Congo Attualità n. 161 – Editoriale a cura della Rete Pace per il Congo
La pubblicazione, in giugno scorso, di un rapporto del gruppo degli esperti dell’Onu sulle violazioni dell’embargo delle armi destinate ai gruppi armati ancora attivi nella Repubblica Democratica del Congo (RDCongo) rivelava, soprattutto nella parte annessa, l’appoggio militare e logistico fornito dal regime ruandese al recente gruppo armato denominato Movimento del 23 marzo (M23). Il rapporto ha provocato scalpore, sia a livello di opinione pubblica che a livello diplomatico. È sembrato una novità. Le autorità ruandesi si stanno dimenando con tutte le loro forze per smentire tali informazioni. Forze ed energie sprecate invano.
Il problema dell’appoggio ruandese a gruppi armati e movimenti ribelli attivi nell’Est del Paese non è di oggi. Basta ripercorrere la storia congolese di questi ultimi 15 anni e ci si accorge ben presto che l’AFDL, il RCD e il CNDP erano di matrice ruandese e che questi movimenti politico-militari usufruivano dell’appoggio del Paese vicino.
Forse si è dimenticato che in dicembre 2008 il gruppo degli esperti dell’Onu per la RDCongo pubblicò un rapporto in cui si dettagliavano «i numerosi sostegni che il CNDP riceveva dal Ruanda: invio di uniformi (il cui distintivo, con i colori della bandiera ruandese, veniva asportato mediante un rasoio, al momento dell’arrivo), forniture di munizioni, apertura di conti bancari in Ruanda e reclutamento di militari smobilitati, di rifugiati congolesi e, addirittura, di minori, talvolta ad opera di ufficiali dell’esercito ruandese, con promesse di salari compresi tra i 100 e i 500 dollari al mese». Secondo lo stesso rapporto, «le autorità ruandesi avevano mandato anche degli ufficiali e delle unità delle Forze di Difesa Ruandese (l’esercito regolare ruandese) in territorio congolese per sostenere il CNDP». Il rapporto dell’Onu di giugno 2012 non ha dunque fatto che confermare ciò che da tempo già si sapeva.
Venendo a notizie più recenti, l’annuncio fatto dal Ministero della Difesa ruandese, il 31 agosto scorso, di ritirare 280 militari ruandesi dal Nord Kivu, una provincia dell’Est della RDCongo, ha suscitato sdegno e polemiche. Secondo le autorità ruandesi, si trattava di una presenza militare ruandese in territorio congolese autorizzata dallo stesso governo congolese e dispiegata nel territorio di Rutchuru dal mese di febbraio 2011. Secondo il governo congolese, invece, era stata autorizzata solo la presenza di un centinaio di ufficiali dell’esercito ruandese e in qualità di osservatori.
Le due versioni divergono profondamente e hanno generato una grande confusione, incrementata anche dal fatto che questi militari ruandesi indossavano l’uniforme dell’esercito congolese.
La notizia ha suscitato numerose polemiche in tutti gli ambienti. Ma forse non ci si è accorti che lo scandalo è ancora molto più vasto.
Ci si ricorderà, per esempio, che il 20 gennaio 2009, all’inizio dell’operazione militare congiunta “Umoja wetu”, condotta insieme da RDCongo e Ruanda contro le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), entrarono in RDCongo circa 5.000 – 7.000 militari dell’esercito ruandese e che alla fine dell’operazione, il 25 febbraio, solo circa 1.500 militari ruandesi rientrarono al loro Paese. È evidente che tra 3.500 e i 5.500 militari ruandesi sono rimasti nella RDCongo e nel Kivu in particolare. Parte di loro sono stati integrati nelle Forze Armate della RDCongo (FARDC) insieme alle truppe del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), altri sono stati ricuperati in unità militari direttamente dipendenti dall’allora generale Bosco Ntaganda.
Lo scandalo è ancora più grave quando si constata che militari di nazionalità ruandese, responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in territorio congolese, sono stati integrati nell’esercito congolese come “generali” e ricoprono i più alti posti di responsabilità nel comando dello stesso esercito congolese. È il caso, per esempio, dell’ex generale Bosco Ntaganda che la Corte Penale Internazionale, nel mandato di cattura emesso contro di lui, presenta come cittadino nato in Ruanda e di nazionalità ruandese. Ma ci sono molti altri casi simili, non solo nell’esercito, ma anche nella polizia, nei servizi segreti, nell’amministrazione, nelle istituzioni politiche.
Il problema è reale e innegabile. Deve essere affrontato con coraggio.
Ci sono responsabilità locali. Il presidente congolese Joseph Kabila, tacciato di avere firmato degli “accordi segreti” con il suo omologo ruandese, è stato recentemente accusato di “alto tradimento”. Il presidente ruandese Paul Kagame si sente lo scolaro modello agli occhi dei professori occidentali e può permettersi il lusso di fare, disfare, mentire e smentire.
Ma ci sono anche responsabilità internazionali. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza non possono dire che “non sapevano”, perché i vari rapporti del gruppo degli esperti dell’Onu per la RDCongo sono sempre stati chiari. Nella RDCongo, l’Unione Europea sta finanziando il progetto EUSEC e il progetto EUPOL, due progetti di assistenza alla riforma dell’esercito e della polizia. Nemmeno l’UE può dunque dire di “non sapere”. Dire di non sapere è da irresponsabili e fa nascere il sospetto del complotto e della complicità.
La presenza di militari stranieri, soprattutto ruandesi, nell’esercito congolese sin dal 1996 è alla base dell’apparizione di successivi gruppi armati che seminano violenza tra la popolazione civile e rende l’esercito stesso debole, fragile e inefficace: molte informazioni strategiche sono previamente trasmesse all’avversario e quando un’operazione sta concludendosi con successo, arrivano dall’alto incomprensibili contrordini. È un problema che va risolto in modo definitivo. Il gruppo degli esperti dell’Onu per la RDCongo, la società civile congolese e internazionale, le confessioni religiose e gli organismi internazionali per la difesa dei diritti umani hanno presentato decine di proposte, precise e costruttive, a livello giudiziario, economico, politico e militare. Ma occorre che ci sia, a livello locale e internazionale, la volontà politica per attuarle.