I “MINERALI INSANGUINATI”, FATTORI DI CONFLITTI NEL KIVU (REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO) – 1ª Parte
Studio delle rivalità territoriali in una zona grigia dell’Africa centrale
Melvil Bossé – https://dumas.ccsd.cnrs.fr/dumas-02445404/document
INDICE
INTRODUZIONE
1. IL KIVU COME TEATRO DI CONFLITTI: ALL’ORIGINE DELLA GUERRA
1.1. La posizione geografica, fattore determinante nel susseguirsi dei conflitti
1.2. I minerali al centro della questione: un sottosuolo che suscita bramosie
1.3. La questione demografica, una sfida globale per la Regione dei Grandi Laghi Africani
1.4. Conclusione della 1ª parte
INTRODUZIONE
Nel 2017 la Repubblica Democratica del Congo (RDC) aveva 81 milioni di abitanti, diventando così il quarto stato più popoloso dell’Africa. Insieme, le due province del Nord Kivu e del Sud Kivu avevano quasi 12,5 milioni di abitanti (ovvero il 15% della popolazione congolese) per una superficie di 125.000 km² (più di quattro volte la superficie del Belgio). Ex colonia belga che ha ottenuto l’indipendenza nel 1960, la RDC è oggi uno dei paesi meno sviluppati (PMS) secondo le categorie economiche stabilite dalle Nazioni Unite: con un PIL pro capite di 785 dollari nel 2017, il paese si colloca tra i più poveri del mondo. Benché la crescita economica sia stata superiore al 7% tra il 2010 e il 2015, il tasso di povertà è stimato a oltre il 60% (il 3° più alto al mondo nel 2017). Appare quindi evidente che la ricchezza mineraria congolese, che spiega la crescita, non porta alcun beneficio alla popolazione, soprattutto nelle regioni colpite da conflitti armati. La RDC sembra essere ancora lontana dai paesi emergenti e rimane ancorata a quello che qualche decennio fa veniva chiamato il “Terzo Mondo”.
Dalla fine della seconda guerra nel 2003, la Repubblica Democratica del Congo (RDC) non è più ufficialmente uno stato in guerra. Questo vasto Paese dell’Africa Centrale, il cui territorio si estende su una superficie di circa 2.345.000 km² (più di quattro volte la superficie della Francia), è tuttavia oggetto di divisioni interne e di un conflitto che continua ancora oggi. È nella parte orientale della RDC, nelle province del Nord Kivu e del Sud Kivu, che sono ancora in corso degli scontri armati. Nel Kivu, regione di confine con l’Uganda, il Ruanda, il Burundi e la Tanzania, situata a 1.500 chilometri dalla capitale congolese Kinshasa, una molteplicità di milizie e gruppi armati alimenta un conflitto che costituisce la continuazione della “grande guerra africana” degli anni 2000. Si tratta della seconda guerra del Congo a cui, tra il 1998 e il 2003, hanno partecipato nove paesi africani e una trentina di gruppi armati, provocando più di tre milioni di morti e un milione di sfollati.
È in questo contesto marcato dalla violenza che le province dell’est della RDC sono sfuggite al controllo dello Stato, anche dopo la formazione di un governo di transizione nell’aprile 2003. Il Kivu può quindi essere definito come una zona grigia, perché lo Stato di diritto, la RDC, non ha più alcun controllo de facto (cioè nella realtà concreta), ma solo de jure (un controllo giuridico ufficiale e riconosciuto). Si può parlare di zona grigia quando le istituzioni centrali di uno Stato sovrano “non riescono, per impotenza o abbandono, a penetrare in un determinato territorio per affermare la propria autorità assicurato, invece, da microautorità alternative”.
Questo limite rende la RDC uno Stato fallito. Questo termine è stato definito come “l’incapacità parziale o totale dello Stato di offrire la propria protezione e i servizi minimi che, in teoria, dovrebbe fornire ai suoi cittadini”. Il fallimento potrebbe essere spaziale. In questo caso, una porzione del territorio statale sfugge al controllo del potere centrale. È il caso dei territori dell’est della RDC. Tale mancanza ha permesso a gruppi armati eterogenei di stabilirsi in diverse parti del Kivu e di imporvi il proprio controllo.
I gruppi armati attualmente presenti nell’est della RDC rispondono, almeno in parte, a interessi economici e combattono per avere accesso alle ricchezze del sottosuolo del Kivu.
L’accaparramento delle risorse minerarie del Kivu rappresenta quindi uno dei maggiori elementi della guerra e, senza dubbio, il principale motivo delle tensioni tra i suoi attori. Tra queste risorse si possono citare soprattutto l’oro, la cassiterite (stagno) e il coltan. La Colombo-tantalite viene utilizzata nell’industria elettronica per la produzione di smartphone e computer. Questo materiale raro e prezioso, divenuto essenziale nell’era moderna, ha conosciuto un boom economico molto significativo a partire dagli anni 1990 e la regione del Kivu ne detiene l’80% delle riserve mondiali. Queste materie prime suscitano bramosie e rivalità che diventano spesso molto virulente.
Ecco perché si può parlare di minerali di sangue, termine che si riferisce a dei minerali che alimentano dei conflitti armati e che spesso ne costituiscono l’oggetto principale. Si può parlare anche di minerali di conflitto, perché i diversi gruppi armati si scontrano tra loro per il controllo delle miniere sparse nei loro territori, allo scopo di finanziare le loro guerre. I minerali vengono estratti nelle miniere del Kivu, nel cuore di territori montuosi occupati dalla foresta equatoriale. Queste colline e montagne dell’Est permettono l’insediamento dei combattenti nei boschi di un territorio isolato e difficile da raggiungere.
Approfittando delle ricchezze minerarie del sottosuolo congolese, alcune grandi potenze e i paesi limitrofi della RDC contribuiscono a un “saccheggio generalizzato”. È così che le società minerarie danno origine ad un processo di neocolonialismo economico. Quando si parla di neocolonialismo, un termine forte e controverso, ci si riferisce al “mantenimento, o al ritorno, di legami di subordinazione tra stati recentemente indipendenti ed ex potenze coloniali”. Per verificare se il ricorso alla nozione di neocolonialismo possa essere giustificato, sarà necessario individuare i legami di dominio-subordinazione esistenti nelle relazioni geo-economiche tra lo Stato congolese e i paesi vicini (Ruanda, Uganda) da un lato, e tra lo Stato congolese e le società occidentali e/o asiatiche, dall’altro.
A questi concetti chiave, occorre aggiungere anche altre nozioni. Il termine “libanizzazione” indica delle situazioni caratterizzate dal crollo dell’autorità dello Stato centrale e dall’onnipotenza, almeno a livello locale, di attori insurrezionali (guerriglia). I territori detenuti da questi ultimi non sono limitati da confini, ma da linee del fronte più o meno stabili. Come ha fatto la RDC a diventare uno stato libanizzato? Il Kivu è stato definito come “una vasta regione in una posizione strategica, caratterizzata dalla presenza di stati in conflitto e coinvolta nei conflitti di interessi delle grandi potenze vicine”. Le potenze in gioco qui non sono solo i paesi vicini (Ruanda e Uganda), ma anche quegli Stati che dominano il mondo multipolare di oggi e che hanno interessi più globali (la realpolitik guidata dagli Stati Uniti e la geoeconomia internazionalizzata della regione dei Grandi Laghi Africani).
Questo studio si propone di comprendere il conflitto del Kivu identificandone le molteplici questioni e attori, analizzando le sue conseguenze sulla situazione socio-economica più che le sue cause (già riportate più volte in numerosi lavori), ma anche studiandone le prospettive.
Verranno qui delineate due ipotesi principali.
Innanzitutto, il conflitto del Kivu è dovuto non tanto a tensioni etniche quanto alla corsa verso l’accaparramento delle risorse naturali, vale a dire i minerali preziosi. Nonostante l’esistenza di conflitti identitari, i conflitti interetnici hanno però in gran parte lasciato il posto a tensioni legate ai “tesori” del sottosuolo.
Tuttavia, le motivazioni economiche e gli scontri identitari possono essere collegati. Un conflitto interetnico, o “conflitto identitario”, risponde a una logica in cui “l’etnia non è tanto la causa dello scontro, spesso costruito artificialmente, ma l’attore designato e la vittima potenziale”. Si tratta di una guerra civile in cui le motivazioni degli attori “possono essere economiche e legate a questioni di territorio: appropriazione di terreni agricoli, di risorse minerarie”. È questo il caso del Kivu, dove ci si contende il territorio per la rendita che può apportare.
I conflitti di identità sorgono più spesso negli Stati fragili, dove i gruppi etnici e i popoli svolgono un reale ruolo sociale e culturale. A volte le persone vengono messe l’una contro l’altra attraverso la propaganda e delle campagne diffamatorie. L’Africa dei Grandi Laghi soddisfa queste condizioni. Le “classiche” guerre tra stati hanno ora lasciato il posto alle guerre interne ad un singolo stato, o “civili”, il che non impedisce che, nella RDC, ci siano dei casi di ingerenza. Attraverso l’appoggio fornito ad alcuni gruppi armati attivi nella RDC, il governo ruandese si concede in qualche modo il diritto di intervenire nei confronti del vicino congolese, benché uno dei principi essenziali del diritto internazionale democratico sia quello della […] non ingerenza negli affari interni di altri paesi.
Una seconda ipotesi è la seguente: il Kivu sarebbe un tipico esempio di uno dei grandi paradossi che la globalizzazione può generare. Essendo il Kivu una regione completamente integrata nel commercio internazionale attraverso i flussi minerari, questo processo vi genera a sua volta insicurezza e perdita di controllo. Dato che il Kivu è ancora molto sottosviluppato, in definitiva esso costituirebbe una frangia del “villaggio globale” mondializzato.
L’obiettivo principale di questo studio è quello di individuare i fattori, essenzialmente economici, che prolungano la guerra fino ad oggi. Se l’Africa subsahariana attira gli investitori economici (oggi soprattutto cinesi), la povertà non sembra diminuire nell’Africa centrale, perché Stati come la RDC (ma anche la Repubblica Centrafricana o il Burundi) rimangono ancora marcati dalla loro instabilità politico-territoriale. Nel Nord Kivu e nel Sud Kivu, da più di vent’anni le popolazioni soffrono quotidianamente le conseguenze delle angherie e delle violazioni dei diritti umani perpetrate dai gruppi armati. La crisi umanitaria che l’est della RDC sta affrontando si manifesta nell’elevato tasso di mortalità, nelle molteplici violenze sessuali, nel reclutamento di bambini soldato e nello sfruttamento del lavoro minorile nelle miniere. Questo ciclo bellicoso è reso possibile anche dalla distanza geografica, politica e simbolica da Kinshasa, la capitale del Paese.
Questo studio si propone quindi di fornire una griglia di lettura per comprendere il conflitto nel Kivu, evidenziando al contempo il paradosso originato dalla “guerra dei minerali”: le speranze di pace della popolazione congolese sembrano confrontarsi con l’abbondanza delle ricchezze naturali del proprio Paese.
Il presente lavoro sarà pertanto strutturato attorno alla seguente problematica: È possibile pensare alla stabilità politica e sociale del Kivu, malgrado la ricchezza di un sottosuolo che alimenta e perpetua le tensioni?
Tenere conto della posizione geografica della regione è essenziale per comprendere l’origine della guerra nel Kivu. Nella prima parte, si prenderà in considerazione questo spazio come teatro di conflitti. La guerra si è impantanata, rendendo progressivamente questo teatro una vera zona grigia: così la analizzeremo nella seconda parte. In un contesto di tensioni, gli interessi economici di ciascun attore della guerra appaiono un ostacolo allo sviluppo della popolazione. Questo problema sarà affrontato nella terza parte, nella quale si metterà in discussione il posto reale che la RDC occupa nell’area economica dei Grandi Laghi e il ruolo di Kinshasa di fronte alle ingerenze di altri Stati.
1. IL KIVU COME TEATRO DI CONFLITTI: ALL’ORIGINE DELLA GUERRA
1.1. La posizione geografica, fattore determinante nel susseguirsi dei conflitti
Le due province del Nord Kivu e del Sud Kivu fanno parte della Regione dei Grandi Laghi Africani e, perciò, sono state direttamente colpite dagli eventi che hanno devastato questa regione negli anni 1990, tra cui la crisi ruandese. Per capire meglio perché queste due province dell’est della RDC siano state vittime di un conflitto proveniente da oltre confine, è necessario conoscere la loro ubicazione. I due capoluoghi di provincia, Goma (Nord Kivu) e Bukavu (Sud Kivu), si trovano sulle sponde del Lago Kivu, in prossimità della frontiera con il Ruanda. Pertanto, è soprattutto in queste due città che, nel 1994, più di un milione di rifugiati ruandesi vi trovarono riparo. Per valutare l’impatto di questi eventi sulla situazione attuale, è necessaria una lettura storica.
Verso la fine degli anni 1990, in seguito alla caduta del Muro di Berlino (1989), le due potenze anglofone (Stati Uniti e Inghilterra) stavano cercando nuovi equilibri politico economici in un’Africa centrale essenzialmente francofona (Zaire, Ruanda e Burundi).
Il loro sogno politico era quello di favorire la nascita di una nuova classe dirigente, capace di salvaguardare i loro interessi economici nella Regione dei Grandi Laghi Africani. In Uganda, Yoweri Museveni, appartenente al gruppo dei Banyankole dell’etnia Hima (Tutsi), era arrivato al potere nel 1986 sconfiggendo, con l’aiuto dei rifugiati tutsi ruandesi, le forze del presidente Milton Obote. Buon allievo del Fondo Monetario Internazionale (FMI), ottenne ben presto la simpatia degli Stati Uniti. Nello Zaire, il presidente Mobutu aveva ormai perso la fiducia sia del suo popolo che della comunità internazionale e si trovava ormai solo e indebolito, soprattutto dopo l’introduzione del multipartitismo nel 1991, lo svolgimento della Conferenza Nazionale Sovrana nel 1992 e la comparsa di una grave malattia.
In Ruanda, già a partire da ottobre 1990, il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), un movimento politico militare composto di rifugiati tutsi ruandesi fuggiti in Uganda verso la fine degli anni 1950 e inizio 1960, in occasione della rivoluzione hutu e della fine della monarchia tutsi, aveva ripetutamente compiuto una serie di attacchi a partire dall’Uganda, con l’intenzione di ritornare in patria, rovesciare il regime hutu e di riprendere il potere.
Tra aprile e luglio 1994, durante il genocidio, le truppe dell’FPR avanzarono verso Kigali, la capitale del Ruanda. La progressione di queste truppe tutsi causarono la fuga di due milioni di ruandesi che trovarono rifugio in enormi accampamenti allestiti oltre confine, nell’allora Zaire. La maggioranza di questi rifugiati erano Hutu, un gruppo etnico rappresentante l’80% della popolazione ruandese. Tra essi, la maggior parte erano dei civili che fuggivano dai combattimenti, ma c’erano anche molti responsabili del genocidio dei tutsi: militari dell’ex esercito ruandese e membri delle milizie Interahamwe che, ben presto, crearono l’Esercito di Liberazione del Ruanda (Alir), per tentare di riconquistare il potere in Ruanda. Reagendo a tale minaccia, di fronte all’inerzia dell’ONU, il nuovo governo di Kigali decise di inviare le sue truppe nel paese vicino, per smantellare i campi dei rifugiati, sconfiggere i militari dell’ex esercito ruandese e le milizie Interahamwe, destituire il presidente zairese Mobutu Sese Seko che li aveva accolti e instaurare a Kinshasa un regime politico a lui più favorevole.
Fu l’inizio di un lungo ciclo di guerre che sconvolse, e sconvolge tuttora, l’est della RDC.
Alla fine di ottobre 1996, le truppe dell’FPR attraversarono la frontiera con l’allora Zaire e attaccarono i campi dei rifugiati ruandesi, con la complicità dell’Alleanza delle Forze Democratiche di Liberazione (AFDL), un gruppo armato zairese a connotazione tutsi, fomentato e appoggiato dal regime ruandese e guidato da Laurent-Désiré Kabila. Si tratta della Prima Guerra del Congo che durerà sei mesi, da novembre 1996 a maggio 1997. La maggior parte dei rifugiati civili hutu ruandesi ritornarono in Ruanda, altri fuggirono verso l’interno dello Zaire, allontanandosi dalla frontiera con il Ruanda e, tra questi ultimi, c’erano anche i militari dell’ex esercito ruandese e le milizie Interahamwe. Le truppe dell’APR e dell’AFDL li inseguirono e, pochi mesi dopo, il 17 maggio 1997, conquistarono la capitale, Kinshasa.
Anche truppe dell’esercito ugandese e dell’esercito burundese parteciparono a questa guerra, il cui obiettivo principale era quello di rovesciare il regime. del presidente zairese Mobutu Sese Seko. Infatti, i presidenti di Ruanda, Uganda e Burundi, rispettivamente Paul Kagame, Yoweri Museveni e Pierre Buyoya, consideravano il presidente Mobutu come un loro nemico comune, perché avrebbe dato ospitalità a dei gruppi armati che cercavano di destabilizzarli a partire dal territorio zairese.
Una volta arrivato al potere con l’appoggio del Ruanda e dell’Uganda, dopo essersi autoproclamato presidente e aver cambiato il nome del Paese da Zaire in Repubblica Democratica del Congo, Laurent Kabila si accorge che il Paese è ormai nelle mani dei suoi alleati ugandesi e, soprattutto, ruandesi, che occupano posti importanti nell’economia, nella politica, nei servizi di sicurezza e nell’amministrazione. Il nuovo capo di stato maggiore generale dell’esercito congolese, per esempio, è James Kabarebe, capo di stato maggiore dell’esercito ruandese che aveva coordinato l’avanzata delle truppe AFDL / APR verso Kinshasa. Il presidente Kabila rompe quindi l’alleanza con il Ruanda e l’Uganda, chiede il ritiro delle truppe straniere dalla RDC e espelle i membri tutsi dal suo nuovo governo. Questo improvviso cambiamento costituisce l’innesco della Seconda Guerra del Congo (1998-2003).
Avendo il Ruanda e l’Uganda mantenuto la loro presenza nella RDC, il territorio congolese si è trovato drammaticamente diviso in diverse zone d’influenza: l’Ovest controllato dal governo di Kabila, il Nord e l’Est sotto l’influenza ugandese e ruandese. Oltre a mantenere la presenza militare nelle regioni da loro controllate, in modo particolare nel Kivu, i governi di Kagame e Museveni vi appoggiano dei movimenti politico – militari a loro favorevoli: il Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD), sostenuto dal Ruanda, si impadronisce delle principali città del Kivu (Goma, Bukavu, Uvira), mentre nel nord del paese vi si insedia il Movimento di Liberazione del Congo (MLC), sostenuto dall’Uganda. Nello stesso tempo, Kabila ottiene l’appoggio da parte di vari altri Paesi, tra cui l’Angola, la Namibia, il Zimbabwe e il Sudan, che gli permettono di mantenere il controllo su Kinshasa, la capitale del Paese. Si tratta quindi di una guerra diventata ormai internazionale, per cui è stata denominata “Prima Guerra Mondiale Africana” o “Grande Guerra Africana”.
Inoltre, durante questa guerra, altre milizie armate apportano il loro appoggio al regime di Kabila: i vari gruppi armati Mai-Mai e le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR). I primi sono gruppi armati congolesi di autodifesa e di resistenza contro quella che è da sempre considerata come un’invasione ruandese. Le FDLR sono state fondate nel 2000 dagli Interahamwe, miliziani hutu ruandesi, molti dei quali implicati nel genocidio del 1994, con l’obiettivo di riconquistare il potere a Kigali.
Durante la guerra, in gennaio 2001, il presidente Laurent Désiré Kabila è assassinato e gli succede il figlio, Joseph Kabila.
Questa “prima guerra mondiale africana” si conclude nel 2003 con un accordo di pace che prevede un governo di transizione (1+4) presieduto dal Presidente della Repubblica, Joseph Kabila, coadiuvato da quattro vice-presidenti designati dal Governo congolese, l’RCD, l’MLC e l’Opposizione politica, Le truppe RCD, MLC e Mai-Mai vengono integrate nell’esercito nazionale.
La “grande guerra africana” ha poi lasciato il posto a una guerra concentrata nell’est del Paese, particolarmente nel Kivu, dove il Ruanda ha continuato a fomentare e ad appoggiare nuove ribellioni, tra cui: il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), un gruppo armato a maggioranza tutsi, guidato da Laurent Nkunda e attivo dal 2004 al 2009. La guerra del CNDP prende fine in seguito alla Conferenza di Pace organizzata a Goma nel 2008 e con l’accordo del 23 marzo 2009.
Nel 2012, sempre con l’appoggio del Ruanda, appare il Movimento del 23 marzo (M23), che esige la piena attuazione degli accordi del 23 marzo 2009 tra il governo congolese e il CNDP. L’M23 è stato sconfitto nel 2013 dall’esercito congolese in collaborazione le forze dell’ONU (MONUSCO).
Il susseguirsi di questi movimenti politico-militari sembra rivelare un “sistema Kivu” centrato sulla violenza: la fine di un gruppo armato non significa affatto la fine della guerra. Infatti, i gruppi armati sono sempre più numerosi e i molteplici tentativi di integrare i loro combattenti nell’esercito regolare sembrano quasi sempre destinati al fallimento e alla ripresa delle ostilità, perché quelli che non si sentono soddisfatti ritornano nella foresta per continuare la guerriglia, dando origine al seguente circolo vizioso: ribellione, accordi di pace, integrazione, nuova ribellione.
Inoltre, dato che molti capi di Stato della regione dei Grandi Laghi Africani (tra cui Museveni, Kagame e Kabila) sono arrivati al potere mediante la guerra, anche nel Kivu si è sviluppata una certa “cultura” della presa del potere mediante il ricorso alle armi.
Non è facile sconfiggere questo “sistema Kivu”, perché il Kivu è un territorio particolarmente difficile da gestire da parte del regime di Kinshasa. Il Kivu, infatti, si differenzia dal resto della RDC dal punto di vista geomorfologico: le infrastrutture stradali sono molto trascurate o quasi inesistenti; alcune foreste e montagne sono molto impervie e isolate e i ribelli possono quindi installarvi tranquillamente le loro basi, sicuri che l’esercito regolare avrà grandi difficoltà ad accedervi; l’enorme distanza del Kivu da Kinshasa e la sua vicinanza al Ruanda, all’Uganda e al Burundi lo hanno coinvolto nelle tensioni esistenti in questi stati vicini e lo hanno introdotto in un ciclo di violenze e massacri che ha innescato un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
1.2. I minerali al centro della questione: un sottosuolo che suscita bramosie
Sin dal periodo coloniale, le materie prime della RDC hanno sempre stuzzicato grandi appetiti. Immensamente ricco di risorse naturali, lo Sato Indipendente del Congo ha fatto la fortuna personale del re belga Leopoldo II (1835-1909), fornendo soprattutto caucciù e avorio. Successivamente, il Congo Belga ha arricchito lo Stato belga durante tutto il periodo della colonizzazione, fornendo caffè, thé, cotone. oro, cassiterite, …
Negli anni immediatamente successivi all’indipendenza (30 giugno 1960), il 60% dell’uranio, il 70% del cobalto e il 70% dei diamanti industriali prodotti a livello mondiale provenivano dall’ex Congo Belga. In tali circostanze, il Paese avrebbe quindi potuto iniziare ad usufruire delle ricchezze del suo suolo e sottosuolo per incrementare il suo sviluppo economico. Non è stato così.
Durante i suoi trent’anni di governo, il Presidente Mobutu Sese Seko ha sempre considerato le ricchezze congolesi come sue personali, ciò che l’ha condotto a investire prevalentemente in progetti che aumentassero il suo prestigio personale e favorissero la classe dirigente a lui più vicina, senza preoccuparsi maggiormente della popolazione del suo paese.
In seguito, le materie prime del Kivu, in particolare i minerali, sono entrate a far parte di una dinamica di conflitto e di guerra. Già durante la prima guerra del Congo (1996-1997), le truppe ruandesi avevano saccheggiato e trasportato in Ruanda i minerali che erano depositati nei magazzini delle miniere e dei centri commerciali. Tuttavia, molti osservatori concordano nel ritenere che il saccheggio dei minerali sia diventato più sistematico e strutturale a partire dall’inizio della Seconda Guerra del Congo (1998-2003).
Secondo Stéphane Rosière, «le ricchezze minerarie dell’ex Zaire costituiscono il nervo e la posta in gioco della guerra che contrappone il regime di Kabila ai suoi ex alleati ormai diventati suoi avversari. Le zone minerarie sono diventate gli obiettivi primari delle parti implicate nella guerra. […] I ruandesi e gli ugandesi finanziano infatti parte del loro sforzo bellico prelevando una parte dei profitti derivanti dall’estrazione irregolare e dalla commercializzazione illegale delle ricchezze minerarie congolesi da parte di società private». Nel suo libro “I nuovi predatori” (2003), Colette Braeckman spiega che l’ambizione ruandese di trasformare il Kivu in una “zona da cui ottenere risorse economiche per il suo propriosviluppo” era già un suo vecchio progetto. Oro, stagno, coltan e diamanti sono la ragione principale dell’ingerenza dei paesi limitrofi della RDC nelle questioni politiche, economiche e militari di questo paese. Roland Pourtier afferma che «il prolungamento della guerra nel Congo non aveva altro motivo che quello di permettere la perpetuazione del saccheggio delle sue risorse minerarie». Nei loro libri, Pierre Péan e Jean-Paul Mopo Kobanda hanno ripetutamente accusato il Ruanda di essere uno dei Paesi che ha tratto i maggiori vantaggi e profitti dalla guerra del Kivu.
Riguardo alla dicotomia ruando-congolese, Boltanski ha scritto: «In fondo, questo saccheggio era inevitabile. Da un lato, un piccolo paese montagnoso, sovrappopolato, privo di risorse naturali, dove la popolazione è costretta a coltivare anche il più piccolo appezzamento di terra, con alla guida un capo autoritario animato da una determinazione implacabile, pronto a tutto in nome del “mai più” e dotato di un esercito disciplinato, il migliore della regione. Dall’altro, un territorio infinito, uno Stato moribondo e un sottosuolo traboccante di ricchezze. Non c’era altro da fare che approfittarne».
Benché il Kivu si sia trovato coinvolto nella guerra a causa delle conseguenze della crisi ruandese, come precedentemente visto, e benché la corsa alle ricchezze minerarie congolesi non sia stata l’elemento scatenante del conflitto, è evidente che la corsa verso l’accaparramento delle risorse naturali della RDC in generale e del Kivu in particolare occupa ormai il primo posto tra i molteplici fattori che contribuiscono al prolungamento della guerra. In questo contesto, la popolazione civile del Kivu è la prima a pagare il prezzo di questa “economia di saccheggio”, su cui l’attuale industria delle nuove tecnologie si appoggia.
In un rapporto del 2014, gli esperti dell’istituto belga di ricerca International Peace Information Service (IPIS) hanno individuato l’esistenza, nel Kivu, di quasi 1.100 miniere e di 150 centri commerciali, che fungono da intermediari per la vendita dei minerali estratti. Tra le oltre 1.000 miniere visitate, in 600 circa hanno rilevato la presenza di almeno un gruppo armato. L’esercito regolare sarebbe presente in più di una miniera su tre. Questo dato rivela l’alto livello di indisciplina e di corruzione esistente nelle file dell’esercito regolare, composto da ex membri di gruppi armati, che vi sono stati integrati in seguito a dei cosiddetti accordi di pace e che, in realtà, non sono altro che degli “imprenditori” politico-militari desiderosi di arricchirsi. In altre miniere, ci sono le diverse fazioni dei Mayi-Mayi, dei Rayia Mutomboki e di altri gruppi armati, come l’NDC e le FDLR.
IPIS ha individuato quattro modalità a cui i vari gruppi armati e l’esercito fanno ricorso, per mantenere il loro controllo sulle miniere e poter, in tal modo, beneficiare delle relative entrate finanziarie: la tassazione illegale, l’acquisto dei minerali estratti dai minatori, l’attività estrattiva diretta e, infine, l’imposizione del lavoro coatto.
L’aggiornamento della mappa di localizzazione delle miniere elaborata dall’IPIS per il periodo 2016-2019 ha permesso di individuare 1.107 miniere (su un totale stimato di quasi 2.700), tra cui il 48% sono miniere d’oro, il 38% sono miniere di cassiterite, l’11% sono miniere di coltan e il 3% sono miniere di wolframite e di diamanti). Le miniere d’oro sono le più numerose e quindi quelle che occupano il maggior numero di lavoratori. Infatti, secondo il rapporto di IPIS, tra il 2013 e il 2014, il numero totale dei minatori artigianali era di circa 220.000, di cui 176.000 erano “cercatori d’oro”. Pertanto, l’estrazione dell’oro è maggioritaria rispetto a quella di altri minerali, ma il 98% dell’oro estratto è fatto passare di contrabbando oltre la frontiera congolese Verso il Ruanda, Burundi e Uganda), per essere poi esportato verso i paesi industrializzati.
A quasi sessant’anni dall’indipendenza, mentre il prezzo del coltan (colombo-tantalite) si aggira intorno ai 120 dollari al Kg, i minatori congolesi, che lavorano in condizioni durissime nelle profondità delle miniere, non possono venderlo agli intermediari che a soli 6 dollari al Kg. Tuttavia, i circa 500.000 minatori artigianali attivi nell’est della RDC producono un reddito indiretto per circa 10 milioni di persone. La miniera di Bisié, nel Nord Kivu, produce quasi l’80% della cassiterite totale della provincia (8.000 tonnellate all’anno, pari a 50 milioni di euro) e, di conseguenza, l’estrazione e il commercio di questo “oro grigio” genera la quasi totalità delle entrate del Nord Kivu. Secondo Boltanski (2010), «l’estrazione e la commercializzazione della cassiterite permette a quasi un milione di persone di sopravvivere, anche se la maggior parte dei minatori di Bisié vive con meno di 1,5 dollaro al giorno ed è generalmente fortemente indebitata.
Come il coltan, anche la cassiterite (il principale minerale di stagno) è essenziale per le nuove tecnologie: oggi lo stagno e il tantalio si trovano ovunque e in particolare nei telefoni cellulari e nei computer, insieme al tungsteno e all’oro. La dipendenza dai minerali è quindi tanto da parte dei paesi consumatori quanto da parte delle regioni produttrici, come il Kivu.
1.3. La questione demografica, una sfida globale per la Regione dei Grandi Laghi Africani
Secondo il geografo Roland Pourtier «le questioni di identità, le ambizioni politiche, lo sfruttamento delle risorse naturali spiegano solo in parte un conflitto che, in definitiva, ha cause molto più profonde. Secondo lui, «la questione fondiaria e quella demografica costituiscono il fondamento socioeconomico strutturale dei conflitti del Kivu, teatro di una vera e propria “guerra di conquista delle terre” dovuta a un’immigrazione mal controllata già a partire dalle indipendenze».
In un’ampia prospettiva che integra il Kivu nella sfera di influenza ruandese, Pierre Péan afferma: «Se il Ruanda non ha mai accettato le frontiere tracciate dai colonizzatori, è perché le sue terre non sono sufficienti a nutrire una popolazione in crescita. Per questo, è da molto tempo che, in ondate successive, dei pastori tutsi e dei contadini hutu sono partiti dal Ruanda e si sono stabiliti nei paesi limitrofi … in particolare sulle sponde occidentali dei laghi Alberto, Edoardo, Kivu e Tanganica, in tutto l’est dello Zaire, oggi RDC, soprattutto nelle province del Nord Kivu e del Sud Kivu. Ed è anche da molto tempo che, per risolvere questa questione, tra i Tutsi e i loro “cugini” Hima era nata l’idea di una Repubblica dei Vulcani, di un Tutsiland, di una Repubblica Swahili, un’idea a volte dissimulata dietro il concetto di una liberazione regionale. Questo desiderio espansionista dei dirigenti ruandesi non riguarda solo i Tutsi, ma anche gli Hutu che, quando erano al potere (1960-1994), avevano anch’essi gli occhi sempre rivolti verso le terre dell’Ovest. Dopo altri, a metà degli anni 1990, Yoweri Museveni (Uganda) e Paul Kagame (Ruanda) hanno tentato di realizzare questo progetto, che è diventato la, o una delle cause della pace impossibile nell’est della RDC e, quindi, in tutto il paese».
Pertanto, una forte pressione demografica, che genera una maggiore concorrenza per la proprietà e l’uso dei terreni agricoli, contribuisce ad amplificare delle tensioni provocate dalla stessa questione fondiaria, soprattutto a partire dagli anni 1970, con l’approvazione della riforma fondiaria del 1973. Nel Kivu, sono soprattutto i flussi migratori degli immigrati e dei rifugiati provenienti dal Ruanda e degli sfollati interni che provocano delle pressioni di tipo fondiario.
Secondo Rosière, anche se “le violenze politiche sono alla base di spostamenti di popolazione”, le migrazioni non sono semplicemente dei flussi di rifugiati/sfollati risalenti alle guerre degli anni 1990: esse fanno parte di fenomeni più antichi, che spiegano il numero elevato di ruandofoni (popolazioni di lingua Kinyarwanda) nell’est della RDC, almeno dalla fine del XIX secolo. A seconda delle diverse ondate migratorie, i Ruandesi arrivati nel Kivu si possono distinguere a seconda del periodo del loro arrivo: dapprima i Banyarwanda (letteralmente “quelli del Ruanda”), termine che designa in effetti dei congolesi di cultura ruandese; poi, quelli che sono stati designati come “i trapiantati” del periodo coloniale; poi, i rifugiati, soprattutto tutsi, arrivati alla fine degli anni 1950 e inizio degli anni 1960; infine, i rifugiati arrivati a partire dal 1994, in maggioranza hutu. Si sono quindi verificati molteplici flussi migratori che hanno portato ad una certa complessità delle realtà socio-demografiche nel Kivu, soprattutto perché «le differenze relativamente chiare inizialmente tra i quattro sottogruppi di origine ruandese sono diventate, col passare del tempo, sempre più difficili da identificare e quindi facilmente manipolabili».
Sempre secondo Rosière, «le motivazioni di queste migrazioni [dal Ruanda al Kivu] sono agrarie e politiche. Il grande divario di densità demografica tra le terre ruandesi sovrappopolate e le fertili colline congolesi, meno popolate e la cui popolazione ha in gran parte la stessa lingua madre, spiega la persistenza dei flussi migratori provenienti dal Ruanda. Il Nord Kivu è quindi lo sbocco demografico tradizionale del sovrappopolamento ruandese».
Questi fenomeni migratori provocano però una sovrappopolazione anche nel Kivu, la cui capacità di accoglienza di popolazione è sempre più messa a dura prova. Per il momento, le province orientali del Congo sono ben lontane dallo sperimentare l’altissima densità demografica del “paese delle mille colline”, il Ruanda, che è di 452 abitanti/km². Quella del Nord Kivu è di 112 abitanti/km² e quella del Sud Kivu di 83 abitanti/km². Si potrebbe quindi pensare che queste due province dell’est congolese dispongano di spazi ancora liberi e disponibili, ma non si può dimenticare che molte loro zone sono occupate dalla foresta equatoriale e da una catena montagnosa abbastanza impervia. Il territorio può quindi risultare talvolta difficilmente abitabile. I massicci afflussi di popolazione alimentano quindi i problemi di accesso all’acqua, al cibo e alla casa.
Tutto ciò può provocare delle situazioni conflittuali, in particolare quando, una volta che il contesto politico-militare si sia in qualche modo normalizzato, gli sfollati o rifugiati ritornano alle loro case, trovandovi le loro terre occupate da altre famiglie, spesso considerate “straniere”.
L’aumento della densità demografica ha delle conseguenze sulle questioni agropastorali, perché i Ruandesi, in particolare i Tutsi, sono soprattutto allevatori che necessitano di vaste distese di pascoli per le loro mandrie. Queste mandrie di bovini possono invadere i campi degli agricoltori, perché hanno bisogno di spostarsi, in particolare durante la transumanza, uno spostamento ciclico del bestiame, a seconda della disponibilità stagionale dei pascoli. Esistono quindi delle contrapposizioni tra questi allevatori tutsi e gli agricoltori che si considerano piuttosto “autoctoni congolesi”. Queste contrapposizioni possono portare a degli scontri armati, quando i capi tradizionali fanno appello a delle milizie locali per difendere le terre da essi distribuite ai membri delle loro comunità etniche, il che costituisce una “militarizzazione delle controversie agropastorali”. Per esempio, si possono constatare delle complicità sia tra gli agricoltori autoctoni e i gruppi armati Mai-Mai, sia tra gli allevatori tutsi e degli ufficiali militari.
In definitiva, si possono identificare tre fattori che determinano una persistente conflittualità tra le popolazioni rurali nelle due province del Kivu: conflitti fondiari, appoggio delle comunità etniche ai gruppi armati e debolezza dell’autorità dello Stato a livello locale.
D’altra parte, l’amministrazione locale è ancora in parte soggetta alle abitudini della cultura tradizionale. Infatti, benché la Costituzione e la legge sanciscano il principio secondo il quale solo lo Stato è il proprietario del suolo e del sottosuolo, alcuni capi tradizionali continuano ad assumersi la responsabilità della gestione fondiaria. È dunque possibile affermare che la conflittualità che spesso caratterizza la questione fondiaria è dovute essenzialmente al persistere, nella RDC, di una dualità giuridica tra il diritto fondato sulla legge e la consuetudine fondata sulla tradizione.
Da parte sua, dieci anni fa, Pourtier aveva già osservato una crisi crescente: «In pochi decenni, la saturazione fondiaria ha completamente cambiato la situazione, moltiplicando i conflitti per la terra, contrapponendo gli autoctoni agli stranieri in un confuso contesto giuridico, dove il diritto tradizionale e il diritto moderno incarnato nello Stato si sovrappongono. […] La questione fondiaria della terra, principale causa di violenza interetnica, non è nuova, ma ha continuato a peggiorare al ritmo di una crescita demografica che fa della terra la questione centrale dei conflitti sociali. […] La situazione diventa ogni anno più insostenibile in questo piccolo spazio ormai demograficamente saturato dell’Africa Centrale, dove la guerra sembra aver sostituito la carestia come regolatore demografico».
Come sottolineato da Justine Brabant, «il prisma attraverso il quale gli agricoltori del Kivu vedono i loro rapporti con gli allevatori è costituito, in primo luogo, da una cultura contadina che mette l’accento sull’appartenenza della terra alla collettività e sulla necessità di versare un contributo al capo tradizionale per poter da egli ottenere i campi da coltivare e su cui abitare, e in secondo luogo, dalla retorica bellicista dei gruppi armati, che esacerba la questione dell’autoctonia e fomenta il timore di un’invasione da parte dei paesi limitrofi, tra cui il Ruanda in particolare. Questo timore è provocato dalla porosità e permeabilità delle frontiere, ciò che crea insicurezza e che può spiegarsi per l’incapacità del governo di Kinshasa di controllare questa zona grigia del Paese che è il Kivu. La persistenza di questa griglia di lettura può essere interpretata come il frutto della turbolenta storia politico-militare dell’est della Repubblica Democratica del Congo».
1.4. Conclusione della 1ª parte
In primo luogo, occorre ricordare che il Nord Kivu e il Sud Kivu si trovano a 1.500 km. di distanza dalla capitale del Paese, Kinshasa, ma alla frontiera con il Ruanda, l’Uganda e il Burundi. In seguito a questa loro posizione geografica, il Nord Kivu e il Sud Kivu, il cui sottosuolo è molto ricco di minerali preziosi, hanno dovuto subire, sui propri territori, le nefaste conseguenze delle crisi conflittuali che, nel corso degli anni, si sono susseguite nei paesi limitrofi. Questi conflitti hanno causato il flusso di rifugiati e accentuato il fenomeno dell’emigrazione verso il Kivu, una regione già caratterizzata da una crescente pressione demografica, in seguito al calo della mortalità durante la colonizzazione belga. Di conseguenza, senza che fosse ovviamente “predestinato” alla violenza, il Kivu è apparso come un terreno fertile per la “esplosione” di un conflitto particolarmente violento e mortale iniziato nella seconda metà degli anni 1990.
Il geografo Roland Pourtier ha dichiarato: «Dalla fine della guerra del Ruanda nel 1994, suggellata dalla vittoria dei Tutsi dell’Esercito Patriottico Ruandese (APR) guidato da Paul Kagame, e dalla sconfitta delle Forze Armate Ruandesi (FAR), espressione del potere Hutu installato a Kigali sin dal tempo dell’indipendenza (1962), l’epicentro dei conflitti si è spostato nel Kivu. […] Inserito nell’entità geopolitica dei Grandi Laghi, il Kivu è stato trascinato dentro un sistema conflittuale regionale».
Il ricercatore belga Kris Berwouts, specialista in questioni di politica e sicurezza dell’Africa centrale (in particolare della RDC), distingue tre fattori essenziali per la continuazione della guerra nel Kivu, tre fattori “che si sovrappongono e nessuno dei quali ha il sopravvento sull’altro”: l’estensione della crisi ruandese e le migrazioni in territorio congolese nonché la corsa alle ricchezze minerarie, Berwouts insiste su quella che per lui è la causa prima del conflitto, vale a dire “l’implosione dello Stato congolese sin dal 1960, legata a un problema di malgoverno”. Questa caratteristica che fa della RDC uno Stato fallito ha portato alla trasformazione del Kivu in una zona grigia nel cuore dell’Africa dei Grandi Laghi.