandese, secondo rapporti dell’Onu, del Governo congolese e delle ONG, tra cui Human Right Watch (HRW). Oltre ai Presidenti della RDCongo e del Ruanda, erano presenti alte personalità dell’ONU, dell’UA, di altri Paesi della Regione dei Grandi Laghi Africani, dell’UE e della Comunità Internazionale.
Tutti i partecipanti, tranne uno, hanno affermato la necessità di rispettare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale della RDCongo e, quindi, l’intangibilità delle frontiere.
Tutti, tranne uno, si sono trovati d’accordo nel condannare le violenze commesse dall’M23 (occupazione militare del territorio di Rutchuru, nel Nord-Kivu, instaurazione di un’amministrazione parallela a quella dello Stato, imposizione di tasse illegali, reclutamento coatto anche di minorenni, stupri, saccheggi…). Tutti, tranne uno, si sono trovati d’accordo nel condannare l’appoggio che l’M23 continua a ricevere dall’esterno. Anche se si esprimono in un linguaggio eccessivamente diplomatico – non si cita espressamente il nome – tutti sanno che l’appoggio ricevuto dall’M23 proviene dal Ruanda che, ostinatamente, continua a smentire la sua implicazione nel conflitto, nonostante l’ampia documentazione che la comprova. Messo alle strette, il presidente ruandese Paul Kagame ha addirittura lasciato la sala dell’incontro bloccando, in tal modo, la possibilità di arrivare a un accordo per un comunicato finale comune.
Nel silenzio generale
L’ONG internazionale per la difesa dei diritti umani Human Right Watch deplora il fatto che «il vertice non sia riuscito a riconoscere chiaramente che il problema principale del conflitto nella RDCongo è il continuo appoggio militare del Rwanda all’M23» e aggiunge che, «finché il Ruanda continuerà ad appoggiare la ribellione, la popolazione civile congolese dovrà subire le conseguenze dei combattimenti, qualunque sia il numero dei vertici che le Nazioni Unite terranno».
Il ministro belga degli Affari Esteri si interroga sulle reali intenzioni di Kigali e dichiara: «Se le donne dell’est della RDCongo parlano di stupri, mutilazioni e stermino di intere famiglie, è chiaro che la priorità è disarmare la ribellione. Ma Kigali vuole risolvere prima, le “grandi questioni” della regione, senza veramente spiegare di che cosa si tratti realmente» e conclude: «Quello che chiaramente manca da parte del Ruanda è la volontà politica».
Se è stato deplorevole l’atteggiamento del presidente ruandese, non meno scandaloso è stato l’atteggiamento degli altri partecipanti al mini vertice che non hanno osato condannare l’atteggiamento del presidente Paul Kagame e si sono accontentati di una semplice dichiarazione finale firmata dallo stesso Segretario Generale dell’Onu, in cui si riassumono i vari interventi.
Non è pensabile che una sola persona, rappresentante di un regime sempre più dispotico e dittatoriale, riesca a far fallire un incontro internazionale per la Pace nella RDCongo. Forse sarebbe stato il momento di assumere un atteggiamento più deciso nei suoi confronti. Sarebbe stato il momento opportuno per decidere una serie di sanzioni che possano costringerlo ad abbandonare la sua politica di ingerenza e di egemonia nei confronti della RDCongo. Si poteva per esempio:
- cessare di considerare il regime ruandese come parte della soluzione del problema e cominciare a trattarlo come parte implicata nel conflitto e come agente di destabilizzazione;
- respingere la sua candidatura a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu;
- decretare un embargo sull’acquisto e sulle importazioni di armi;
- sospendere tutti gli aiuti militari;
- sospendere la collaborazione militare, incluso a livello delle forze di peace keeping dell’Onu, a cui il Ruanda partecipa inviando alcune migliaia di suoi militari;
- sospendere l’acquisto di minerali provenienti dal Ruanda, in quanto fra essi ci sono anche minerali di origine congolese, esportati di contrabbando e etichettati in Ruanda;
- sospendere tutti i finanziamenti destinati al governo, la cui interruzione non pregiudichi la popolazione civile più povera;
- intraprendere procedure giudiziarie per violazione della sovranità nazionale della RDCongo e per i crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in territorio congolese, come documentato dal Rapporto Mapping dell’Onu, pubblicato in dicembre 2010.
È auspicabile che il Comitato dell’Onu per le sanzioni abbia il coraggio di formularle nel suo prossimo incontro di novembre e di presentarle al Consiglio di Sicurezza.
Dietro il paravento
Forse, però, la situazione è molto più complessa: se Paul Kagame ha agito in quel modo, se può permettersi di dire e fare ciò che vuole senza essere richiamato all’attenzione, è perché si sente ancora sicuro della protezione di chi l’ha portato al potere e che l’ha sempre sostenuto, nonostante i crimini commessi o commissionati, la continua violazione dei diritti umani e la repressione della democrazia. Si tratta di personalità che hanno ricoperto fino a qualche anno fa, o che ricoprono ancora, le più alte responsabilità nella politica statunitense, canadese e inglese. Si tratta pure delle multinazionali anglosassoni che usano il Ruanda come piattaforma per l’importazione abusiva dei minerali di cui è ricca la RDCongo e i cui nomi sono citati nei vari rapporti del gruppo degli esperti dell’Onu. Il Ruanda, Paul Kagame, l’M23 sono semplici marionette manovrate dalle potenze e multinazionali occidentali su cui cade la terribile responsabilità delle 800.000 vittime del genocidio ruandese del 1994 e dei 6.000.000 – 8.000.000 di vittime congolesi cadute nelle diverse fasi della guerra iniziata nel 1996.