Congo Attualità n. 499

LA RICOMPARSA DEL MOVIMENTO DEL 23 MARZO (M23)

Rivalità regionali, politica dei Paesi donatori e blocco del processo di pace (2ª parte)

Ebuteli – Gruppo di studio sul Congo (GEC) – Rapporto agosto 2024

https://www.ebuteli.org/publications/rapports/rapport-la-resurgence-du-m23-rivalites-regionales-politique-des-donateurs-et-blocage-du-processus-de-paix

INDICE

3. ANALISI
3.1. L’Est della RDC: teatro di rivalità regionali
3.1.1. Per comprendere l’intervento ruandese
3.2. Il Ruanda e la Comunità Internazionale
3.2.1. Gli interessi economici dei paesi limitrofi dell’est della RDC
3.3. L’approccio congolese: il conflitto come modalità di governo
3.3.1. La sfida di Tshisekedi per quanto riguarda la sicurezza: come gestire l’esercito
4. CONCLUSIONE E RACCOMANDAZIONI
4.1. Pressioni sul Ruanda
4.2. Rilanciare il processo di pace
4.3. L’imperativo della riforma del settore della sicurezza
4.4. La riconciliazione comunitaria e la questione ruandofona
4.5. Un piano per il ritorno dei rifugiati

3. ANALISI

Il contesto storico lascia molte domande senza risposte. Perché l’esercito congolese non è riuscito ad ottenere alcun risultato significativo sul campo di battaglia ed è stato costretto a ricorrere a società di sicurezza private e ai gruppi armati? Quali sono i principali motivi dell’intervento ruandese? E come si dovrebbe valutare l’implicazione dei paesi regionali e dei paesi occidentali? Questa sezione analitica tenta di rispondere a queste domande.

3.1. L’Est della RDC: teatro di rivalità regionali

3.1.1. Per comprendere l’intervento ruandese

Secondo fonti diplomatiche confermate dall’ultimo rapporto del Gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla RDC, l’esercito ruandese ha inviato tra i 3.000 e i 4.000 soldati nell’est della RDC.
Il governo ruandese smentisce queste informazioni e il suo carattere chiuso e autoritario rende difficile poter ottenere delle informazioni sulle sue motivazioni e intenzioni. In questo rapporto, si valutano le dichiarazioni del governo ruandese sulla “persecuzione” della comunità tutsi congolese e sulla collaborazione tra l’esercito congolese e le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR). Si esaminerà poi l’opinione popolare secondo cui l’estrazione e la commercializzazione delle risorse naturali costituiscono l’obiettivo primario dell’intervento del Ruanda e dell’Uganda nel Kivu.

a. La concorrenza regionale e il Ruanda

A differenza di altre comunità economiche regionali, la Comunità dell’Africa dell’Est (EAC) è stata per molto tempo caratterizzata dall’assenza di un potere egemonico alla sua guida. Con l’entrata della Repubblica Democratica del Congo (RDC) nell’EAC, ciascun paese membro di questa organizzazione ha cercato di appoggiarsi sulle enormi potenzialità di questo paese, per aumentare la propria influenza all’interno dell’organizzazione e prendere il sopravvento sugli altri Paesi membri. Alla fine del 2021, il governo congolese aveva autorizzato il dispiegamento di truppe burundesi, ugandesi e kenyane nell’est della RDC ma, nello stesso tempo, aveva rifiutato il dispiegamento di agenti della polizia ruandese a Goma, città di frontiera con il Ruanda stesso. Le imprese ugandesi incaricate della riabilitazione delle principali strade congolesi che collegano il Nord Kivu all’Uganda stavano per iniziare i lavori, ma la riparazione di quelle strade rischiava di escludere il Ruanda dall’intensa attività commerciale tra l’est della RDC e la costa dell’Africa orientale. Inoltre, nel mese di gennaio 2022, la Tanzania e il Burundi hanno firmato un accordo per costruire l’ultimo tratto ferroviario che collegherebbe i due paesi, ciò che avrebbe aperto un’altra potenziale rotta commerciale che avrebbe escluso, ancora una volta, il Ruanda. Questo isolamento in cui il Ruanda si è trovato è stato uno dei principali motivi del suo appoggio al Movimento del 23 marzo (M23) nell’est della RDC

b. La questione delle popolazioni ruandofone

Dal 2022, pur negando la propria implicazione, il governo ruandese ha in parte attribuito la rinascita dell’M23 alla discriminazione di cui sono vittime le comunità ruandofone, Hutu e Tutsi, della RDC. In un’intervista del mese di gennaio 2023, Kagame ha detto: «queste persone sono nate e cresciute in Congo, hanno dei genitori e dei nonni nati in Congo, ma viene loro chiesto di ritornare là da dove provengono, prima della colonizzazione e prima ancora che esistessero le frontiere! […] A ciò si aggiungono due elementi: l’incitamento all’odio da parte del governo, dell’amministrazione e della classe politica congolese, e la somiglianza tra la loro situazione e quella prevalente in Ruanda nel 1994».
Secondo l’attuale regime ruandese, l’insicurezza in cui si trova la comunità tutsi sarebbe stata aggravata dalla collaborazione del governo congolese con le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR), un gruppo armato di origine ruandese, a cui fanno parte anche delle persone che hanno partecipato al genocidio ruandese del 1994. Un articolo apparso su un giornale governativo ruandese spiega: «La ricomparsa dell’M23 deve essere attribuita principalmente all’incapacità del governo congolese di mettere in pratica gli accordi firmati con il gruppo i cui membri si vedono negare il diritto alla cittadinanza congolese […] Il governo della RDC ha inoltre diffuso, nei suoi discorsi, parole di odio contro sia il Ruanda che i Tutsi congolesi, mentre il suo esercito ha stretto una sinistra alleanza con le forze genocidarie, in particolare con le FDLR».
È vero che la comunità tutsi congolese è da molto tempo vittima di discriminazioni e di odio, e che questa persecuzione è aumentata dalla ripresa delle ostilità da parte dell’M23 in novembre 2021. L’esempio più estremo è probabilmente quello dell’ex deputato nazionale e ex ministro Justin Bitakwira che, in un programma trasmesso su Bosolo TV, ha detto: «I Tutsi sono tutti uguali. Quando vedi un Tutsi (…) vedi un criminale nato! Mi chiedo sempre se il loro creatore non sia colui che ha creato il diavolo. (…) Non ho mai visto una razza così cattiva».
Anche Martin Fayulu, uno dei principali leader dell’opposizione, ripete spesso che i Banyamulenge non hanno diritto alla nazionalità congolese, poiché si tratta di un gruppo etnico che non era presente in Congo prima dell’indipendenza.
Tuttavia, sarebbe falso e fuorviante e costituirebbe un’inversione di causalità, affermare che sia stata questa tendenza alla discriminazione etnica dei Tutsi a scatenare la ripresa delle ostilità da parte dell’M23.
La stigmatizzazione della comunità tutsi congolese ha radici profonde. Nel Nord Kivu, le divergenze e i conflitti tra le comunità ruandofone, Hutu e Tutsi, e quelle locali che si definiscono autoctone risalgono all’amministrazione coloniale belga, che incoraggiò un vasto movimento di emigrazione dal Ruanda verso il Kivu e manipolò le strutture etniche del potere.
Dopo l’indipendenza, la comunità tutsi del Nord Kivu, da cui sono provenuti i dirigenti dell’RCD, del CNDP e dell’M23, è stata alternativamente favorita o discriminata, a secondo dei casi, dalle élite dominanti nazionali e provinciali. Tra i suoi leader, ci sono grandi proprietari terrieri e ricchi imprenditori che, a partire dal 1996, hanno fornito ingenti contributi alle successive ribellioni fomentate e appoggiate dal Ruanda.
D’altra parte, a partire dall’indipendenza, e in particolare a partire dall’inizio degli anni 1980, il diniego (o il riconoscimento) della nazionalità congolese dei membri della comunità ruandofona è stato spesso utilizzato come strumento politico e questa comunità ha sempre dovuto far fronte a subdole e violente discriminazioni. Tuttavia, come già visto in precedenza, nei periodi di intensificazione del conflitto, anche i movimenti politico militari che erano stati creati per la difesa della comunità tutsi hanno commesso anch’essi frequenti angherie e soprusi contro le popolazioni civili, contribuendo in tal modo all’aumento delle tensioni comunitarie.
Nei tre anni precedenti alla ricomparsa dell’M23, il presidente Félix Tshisekedi non si è sufficientemente impegnato per risolvere i conflitti comunitari esistenti nell’est della RDC, combattere la discriminazione e rendere possibile il ritorno dei rifugiati residenti all’estero. Se egli ha pubblicamente affermato che i “Banyamulenge sono congolesi”, questa affermazione ha  suscitato molto scalpore tra la popolazione. Il suo governo, come quello del suo predecessore, non ha intrapreso iniziative significative per promuovere la riconciliazione. E benché egli abbia condannato ogni tentativo di incitamento all’odio, le personalità politiche e gli ufficiali dell’esercito e della polizia autori di discorsi incendiari non sono mai stati sanzionati.
Tuttavia, ci sono poche prove che dimostrino un aumento della violenza anti-tutsi nel Nord Kivu prima della ricomparsa dell’M23. Negli ultimi anni, le principali violenze perpetrate contro una comunità ruandofona nell’est della RDC sono state quelle commesse contro i Banyamulenge, nel contesto del conflitto iniziato nel 2016 sugli altopiani del Sud Kivu. Gli incidenti documentati dai ricercatori – tra cui un aumento dei discorsi anti-tutsi e della violenza nei loro confronti in maggio e giugno 2022 – si sono verificati dopo che l’M23 abbia ripreso le ostilità in novembre 2021, ciò che conferma che la retorica anti-tutsi è stata strumentalizzata ed esacerbata dall’M23 stesso. Ciò non giustifica affatto gli atti di violenza commessi contro i Tutsi, ma rivela che la riprea delle armi da parte dell’M23 non è certamente stata una reazione a quegli abusi.
Se è vero che il governo congolese non ha fatto molto per promuovere la riconciliazione e il ritorno dei rifugiati tutsi dall’estero, è tuttavia difficile pensare che la riconciliazione e la convivenza pacifica possano essere imposte con la forza delle armi, come chiaramente dimostrato dalle precedenti ribellioni del CNDP (2004-2009) e dell’M23 (2012-2013) e, in una certa misura, dalle ribellioni dell’AFDL (1996-1997) e dell’RCD (1998-2003).
Il ritorno dei rifugiati tutsi dall’estero è spesso presentato come una questione cruciale per l’M23. Nel corso degli anni, molti tutsi congolesi del Nord Kivu e del Sud Kivu sono stati costretti a fuggire dalle violenze. Il Ruanda ospita attualmente, in cinque campi profughi,  circa 84.000 rifugiati congolesi, quasi tutti tutsi, molti dei quali sono lì da trent’anni. La maggior parte di loro non può tornare a casa, a causa dell’insicurezza che esiste nei loro villaggi di origine.
In passato, si sono organizzate diverse operazioni di ritorno di rifugiati, ma a volte ci sono stati dei dubbi sulla vera identità di alcune persone che ora sono implicate nell’M23.
Ad esempio, nel 2011, il gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha documentato i tentativi intrapresi da ex dirigenti del CNDP per fare ritornare circa 2.400 famiglie, cioè più di 10.000 persone, residenti in campi profughi ruandesi e installarle nel villaggio di Bibwe, nel territorio di Masisi. Secondo il rapporto del gruppo: «Mentre alcuni di questi nuovi arrivati ​​affermavano di aver posseduto, in passato, dei terreni a Bibwe, molti altri hanno detto di non avervi mai vissuto, e alcuni si sono addirittura rifiutati di indicare da dove provenivano … Secondo le autorità locali e provinciali, nessuno di questi “rimpatriati” ha mai posseduto terreni a Bibwe».
Tuttavia, nulla di tutto ciò dovrebbe essere visto come una minimizzazione della problematica relativa alle tensioni comunitarie – in particolare, la “politica dell’indigeneità” – nella crisi dell’M23. Occorre quindi affrontare la situazione delle popolazioni ruandofone congolesi, in particolare dei tutsi, perché essa è continuamente emersa nel corso dei decenni ed è stata causa di numerosi atti di violenza. Occorre perciò affrontare questioni spinose, come l’accesso alla terra e al potere e il riconoscimento delle violenze perpetrate nel passato. Non sarà facile. In un recente sondaggio di GEC/Ebuteli, realizzato con BERCI nella RDC, solo il 25% degli intervistati ritiene che i Tutsi possano essere considerati come congolesi (27% per gli hutu), una percentuale che è rimasta più o meno costante dal 2016.

c. Le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR)

Un’altra problematica sollevata dal governo ruandese e dall’M23 è quella relativa alla protezione della popolazione tutsi congolese di fronte alla minaccia delle Forze Democratiche per la  Liberazione del Ruanda (FDLR). Inoltre, l’M23 e il Ruanda accusano il governo congolese di avere, ancora una volta, concluso un’alleanza con le FDLR, Anche secondo il gruppo di esperti delle Nazioni Unite e GEC/Ebuteli, l’esercito nazionale ha organizzato delle operazioni militari contro l’M23 in collaborazione con le FDLR e ha loro fornito un appoggio. Secondo il gruppo di esperti dell’ONU, nel 2016 i combattenti delle FDLR erano probabilmente circa 1.400-1.600, una cifra scesa nel 2018 a circa 600-700 membri, a causa di decessi e defezioni. I fatti sono spesso presentati in modo fuorviante. Le FDLR rappresentano infatti una minaccia soprattutto per le popolazioni civili dell’est della RDC, ma non principalmente per la popolazione tutsi che, nelle zone rurali, è molto diminuita a causa dell’insicurezza. È dunque poco probabile che sia stata una crescente minaccia da parte delle FDLR a spingere il Ruanda ad appoggiare l’M23.
Al contrario, come già visto in precedenza, molto probabilmente i due elementi che hanno spinto il Ruanda ad appoggiare l’M23 sono stati l’entrata delle truppe ugandesi nel Nord Kivu per condurre delle operazioni militari contro le ADF  e l’inizio dei lavori per la riabilitazione delle strade congolesi verso l’Uganda. Sono questi due elementi che sono stati percepiti come una minaccia dal governo di Kigali, che ha poi reagito istigando la ripresa delle ostilità da parte dell’M23. In effetti, nelle interviste e nei discorsi di Paul Kagame dell’inizio del 2022, egli affronta le preoccupazioni di sicurezza del Ruanda nell’est della RDC, ma non menziona le FDLR che in relazione a una loro possibile alleanza con le Forze Democratiche Alleate (ADF), di origine ugandese.
L’avvento al potere di Tshisekedi nel 2019 ha segnato l’inizio di un periodo di intensa collaborazione tra gli eserciti congolese e ruandese contro le FDLR. Attacchi mirati hanno portato all’eliminazione di diversi leader delle FDLR, tra cui il comandante in capo Sylvestre Mudacumura e Juvénal Musabimana (alias JeanMichel Africa), tra settembre e novembre 2019.
Anche dopo questo periodo, l’esercito congolese ha continuato le sue operazioni contro le FDLR. Nel mese di gennaio 2021, esso ha appoggiato la Nduma Defense of Congo – Rénové (fazione Bwira) in operazioni militari contro le FDLR nel territorio di Rutshuru. Fino a novembre 2021, i territori di Rutshuru, Masisi e Nyiragongo (Nord Kivu) hanno vissuto un periodo di relativa calma. Nessun attacco delle FDLR contro il Ruanda è stato denunciato.
Le prime notizie sull’implicazione dell’esercito ruandese a fianco dell’M23 risalgono a novembre 2021. Il gruppo degli esperti delle Nazioni Unite ha pubblicato immagini e screenshot di un video che dimostra la presenza di truppe ruandesi in un accampamento dell’M23 il 21 novembre 2021.
Meno chiara è la data di ripresa della collaborazione tra l’esercito congolese e le FDLR. Fonti della MONUSCO suggeriscono che questa collaborazione abbia potuto iniziare già nel mese di novembre 2021, prima dunque dell’intervento dell’esercito ruandese. Sempre a proposito  dell’appoggio dell’esercito congolese alle FDLR, né il governo ruandese né l’M23 hanno menzionato eventuali incidenti anteriori all’8 maggio 2022, data in cui le FDLR erano presenti a una riunione di coordinamento tra alcuni gruppi armati e l’esercito congolese.
Come nel caso dell’intensificazione della violenza anti-tutsi, l’intensificazione della collaborazione tra l’esercito congolese e le FDLR sembra essere posteriore all’intervento dell’esercito ruandese e non viceversa. Ciò sembra coerente anche con quanto avvenuto nel passato: dalla sua creazione nel 2003, l’esercito congolese ha collaborato con le FDLR quando si è trovato minacciato da movimenti politico militari (RCD, CNDP e M23) appoggiati dal Ruanda, ma quando non ne era minacciato, ha intrapreso numerose operazioni militari contro di esse.

3.2. Il Ruanda e la Comunità Internazionale

I due precursori dell’attuale M23, l’M23 del 2012-2013 e il CNDP, sono stati sconfitti quando, in seguito a pressioni internazionali, il Ruanda ha intrapreso un’azione decisiva contro di essi. Nel 2009, il governo ruandese aveva permesso l’arresto di Laurent Nkunda, capo militare del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), in cambio dell’integrazione delle truppe del CNDP nell’esercito congolese. Nel 2013, i Paesi occidentali sospesero un aiuto di 240 milioni di dollari a favore del Ruanda, il che contribuì a far perdere al Ruanda 3 punti di crescita del PIL.
In seguito a tale provvedimento della comunità internazionale, il Ruanda ritirò improvvisamente il suo appoggio all’M23, ciò che provocò la sconfitta di un M23 ormai solo, sotto la pressione dell’esercito congolese e della Brigata di Intervento della Forza delle Nazioni Unite.
Attualmente, nel 2024, benché tutti i principali paesi occidentali – ad eccezione del Regno Unito –  abbiano pubblicamente condannato l’appoggio del Ruanda all’M23, molto debole è la loro azione di pressione sul regime ruandese. Questa mancanza di misure concrete contro il Ruanda è davvero sorprendente, visto che questo Paese dipende moltissimo dagli aiuti esterni ed è quindi molto vulnerabile qualora si trovasse a dover affrontare delle pressioni esterne. Secondo la Banca Mondiale, nel 2021, il Ruanda ha ricevuto 1,25 miliardi di dollari come aiuto allo sviluppo, ciò che corrisponde al 74% della spesa del governo centrale. Eppure, nonostante le moltissime denunce e condanne verbali da parte della Comunità Internazionale (ONU, UE, UA) circa l’appoggio del Ruanda all’M23, il posto e il ruolo di questo Paese nell’economia mondiale e nella diplomazia internazionale sembrano non essere stati minimamente intaccati.
Durante l’escalation dell’M23, a Kigali sono stati organizzati molti eventi prestigiosi, a cui hanno partecipato Capi di Stato e dirigenti aziendali. Tra questi eventi, basta ricordare l’incontro dei Capi di Governo del Commonwealth (giugno 2022), la conferenza dell’African Philanthropy Forum (ottobre 2022) e il congresso mondiale della FIFA (marzo 2023). Nel frattempo, Paul Kagame è stato designato dalla rivista New African come uno degli africani più influenti del mondo ed è stato invitato a parlare al Qatar Economic Forum (maggio 2023) e al vertice del G20 di Bali (novembre 2022).
Nel 2022, le entrate del turismo e gli investimenti diretti esteri hanno raggiunto livelli record.
Ci si può chiedere perché, nonostante la sua dipendenza dagli aiuti internazionali, il Ruanda non sia stato oggetto di pressioni esterne significative, come possono essere delle sanzioni.
Un motivo è perché il Ruanda è stato capace di sfruttare la sua forza militare, per diventare un alleato importante dei Paesi occidentali in Africa. In Mozambico, per esempio, il dispiegamento di truppe dell’esercito ruandese ha permesso di allontanare un gruppo jihadista locale dalla città strategica di Mocímboa da Praia, dove si stanno realizzando alcuni dei più grandi progetti di gas naturale liquefatto in Africa. In quella regione, in marzo 2021, Total Energies, la più grande azienda francese in termini di fatturato, aveva dovuto sospendere le proprie attività. Anche altre importanti società di combustibili fossili, tra cui ENI e BP, vi hanno fatto significativi investimenti. Questi progetti hanno assunto un’importanza ancora maggiore a causa della crisi ucraina, che ha costretto i paesi europei a sostituire il gas russo con altre fonti. Di più. in novembre 2022, nel pieno della crisi dell’M23, l’UE ha annunciato di aver finanziato il dispiegamento delle truppe dell’esercito ruandese in Mozambico con 20 milioni di euro. Al momento della pubblicazione di questo rapporto, si stava discutendo un altro finanziamento di pari entità. Ancora, in aprile 2024, alla vigilia del 30° anniversario del genocidio ruandese, il governo francese ha annunciato uno stanziamento di 400 milioni di euro a favore del Ruanda, per finanziare la sanità, l’ambiente e l’istruzione di quel Paese.
Truppe dell’esercito ruandese sono state dispiegate anche nella Repubblica Centrafricana, sia come parte integrante della missione delle Nazioni Unite istituita nel 2014, sia come parte di una missione bilaterale concordata in dicembre 2020. Quelle truppe ruandesi si sono rivelate importanti per sostenere il fragile governo centrafricano, proteggere le popolazioni civili e fare da contrappeso alle Società di sicurezza private russe presenti in quel Paese. Quest’ultimo punto è importante per i paesi occidentali, preoccupati per l’influenza di Mosca sull’Africa. In aprile 2023, il Ruanda ha promesso di inviare dei soldati anche in Benin, in seguito a un accordo bilaterale con il governo di quel Paese.
Oltre a tutto ciò e nonostante sia uno dei paesi più poveri e più piccoli del mondo, il Ruanda è anche il quarto maggiore fornitore di Caschi Blu dell’ONU e ha inviato suoi militari in missioni di  mantenimento della pace in Sud Sudan e in Sudan.
Nell’ambito delle relazioni internazionali, il Ruanda ha stretti rapporti con il Regno Unito. Andrew Mitchell, ministro di Stato per lo sviluppo nel governo del Primo Ministro Rishi Sunak, ha legami di lunga data con il Ruanda. Nel 2012, l’ultimo giorno del suo mandato come Segretario di Stato per lo sviluppo internazionale, aveva già preso la controversa decisione di confermare un aiuto di 24 milioni di dollari a favore del Ruanda, nonostante il suo appoggio all’M23. Ancor più grave di questi legami personali, un accordo del 2022 prevedeva di inviare gli immigrati richiedenti asilo presenti nel Regno Unito in Ruanda, per esame dei loro dossier. Per questo progetto, il Regno Unito ha sbloccato 240 milioni di sterline (310 milioni di dollari) a favore del Ruanda, per finanziare i costi di accoglienza dei richiedenti asilo e del trattamento dei loro dossier.
In fin dei conti, per i Paesi occidentali la grave crisi congolese passa in secondo ordine, rispetto all’importanza del ruolo svolto dal Ruanda nel favorire i loro interessi economici nella Regione dei Grandi Laghi Africani. È ciò che impedisce loro di intraprendere un’azione decisiva contro il Ruanda. Nonostante il suo ruolo negativo nell’est della RDC, il Ruanda è percepito dai Paesi occidentali come un paese funzionale e in grado di ottenere risultati, ciò che contrasta con lo Stato congolese, che soffre di un deficit di credibilità.
Nonostante ciò, il 24 agosto 2023, il governo degli Stati Uniti ha imposto delle sanzioni contro il generale di brigata Andrew Nyamvumba, al comando delle operazioni della 3ª divisione dell’esercito ruandese. Tuttavia, una settimana dopo, lo stesso generale è stato promosso di grado dal presidente Kagame. Il generale James Kabarebe, citato dal Gruppo di esperti delle Nazioni Unite per il suo ruolo nell’appoggio ruandese all’M23, si trova nella stessa situazione. Ciò non ha impedito che, il 27 settembre 2023, sia stato nominato Vice Ministro degli Affari esteri, responsabile della cooperazione regionale. Da parte sua, l’UE ha sanzionato dei militari ruandesi di grado inferiore, come il capitano Jean-Pierre Niragire, alias Gasasira, che comandava le forze speciali dell’esercito ruandese nella regione del Nord Kivu (luglio 2023) e il colonnello Augustin Migabo (luglio 2024).

3.2.1. Gli interessi economici dei paesi limitrofi dell’est della RDC

La crisi nell’est della RDC è spesso descritta come una lotta per i “minerali di conflitto”, condotta da gruppi armati che si combattono per il controllo di risorse strategiche come lo stagno, il tantalio, l’oro e il tungsteno. Ciò ha condotto i Paesi occidentali a cercare delle soluzioni all’attuale crisi nel settore economico: l’UE, la Francia e gli Stati Uniti stanno discutendo la possibilità di incitare il Ruanda a investire nella stabilità mediante investimenti economici.
I Paesi occidentali sembrano aver fatto ricorso alla politica della “carota”, poiché il “bastone” delle sanzioni o dei tagli agli aiuti al Ruanda andrebbe contro i loro rispettivi interessi nazionali.
Tuttavia, a causa della natura stessa del commercio dei minerali, sarà molto difficile attuare qualsiasi accordo economico di questo tipo.
L’oro è di gran lunga il minerale che gioca il ruolo più importante in questo conflitto. La RDC è uno dei principali produttori d’oro del continente africano, con 31 tonnellate nel 2021. Al contrario, l’Uganda, il Ruanda e il Burundi non dispongono che di piccoli giacimenti di questo minerale. Tuttavia, la stragrande maggioranza dell’oro congolese viene fatta passare di contrabbando oltre frontiera, verso questi paesi vicini, privando il governo congolese di enormi entrate fiscali.
Si tratta di somme considerevoli per le economie di questi Paesi. Dal 2015, l’oro è il principale prodotto di esportazione del Ruanda: le esportazioni d’oro di questo paese sono più che raddoppiate negli ultimi tre anni, passando da 363 milioni di dollari nel 2021 a 882 milioni nel 2023. Per l’Uganda, l’oro è il principale prodotto di esportazione dal 2016, raggiungendo il picco del 59% delle esportazioni nel 2020. In Burundi, l’oro è stata la principale fonte di valuta estera dal 2011, con un picco del 63% del totale delle esportazioni nel 2014. In totale, nel 2022, questi tre paesi hanno esportato una quantità d’oro equivalente a circa 2,5 miliardi di dollari.
I vari paesi della regione competono sempre più tra loro per approfittare delle risorse minerarie congolesi. L’Uganda e il Ruanda hanno aperto delle raffinerie d’oro, rispettivamente nel 2017 e nel 2019, nel tentativo di aumentare il valore aggiunto dell’oro da esportare. Inoltre, varie imprese di questi Paesi hanno firmato dei contratti minerari con il governo congolese. È il caso della società ugandese Dott service nel 2020 e della società ruandese Dither nel 2021.
Dall’inizio della crisi dell’M23, il governo congolese ha tentato di ottenere un maggior controllo sul settore dell’oro, creando una nuova società, Primera Gold, in partenariato con gli Emirati Arabi. Il contratto conferisce al gruppo Primera il diritto esclusivo di esportare, per 25 anni, l’oro estratto artigianalmente, pagando una tassa doganale dello 0,25%, molto inferiore al 10% richiesto agli altri operatori del settore minerario. Ciò ha suscitato molte critiche, secondo le quali il contratto in questione andrebbe a vantaggio solo di un piccolo gruppo di persone e non contribuirebbe alla crescita dell’occupazione o all’aumento delle entrate fiscali dello Stato. Nel 2023, Primera ha riferito di aver esportato oro per un valore di 300 milioni di dollari, un netto aumento rispetto agli anni precedenti, ma ancora molto modesto rispetto alle esportazioni dei paesi vicini.
Il commercio dell’oro è una realtà molto complessa. Nessuno dei paesi vicini controlla direttamente le miniere d’oro del Congo. Sono invece dei commercianti che praticano il contrabbando di grandi quantità d’oro, facendolo passare oltre confine, a volte con la complicità di agenti dei servizi della sicurezza congolese. Il contrabbando è favorito dal fatto che lo stato congolese impone tasse all’esportazione molto elevate e dispone di un sistema di controllo molto debole. Gli stati vicini approfittano del disordine congolese. Questo tipo di economia usufruisce della protezione di personalità politico militari e della capacità dei paesi vicini di proiettare verso l’esterno il loro potere e la loro influenza.

3.3. L’approccio congolese: il conflitto come modalità di governo

L’approccio del Presidente congolese Tshisekedi al conflitto si è concentrato tanto sulla gestione dell’apparato di sicurezza quanto sulle operazioni militari nell’est del Paese. Egli era stato dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali di dicembre 2018, grazie a un previo accordo con il presidente uscente Joseph Kabila, ritrovandosi così in una situazione di dipendenza dal suo predecessore. Durante i primi due anni del mandato presidenziale di Tshisekedi, la coalizione politica di Kabila controllava il parlamento nazionale, la maggior parte dei parlamenti e governi provinciali e l’apparato di sicurezza, guidato da ufficiali e funzionari nominati da Kabila e con i quali né Tshisekedi, né il suo partito, l’UDPS, avevano molti legami storici.

3.3.1. La sfida di Tshisekedi per quanto riguarda la sicurezza: come gestire l’esercito

Nel 2019, il pericolo maggiore proveniva soprattutto dalle stesse forze di sicurezza dello Stato e non tanto dall’irrequieto Est del Paese, benché ormai sommerso da una proliferazione di decine di gruppi armati con origini e programmi locali. L’M23 era in stato dormiente. Il gruppo armato più violento e brutale era quello delle Forze Democratiche Alleate (ADF), di origine ugandese e di ispirazione islamica, ma attivo solo in una piccola parte del Nord Kivu.
A differenza del suo predecessore Joseph Kabila che, nei suoi 18 anni trascorsi alla presidenza del Paese, aveva nominato i principali comandanti dell’esercito, Félix Tshisekedi non aveva alcuna esperienza militare e disponeva di pochissime relazioni all’interno dell’apparato di sicurezza.
Invece di intraprendere immediatamente una riforma radicale dell’apparato di sicurezza, che avrebbe potuto scatenare una reazione negativa da parte dei servizi di sicurezza, il presidente Tshisekedi ha proceduto con cautela. Per quanto riguarda le nomine militari, per esempio, egli ha mantenuto il generale Gabriel Amisi (alias Tango 4) e il generale Charles Akili (alias Mundos), entrambi sottoposti a sanzioni internazionali e sospettati di gravi violazioni dei diritti umani e li ha rispettivamente nominati ispettore generale e vice ispettore generale dell’esercito. Il comando di uno dei principali corpi militari preposti alle operazioni di controllo è stato così affidato a due ufficiali già noti per i loro abusi. In questo modo, benché siano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari, in particolare contro ufficiali di grado inferiore, gli abusi finanziari e le violazioni dei diritti umani sono rimasti all’ordine del giorno.
L’approccio del presidente Tshisekedi è in continuità con gli atteggiamenti già esistenti nei confronti del conflitto. Dai tempi di Mobutu, le élite politiche di Kinshasa si preoccupano più dei dissensi interni all’esercito che delle rivendicazioni economiche e sociali della popolazione locale. La guerra dell’est del Congo è secondaria per la loro sopravvivenza politica. In effetti, nel momento delle elezioni, i politici non vengono quasi mai sanzionati per il loro disinteresse nei confronti dell’est e la guerra che si combatte da anni in quella regione non ha mai rappresentato una minaccia per la sicurezza di Kinshasa, la capitale del paese situata a più di duemila chilometri di distanza.
Dispiegando la maggior parte dell’esercito nell’Est del Paese, mantenendo bassi gli stipendi degli ufficiali, ma offrendo loro elevate indennità complementari e dando loro carta bianca per il racket, le élite politiche si sono protette da eventuali colpi di stato e si sono arricchite grazie a un sistema politico-militare fondato sulla corruzione.
Questo sistema di clientelismo è stato integrato nell’organizzazione dello Stato, ciò che ha suscitato un interesse generalizzato per la persistenza e la continuità del conflitto. Lo si può constatare nel modo con cui vengono pagati i membri dei servizi di sicurezza: la retribuzione è strutturata in modo tale che gli ufficiali non riescono a mantenere le loro famiglie in assenza di un qualsiasi conflitto armato. Secondo un’analisi condotta nel 2014, più del 90% della retribuzione degli ufficiali dipendeva da pagamenti legali o extralegali direttamente legati alle operazioni militari. Per esempio, gli ufficiali che occupavano dei posti di comando spesso ricevevano un bonus di comando che poteva arrivare fino a 1.000 dollari al mese, ma solo se stavano effettuando delle operazioni militari. Questi pagamenti non erano obbligatori per legge e venivano effettuati secondo la discrezione degli ufficiali militari superiori, il che rafforzava la lealtà individuale nei loro confronti.
Questo sistema di pagamento basato su incentivi a ricorrere a soluzioni militari, insieme al tentativo del Presidente Tshisekedi di guadagnarsi la fiducia degli alti ufficiali dell’esercito, potrebbero in parte spiegare il motivo per cui, subito dopo il suo insediamento, egli abbia intrapreso diverse operazioni militari e la causa per la quale quelle operazioni siano fallite. In ottobre 2019, il presidente ha autorizzato l’operazione “Zaruba ya Ituri” (“Tempesta Ituri”), seguita poco dopo da un’offensiva su larga scala contro le ADF. I risultati di entrambe le operazioni sono stati piuttosto scarsi.
Anche la legge marziale instaurata da Tshisekedi in aprile 2021 è stata una fonte di profitto per gli alti ufficiali dell’esercito residenti a Kinshasa. Un rapporto della Commissione per la difesa e la sicurezza dell’Assemblea nazionale ha indicato che, dei “37 milioni di dollari messi a disposizione in maggio [2021] per le emergenze legate alla legge marziale”, il 53% era servito a retribuire gli ufficiali dello stato maggiore generale residenti a Kinshasa, senza mai arrivare all’est del Paese.
Nello stesso tempo però, il bilancio della difesa è aumentato notevolmente. Il budget del 2022 è stato notevolmente oltrepassato e quello del 2023 è stato triplicato rispetto a quello del 2022, raggiungendo 1,5 miliardi di dollari, cioè il 10% della spesa pubblica prevista. Nella nuova legge sull’esercito, il Parlamento prevede inoltre di mantenere, tra il 2022 e il 2025, un livello di spesa di oltre un miliardo di dollari all’anno.
Anche l’instaurazione della legge marziale, mediante cui le autorità civili sono state sostituite da autorità militari, ha fornito delle opportunità economiche agli ufficiali dispiegati nell’est del paese. Questi ultimi hanno infatti preso il diretto controllo o hanno potuto esercitare la loro influenza sulle entrate doganali, sulla riscossione delle tasse, sugli appalti pubblici e sul settore giudiziario.
Nonostante la promulgazione della legge marziale, l’esercito congolese non è riuscito a fermare l’avanzata delle truppe dell’M23 e dell’esercito ruandese che le appoggia. Questa mancanza di risultati ha spinto il governo congolese a fare ricorso a delle compagnie militari private per addestrare le proprie truppe e per utilizzare degli aerei da combattimento. Ancora più preoccupante è il fatto che il governo congolese continui a chiedere l’appoggio e la collaborazione dei gruppi armati locali.

4. CONCLUSIONE E RACCOMANDAZIONI

Il conflitto dell’M23 si è impantanato, entrando in una situazione di stallo caratterizzata dalla violenza e con poche speranze di una soluzione immediata. A metà 2024, esso occupava gran parte della provincia del Nord Kivu, con migliaia di sfollati e centinaia di morti. Da parte sua, il governo congolese ha reagito maldestramente, appoggiandosi su gruppi armati, la maggior parte dei quali reclutano i loro combattenti all’interno delle proprie comunità etniche, rendendo così il conflitto ancora più complicato e devastante per le comunità locali.
Nonostante questa escalation, le poche iniziative di pace sembrano insufficienti e bloccate.
Le iniziative di pace di Nairobi e di Luanda soffrono di una mancanza di leadership e di visione, il che impedisce di superare gli interessi divergenti delle parti in conflitto. Il governo congolese non vuole cedere di fronte alla richiesta di trattative da parte dell’M23, percepito come un gruppo terroristico appoggiato da truppe di un paese straniero. Da parte loro, i vari mediatori, membri dell’UA, dell’EAC (a cui appartiene anche il Ruanda) e della SADC, non sono disposti ad esercitare le pressioni necessarie per il ritiro delle truppe dell’M23 e del Ruanda dalle zone occupate.
La situazione militare non è migliore. La performance dell’esercito congolese è stata mediocre, nonostante i massicci aumenti del budget della difesa. Ciò l’ha condotto ad appoggiarsi sui gruppi armati locali già esistenti e ad impiegare società di sicurezza private, ma finora senza molto successo. Nel frattempo, due forze militari internazionali sono presenti nell’est della RDC, la MONUSCO e la SAMIDRC. Nessuna di queste due forze è dispiegata come parte integrante di un processo di pace ben progettato, né è attualmente disposta o pronta a guidare un’offensiva militare contro l’M23 appoggiato da truppe ruandesi.
Nonostante questo cupo scenario, esistono però delle misure concrete che potrebbero essere prese in considerazione, per alleviare la sofferenza del popolo congolese e procedere verso la risoluzione della crisi. Tuttavia, è importante sottolineare che nessuna di queste misure sarà possibile, senza maggiori investimenti finanziari e politici a favore della pace e a tutti i vari livelli: locale, nazionale, regionale e internazionale.

4.1. Le necessarie pressioni sul Ruanda

A differenza di molti altri gruppi armati che operano nell’est della RDC, l’M23 è ampiamente dipendente dall’appoggio ruandese. Tuttavia, i paesi finanziatori esteri – alcuni dei quali finiranno per spendere centinaia di milioni di dollari per l’assistenza umanitaria resasi necessaria in seguito a questa crisi – non hanno finora voluto esercitare pressioni significative su Kigali, come avevano fatto nel 2013.
Considerati gli interessi internazionali in gioco e in assenza di eventuali eventi locali inattesi, solo un’intensa pressione dell’opinione pubblica internazionale potrà costringere i governi dei paesi occidentali ad agire. Finora, essi hanno condannato l’appoggio del Ruanda all’M23, ma continuano ad organizzare grandi eventi internazionali proprio in questo Paese ed elogiano i suoi successi sulla scena economica mondiale, dando così l’impressione che la comunità internazionale in generale sostenga il Ruanda. Tra le pressioni che essi potrebbero esercitare, si potrebbero citare la sospensione di aiuti finanziari destinati al governo,  l’interruzione dell’appoggio militare e ulteriori sanzioni mirate. I governi occidentali e le organizzazioni finanziarie multilaterali, come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Africana per lo Sviluppo, potrebbero identificare e interrompere quei programmi che potrebbero essere sospesi, senza causare grandi difficoltà per la popolazione civile ruandese. Dieci anni fa, misure simili avevano costretto il Ruanda a ritirare il suo appoggio all’M23, provocandone la sconfitta.

4.2. L’intensificazione del processo di pace

È urgente che i governi della Comunità internazionale membri dell’ONU e dell’UA mettano in atto una strategia globale di risoluzione dei conflitti. Tale strategia potrebbe ispirarsi all’accordo quadro di Addis Abeba firmato nel 2013 e dovrebbe includere i seguenti elementi:
˃ Applicare l’attuale Programma di Disarmo, Smobilitazione, Ripresa Comunitaria e Stabilizzazione (PDDRCS), istituito nel mese di luglio 2021:
– adottando una strategia di contatti con i gruppi armati, per permettere loro di esprimere le loro richieste. Tutto questo con la partecipazione della società civile, della MONUSCO e della SADC;
– promuovendo un’attività di sensibilizzazione delle comunità locali, in vista della reintegrazione in esse degli ex combattenti dei gruppi armati disarmati e smobilitati, investendo tutto il necessario per favorire l’occupazione, la riabilitazione delle infrastrutture e i servizi sociali;
˃ Promuovere la riconciliazione comunitaria attraverso:
– l’elaborazione di programmi radiotelevisivi, l’organizzazione di iniziative di dialogo a livello locale e la creazione di commissioni ad hoc a livello nazionale;
– l’approfondimento della questione della presenza di comunità ruandofone, in vista di una coesistenza pacifica:
˃ Favorire il ritorno dei rifugiati congolesi residenti nei paesi vicini;
˃ Promuovere la riforma del settore della sicurezza, investendo nella creazione di una polizia di prossimità, nella riforma dell’esercito e nel miglioramento del settore giudiziario;
˃ Rinnovare la gestione delle catene di approvvigionamento dei minerali, per creare le condizioni che permettano una vita dignitosa per le comunità minerarie e un aumento delle entrate fiscali per il governo;
˃ Proporre un piano di sviluppo economico per le regioni colpite dal conflitto, con particolare attenzione alle fasce più deboli ed emarginate della popolazione.

4.3. L’imperativo della riforma del settore della sicurezza

È difficile immaginare che i gruppi armati scompaiano dall’est della RDC se lo Stato rimane debole e privo di qualsiasi capacità di deterrenza. La riforma dell’esercito è al centro di questa problematica. Come già sottolineato, la sfida è soprattutto politica: il governo dovrà trasformare questa istituzione, che finora è servita per distribuire privilegi e per incrementare una lucrosa attività mineraria illecita, in un’istituzione capace di fornire un vero servizio pubblico. Ciò richiederà una grande determinazione per reprimere l’indisciplina, gli illeciti finanziari, gli abusi e la corruzione. Tutto ciò richiederà:
– la creazione di un meccanismo di “vetting” che permetta di escludere tutti quegli agenti contro i quali vi siano prove significative di crimini finanziari o di violazioni dei diritti umani;
– il miglioramento delle condizioni di vita dei soldati e delle loro famiglie, ciò che comprenderebbe l’erogazione di salari dignitosi e l’accesso ai servizi sociali;
– l’eliminazione dei bonus discrezionali: la remunerazione dei soldati dovrà essere effettuata solo sotto forma di stipendi legali;
– un maggior controllo mediante la riorganizzazione dei servizi dell’ispezione generale, una maggior responsabilizzazione della commissione parlamentare della difesa e una limitazione dell’uso del “segreto della difesa”, che finora è servito per impedire la pubblicazione di informazioni relative alle spese e operazioni militari;
– un rafforzamento dei servizi di controllo dell’esercito: l’Ispettorato dell’Esercito, la Corte dei Conti e la giustizia militare.

4.4. La riconciliazione comunitaria e la questione ruandofona

Dall’inizio delle guerre del Congo nel mese di marzo 1993, non c’è mai stato uno sforzo serio e globale a favore di una giustizia adatta ai tempi di transizione o di una riconciliazione a livello locale. La Commissione “Verità e Riconciliazione” del governo di transizione è nata morta e, benché siano stati compiuti molti sforzi a livello locale per promuovere la coabitazione e la riconciliazione, è però mancato il necessario appoggio da parte del governo. Ciò ha causato la crescita dei rancori e dei risentimenti, favorendo la conflittualità e il ricorso alla lotta armata.
Uno dei conflitti più gravi concerne la questione ruandofona. Almeno dal 1993, lo statuto delle popolazioni ruandofone dell’est della RDC ha ripetutamente innescato violenti conflitti. Le élite politiche di entrambe le parti hanno alimentato questo antagonismo a proprio vantaggio. Il risultato è un profondo senso di sfiducia e di risentimento che si è diffuso tra le principali parti interessate e tra la popolazione in generale.
Per superare questa situazione, i dirigenti congolesi potrebbero riconoscere la storia di queste popolazioni, la maggior parte delle quali si è stabilita nell’est del Congo già prima dell’indipendenza, e astenersi dall’incolpare intere comunità per crimini commessi da singoli individui. Benché queste misure siano politicamente impopolari, esse possono tuttavia essere molto utili per prevenire la ripresa dei conflitti nel futuro.
Per promuovere la riconciliazione e risolvere le tensioni tra le varie comunità etniche, è necessario uno sforzo nazionale da parte del governo e della società civile. Per favorire la riconciliazione, si possono utilizzare vari strumenti: la mediazione come mezzo di risoluzione dei conflitti fondiari, la creazione di commissioni di esperti storici, l’organizzazione di seminari locali sul tema della pace, la revisione dei programmi scolastici e l’istituzione di meccanismi di verità e riconciliazione.
Qualunque sia la modalità adottata, queste iniziative devono sempre coinvolgere i leader delle comunità locali ed essere parte di un processo politico più ampio che affronti il problema dell’insicurezza e permetta di riparare le ingiustizie del passato.

4.5. Un piano per il ritorno dei rifugiati

In Ruanda, ci sono più di 80.000 rifugiati congolesi, molti dei quali sono là da più di vent’anni, Secondo l’M23, si tratta di uno dei principali problemi da risolvere. Ma questi rifugiati residenti in Ruanda rappresentano solo una piccola parte di 1,1 milioni di Congolesi fuggiti dal proprio paese a causa dell’insicurezza.
Anche se il rimpatrio dei rifugiati residenti in Ruanda è particolarmente importante per l’M23, anche tutti gli altri rifugiati congolesi residenti all’estero dovrebbero poter ritornare nel proprio paese, se lo desiderano. Il maggior numero di loro si trova in Uganda (494.874), altri si trovano in Tanzania (123.106), Burundi (85.000) e Kenya (56.582). Non è realistico pensare che tutte queste persone possano ritornare in patria: nel 2022, c’erano 35 milioni di rifugiati in tutto il mondo, ma solo 114.300 sono stati rimpatriati. Ciò nonostante, il governo congolese dovrebbe continuare a collaborare con l’UNHCR e i vari paesi ospitanti per organizzare il ritorno di almeno alcuni di questi cittadini.
Per i rifugiati congolesi residenti in Ruanda, come per tutti gli altri rifugiati, questo ritorno dipenderà dal miglioramento della sicurezza nelle loro comunità di origine. I lavori di preparazione potrebbero essere intensificati. Si tratta di organizzare un censimento per identificare i loro villaggi di origine, raccogliere le informazioni necessarie per capire l’attuale situazione delle loro terre e delle loro proprietà nella RDC e quale tipo di restituzione potrebbe essere possibile e, infine, avviare un dialogo tra le autorità locali congolesi e  i delegati dei rifugiati residenti nei campi profughi all’estero, al fine di costruire un consenso sulla loro reintegrazione.
In un secondo momento,  si dovrebbe affrontare una questione ancora più spinosa, quella della sicurezza. Infatti, come potranno i rimpatriati essere sicuri di non dovere affrontare gli stessi attacchi e le stesse violenze che, in passato, li avevano costretti a fuggire?
Le autorità congolesi, con l’eventuale appoggio dei paesi della comunità internazionale e delle varie missioni multinazionali presenti sul territorio, dovrebbero fornire ai rimpatriati delle reali garanzie di sicurezza e, nello stesso tempo, investire in progetti di sviluppo a favore delle comunità locali, affinché questi rimpatri vadano a beneficio dell’intera popolazione locale.