REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO: NULLA DI NUOVO NELL’EST DEL PAESE
Thierry Vircoulon et Marc-André Lagrange, Études de l’Ifri, Ifri, décembre 2022[1]
INDICE
1. INTRODUZIONE
2. PERPETUAZIONE DELL’INSICUREZZA
a. Una violenza persistente e localizzata
b. La ripresa della guerra etnica nell’Ituri
c. Dall’insurrezione patriottica alla criminalizzazione della conflittualità
3. LA POLITICA DI PACIFICAZIONE IN UN VICOLO CIECO
a. La vana tentazione dell’opzione militare
b. Il cammino della cooperazione regionale in materia di sicurezza
c. L’inefficacia dei programmi di Disarmo e Reinserimento (DDR)
4. PERCHÉ NELL’EST DEL PAESE NON C’È NULLA DI NUOVO?
a. L’economia politica della conflittualità
b. La stabilità dei giri d’affari e la geo-economia dei traffici
c. L’inerzia della comunità internazionale
– La presenza / assenza delle Nazioni Unite
– Il fallimento delle leggi sulla regolamentazione del commercio dei minerali
5. CONCLUSIONE
1. INTRODUZIONE
Per i Congolesi, la nomina di Felix Tshisekedi a Capo dello Stato, avvenuta il 24 gennaio 2019 nell’ambito di un’insolita coabitazione con i partiti alleati dell’ex presidente Joseph Kabila, avrebbe dovuto aprire la strada al cambiamento: la fine dell’insicurezza nell’est del paese e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.
È quindi utile analizzare la politica di pacificazione dell’est della RDC adottata dal governo Tshisekedi a partire dal 2019. I risultati di questa politica sono stati finora negativi, in quanto la situazione di insicurezza non è cambiata e si è perpetuata.
La conflittualità nell’est della RDC si basa su un’economia di guerriglia ormai consolidata, come dimostrato dalla stabilità delle reti di saccheggio delle risorse naturali e delle rotte del loro commercio illegale. Questa economia di guerriglia è la prolungazione dell’economia di guerra che era prevalsa durante il periodo di occupazione da parte degli eserciti ruandese e ugandese. Essa è stata facilitata dall’impunità e da un insieme di interessi locali, nazionali, regionali e
internazionali.
Purtroppo, le risposte delle autorità congolesi ai “problemi dell’Est” sono identiche a quelle del tempo in cui era presidente Joseph Kabila. Il governo di Tshisekedi non ha fatto altro che riciclare precedenti soluzioni inefficaci (operazioni militari, cooperazione regionale per la sicurezza, programma di smobilitazione, disarmo e reintegrazione).
Di conseguenza, la politica di pacificazione dell’est del Paese gira a vuoto.
L’approccio adottato dal nuovo Presidente congolese consiste nel rilanciare la cooperazione in materia di sicurezza con i Paesi limitrofi, soprattutto con l’Uganda e il Ruanda, proporre un programma di smobilitazione, disarmo e reintegrazione (DDR) per i gruppi armati e instaurare la legge marziale nelle due province più colpite dalle violenze: il Nord Kivu e l’Ituri.Tuttavia, sia nel Nord Kivu che nell’Ituri, queste disposizioni non hanno permesso di porre fine alle violenze dei gruppi armati locali e regionali.
Nonostante il “nuovo approccio” adottato dall’attuale Presidente Tshisekedi, bisogna riconoscere che, nell’est del Paese, non è successo nulla di nuovo. Questo fallimento può essere spiegato dall’approccio “militare” a un problema politico di governance. Inoltre, anche i partner internazionali hanno adottato un approccio sbagliato, proponendo soluzioni tecniche al problema politico della governance.
Questa nota si propone di comprendere la persistenza del conflitto nelle province orientali, collocando la politica attuale nel suo contesto storico e dimostrando come il “nuovo approccio” sia del tutto simile a quelli precedenti.
La mancanza di progressi nella pacificazione dell’est della RDC deriva sia dalla ripetizione di false soluzioni da parte delle autorità congolesi, sia dallo scoraggiamento silenzioso ma profondo della comunità internazionale. La congiunzione di un insieme di provvedimenti già falliti nel passato con un crescente disinteresse internazionale impedisce di mettere in discussione un’economia di guerriglia che avvantaggia una minoranza di persone e danneggia la maggioranza della popolazione. Di conseguenza, il processo di pacificazione dell’est della RDC si trova in un vicolo cieco, eppure nessuno sembra pronto né a cambiare approccio, né a fare il suo proprio mea culpa.
2. PERPETUAZIONE DELL’INSICUREZZA
Se a Kinshasa le maggioranze politiche cambiano, l’insicurezza nell’est della RDC persiste. Infatti, il passaggio del potere da Kabila a Tshisekedi non ha cambiato la situazione d’insicurezza nelle province del Nord Kivu, Sud Kivu e Ituri. Il numero dei gruppi armati è passato da 30 nel 2008 a 122 nel 2022. In Ituri è riesploso il conflitto tra Hema e Lendu. L’esercito è ancora la seconda fonte di violazioni dei diritti umani dopo i gruppi armati. Sia l’esercito che i gruppi armati continuano ad essere ampiamente implicati in un sistema di economia illecita (sfruttamento illegale di minerali). Inoltre, negli ultimi anni, i sequestri di persone sono diventati la forma predominante dell’insicurezza e colpiscono tutti gli strati sociali, compresi i più poveri.
a. Una violenza persistente e localizzata
Il Nord e il Sud Kivu hanno circa 14 milioni di abitanti con una superficie complessiva che è 4 volte quella del Belgio. Le violenze non riguardano dunque l’insieme di queste province, ma si concentrano in alcuni territori. Il Nord Kivu è in cima alla lista delle violenze: nel 2021, su 2.357 incidenti registrati nelle 3 province orientali della RDC, 1.127 sono stati localizzati nel Nord Kivu.
Nel Nord Kivu, le due grandi zone di conflitto sono il Grande Nord e il Piccolo Nord.
Nel Grande Nord (territori di Beni e di Lubero), le ADF continuano a seminare terrore. Secondo la Missione dell’ONU in Congo (MONUSCO), nel 2020 le ADF hanno ucciso 850 persone, principalmente nei territori di Beni (Nord Kivu) e di Irumu e Mambasa (Ituri). L’offensiva condotta dall’esercito congolese da ottobre 2019 a ottobre 2020 contro le ADF le ha costrette a dividersi in gruppi più piccoli ma più numerosi, ha interrotto varie loro vie di approvvigionamento e le ha indebolite, senza tuttavia incidere in modo significativo sulla loro capacità di nuocere. Infatti, tra novembre 2020 e aprile 2021 (sei mesi), nei territori di Beni e Lubero (Nord Kivu), 73 attacchi con 359 vittime sono stati attribuiti alle ADF.
Il Piccolo Nord (territori di Walikale, Masisi, Nyragongo e Rutshuru) è contrassegnato da un’economia di saccheggio da parte dell’esercito congolese e da scontri tra gruppi armati a base etnica. Da ottobre 2020, i soldati del 3.404° reggimento hanno collaborato con la fazione Bwira di Nduma Difesa del Congo – Rinnovato (NDC-R Bwira) e ha combattuto contro la fazione Guidon di Nduma Difesa del Congo – Rinnovato (NDC-R Guidon) per il controllo della miniera di Matungu. In novembre 2020, l’NDC-R Guidon si è alleato con i Mayi-Mayi Mandaima, l’Alleanza dei Patrioti per un Congo Libero e Sovrano (APCLS) e i Nyatura Abazungu, per combattere contro i gruppi armati alleati dell’esercito, tra cui l’NDC- R Bwira, le Forze Patriottiche Popolari/Esercito Popolare (FPP/AP), il Collettivo dei Movimenti per il Cambiamento (CMC) e le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR).
b. La ripresa della guerra etnica nell’Ituri
Dopo un decennio di relativa calma dal 2007 al 2017, nella provincia dell’Ituri è riesploso lo storico conflitto intercomunitario tra Hema e Lendu. Il conflitto Hema/Lendu è ripreso nel 2017, esattamente dove era iniziato nel 1999: il territorio di Djugu. Da allora si è diffuso nel territorio di Irumu. Da cinque anni, questo conflitto, un insieme di attacchi ai villaggi e di conseguenti rappresaglie, sta causando numerose vittime nonostante gli interventi dell’esercito e i negoziati avviati nell’estate del 2020. Il conflitto contrappone tra loro una coalizione di gruppi armati Lendu, la Cooperativa per lo Sviluppo del Congo (CODECO), e una milizia Hema (Zaire). A queste si aggiungono la milizia Bira (Forza Patriottica e Integrazionista del Congo / FPIC ) e la Forza di Resistenza Patriottica dell’Ituri (FRPI), una milizia della comunità Ngiti (i Lendu del territorio di Irumu, nel sud della provincia).
c. Dall’insurrezione patriottica alla criminalizzazione della conflittualità
Se alla fine degli anni 1990 la rivolta dei gruppi armati Mayi-Mayi era portata avanti in nome della lotta contro un invasore (l’esercito ruandese), in seguito la conflittualità si è notevolmente evoluta. Dopo aver assunto una dimensione etnica attorno a questioni di accesso al potere e alle terre, la conflittualità si è trasformata in criminalità attraverso la pratica dei sequestri di persone.
Mentre altrove questa forma di criminalità organizzata di solito prende di mira l’élite, cioè le persone con redditi alti, nelle province orientali della RDC essa prende di mira tutti gli strati della popolazione. Nel Nord Kivu e nel Sud Kivu, il sequestro di persone è diventato un crimine generalizzato. Se i sequestri non risparmiano nessuno, i bambini e i dipendenti delle organizzazioni internazionali (organizzazioni non governative, agenzie delle Nazioni Unite, società private) sono le prime vittime. Il business dei sequestri rivela la dimensione criminale dei gruppi armati e delle forze di sicurezza, come pure la loro collusione e complicità. In effetti, la generalizzazione di questo reato evidenzia la criminalizzazione dei militari e la loro cooperazione con le diverse bande di sequestratori. Come indicato da molte fonti, i sequestri sulla strada Goma – Rutshuru sono opera di un cartello composto di militari, gruppi armati (in particolare le FDLR) e banditi. Implicati in questo tipo di cooperazione, i militari dimostrano di aver invertito la loro missione: invece di combattere contro i gruppi armati, collaborano con loro, innestandosi sulle loro attività criminali.
3. LA POLITICA DI PACIFICAZIONE IN UN VICOLO CIECO
Dopo un mini-tour nelle province orientali nel 2019, il presidente Tshisekedi ha adottato un suo approccio per la pacificazione di questa regione. Questo suo approccio si basa sulla cooperazione con i paesi limitrofi e sulla politica della carota e del bastone (programmi di disarmo e di inserimento sociale / operazioni militari) nei confronti dei gruppi armati. Questa politica ha varcato una soglia senza precedenti con l’instaurazione, il 3 maggio 2021, della legge marziale nelle province di Ituri e Nord Kivu che, di conseguenza sono passate sotto controllo militare. Ma a parte questa innovazione, il “nuovo” approccio del presidente Tshisekedi sembra un riciclaggio di vecchi approcci che si sono rivelati inefficaci. L’apertura, in aprile 2022. a Nairobi (Kenia) di un nuovo round di negoziati con i gruppi armati, senza giungere ad alcuna conclusione, dimostra chiaramente l’impasse della politica adottata per la pacificazione dell’est della RDC.
a. La vana tentazione dell’opzione militare
Come il governo di Kabila che aveva lanciato diverse campagne militari contro i gruppi armati (Umoja Wetu e Kimia II nel 2009, Amani Leo nel 2010/12 e Sukola I e II nel 2014/15), il governo di Tshisekedi ha intrapreso nuove “grandi operazioni militari” a partire dal 2019. In particolare, l’8 agosto 2021, l’esercito congolese ha iniziato un’operazione militare contro le ADF con l’appoggio della MONUSCO. In novembre 2021, l’esercito congolese ha avviato nuove operazioni anti-ADF congiuntamente con l’esercito ugandese (UPDF), operazioni che sono tuttora in corso. Queste ultime operazioni militari congiunte hanno certamente contribuito a distruggere varie roccaforti delle ADF nel Nord Kivu, ma hanno permesso alle ADF di cercare rifugio nella vicina provincia dell’Ituri. Nonostante gli annunci vittoriosi delle FARDC, la situazione non è affatto migliorata. Secondo l’Ufficio dell’ONU per i diritti umani, nel 2021 le ADF hanno ucciso 1.259 persone e le violazioni dei diritti umani da parte delle ADF sono aumentate del 52% rispetto al 2020.
Nel corso delle operazioni condotte nel 2021 contro i gruppi armati nei territori di Masisi, Walikale e Rutshuru (Nord Kivu), le violazioni dei diritti umani sono notevolmente aumentate. Il gruppo armato Nyatura ha commesso ben 956 violazioni dei diritti umani, tra cui 130 esecuzioni extragiudiziali. Durante le stesse operazioni, l’esercito congolese si è reso responsabile di 136 violazioni dei diritti umani. Sempre nel 202i, nel Sud Kivu, l’esercito congolese si è visto implicato in 182 violazioni dei diritti umani (il 30% del totale), con 139 vittime. Nello stesso anno, in Ituri, l’esercito è accusato di 219 incidenti che hanno causato 183 vittime.
Varie operazioni militari hanno avuto obiettivi più economici che strategici. Nell’Ituri, l’esercito ha approfittato delle operazioni contro la CODECO per prendere il controllo sulle miniere d’oro nei territori di Djugu, Irumu e Mambasa. Nel Nord Kivu, nel 2021 l’esercito e l’NDC-R Bwira hanno combattuto insieme contro l’NDC-R Guidon per il controllo della miniera di Matungu. Di fronte a questa deriva mineraria da parte dell’esercito, il 12 febbraio 2022, il governo ha dovuto istituire una commissione per la smilitarizzazione dei siti minerari.
b. Il cammino della cooperazione regionale in materia di sicurezza
A differenza dell’anteriore presidente Joseph Kabila, che non aveva buoni rapporti con i Paesi limitrofi, soprattutto con il Ruanda, l’attuale presidente Felix Tshisekedi ha deciso di migliorare le relazioni di cooperazione economica e militare con i paesi vicini, tra cui il Ruanda e l’Uganda.
Nel settore economico, sono stati firmati degli accordi relativi a dei progetti di integrazione regionale (costruzione di strade [con l’Uganda], facilitazione dei flussi economici transfrontalieri [con il Ruanda], ecc.)
Nel settore militare, sono state effettuate delle operazioni congiunte a partire dalla fine del 2021.
Dopo una serie di attacchi perpetrati in Uganda in ottobre e novembre 2021 rivendicati dal movimento jihadista, i governi congolese e ugandese hanno deciso di rilanciare un’altra operazione congiunta contro le ADF. Dopo autorizzazione ufficiale da parte del governo congolese, il 30 novembre 2021, l’esercito ugandese ha iniziato a bombardare varie basi ADF situate nell’est della RDC e ad arrestare alcuni combattenti di questo movimento.
Se la cooperazione militare congolo – ugandese contro le ADF è stata apertamente ufficializzata, la cooperazione militare congolo – ruandese, inizialmente incoraggiata dal presidente Tshisekedi, è attualmente quasi inesistente poiché, nel 2019, la rivelazione della pianificazione di operazioni militari congiunte con il Ruanda aveva suscitato una grande insoddisfazione tra la popolazione del Nord Kivu e del Sud Kivu, dov’è ancor vivo il ricordo delle violenze commesse dall’esercito ruandese dal 1996 fino ad ora. Da allora, benché questa possibilità di cooperazione militare sia riapparsa varie volte, nessuna operazione militare congiunta tra i due paesi è mai stata formalizzata dai due governi rispettivi. Un accordo di cooperazione tra le polizie ruandese e congolese firmato a Goma in dicembre 2021 fu immediatamente contestato da tutta la classe politica e dalla società civile congolese.
Anche la cooperazione regionale in materia di sicurezza e l’ammissione della RDC nella Comunità dell’Africa dell’Est (EAC) all’inizio del 2022 sono delle ripetizioni di decisioni già prese nel passato. Già ai tempi del presidente Joseph Kabila ci furono delle operazioni militari congiunte con l’Uganda contro le ADF e con il Ruanda contro le FDLR. Anche la crisi del CNDP si era conclusa con un accordo segreto congolo – ruandese, che aveva condotto all’arresto del capo del CNDP da parte del Ruanda come contropartita di operazioni anti – FDLR condotte dall’esercito ruandese nel Nord Kivu. D’altra parte, la rapida adesione della RDC all’EAC ricorda l’appoggio della SADC alla RDC nel 1998. In quel tempo, l’allora presidente Laurent-Désiré Kabila cercò nuovi alleati, per controbilanciare la tutela dei suoi alleati ruandesi e ugandesi. Dopo aver fatto ricorso ai Paesi dell’Africa meridionale, le autorità congolesi si stanno ora rivolgendo ai Paesi dell’Africa orientale per tentare di trovare una soluzione al problema dell’insicurezza del loro Paese.
c. L’inefficacia dei programmi di Disarmo e Reinserimento (DDR)
La strategia del bastone e della carota adottata nei confronti dei gruppi armati ha condotto a dei negoziati incentrati su un’offerta di Disarmo e Reinserimento (DDR). Tuttavia, nessun programma DDR si è mai concretizzato, a causa della mancanza di fondi e delle pessime condizioni di vita che gli ex combattenti hanno dovuto affrontare. Per incitare i combattenti dei gruppi armati a deporre le armi, il 4 luglio 2021, il presidente Tshisekedi ha lanciato un nuovo Programma per il Disarmo, la Smobilitazione e il Reinserimento Comunitario e Sociale (P-DDRCS). Tuttavia, benché questo P-DDRCS sia il 4° programma di DDR a partire dal 2003, non sembra che si sia tenuto conto dei fallimenti dei precedenti DDR, nonostante siano vari i rapporti che hanno evidenziato i seguenti problemi che hanno reso inefficaci i precedenti programmi di DDR:
– mancanza di un accompagnamento politico nell’attuazione del programma;
– complessità e opacità burocratiche nella gestione del programma;
– mancanza di creazione di posti di lavoro per il reinserimento sociale degli ex combattenti;
– integrazione degli ex combattenti in forze di sicurezza disfunzionali;
– malversazione indebita dei fondi destinati all’attuazione del programma;
– divisioni nella leadership dei gruppi armati;
– contraddizioni tra DDR e riforma del settore della sicurezza.
Le iniziative di DDR hanno spesso ripetuto gli errori precedenti.
Nella RDC, i DDR assomigliano spesso a dei contratti tra furbetti. Da un lato, i capi dei gruppi armati si impegnano, in maniera ufficiale, a disarmare le loro truppe in vista di un inserimento sociale o di un’integrazione nell’esercito regolare ma, sotto banco, negoziano un accordo che permetta loro di riservarsi, nascostamente, una parte delle loro truppe e armi o di mantenere il controllo sulle loro truppe integrate nell’esercito. D’altra parte, il governo si impegna ufficialmente a integrare i signori della guerra e i loro miliziani nei servizi di sicurezza e/o a assicurare il loro reinserimento nella vita civile ma, in realtà, se ne serve solo per gonfiare gli effettivi dell’esercito e appropriarsi illegalmente di una parte del contributo finanziario dei donatori internazionali.
In tal modo, i DDR hanno originato un circolo vizioso di disarmo e riarmo dei gruppi armati e di un continuo andirivieni dei combattenti tra la vita civile, l’esercito e le milizie.
Questa strumentalizzazione dei DDR da parte del governo e dei gruppi armati ha finito per scoraggiare i finanziatori internazionali, molti dei quali avrebbero optato per limitare o, addirittura, sospendere il loro apporto finanziario, necessario per l’attuazione del programma di disarmo e reinserimento sociale degli ex membri dei vari gruppi armati.
4. PERCHÉ NELL’EST DEL PAESE NON C’È NULLA DI NUOVO?
Se non tutti i conflitti dell’est congolese hanno delle cause economiche, la loro perpetuazione da tre decenni suppone però una particolare economia politica. Quest’ultima ha la capacità di finanziare il sistema di conflitto e genera una kleptocrazia che ha trasformato l’insicurezza in una rendita economica. Ciò spiega l’autofinanziamento e la durabilità della conflittualità, i cui indici più palese sono la stabilità della classe kleptocratica sorta dalla guerra e delle rotte del commercio illegale. Questa stabilità è all’origine dei fallimenti delle iniziative internazionali di pacificazione e dell’attuale scoraggiamento dei “costruttori di pace”.
a. L’economia politica della conflittualità
Nell’ambito dell’economia mineraria congolese, le tre province orientali sono caratterizzate da un sistema di depredazione mediante la violenza. La kleptocrazia estrattiva congolese si basa su un’economia di depredazione. L’uso della violenza per il controllo delle risorse naturali è stato introdotto nella storia del Congo già dai tempi dello Stato Indipendente del Congo (violenza coloniale legata alla raccolta di gomma e avorio).
Ma il motivo per cui l’estrazione delle risorse naturali mediante la violenza riguarda solo poche province. e non la grande zona mineraria del paese (il sud dell’ex Katanga), riguarda la storia e la geografia (risorse minerarie che, nel Kivu, possono essere facilmente depredate perché si trovavano in superficie; messa in sicurezza delle miniere katanghesi a difesa degli interessi industriali stranieri; comparsa della violenza genocida nella storia dei Grandi Laghi, ecc.).
Già nel 2002, un rapporto delle Nazioni Unite aveva attirato l’attenzione sulle cause economiche dei conflitti nell’est della RDC, cioè lo sfruttamento militarizzato delle risorse naturali (diamanti, oro, coltan, rame, cobalto, legname, fauna e flora) da parte di “reti d’élite” regionali che implicavano il Ruanda, l’Uganda e lo Zimbabwe.
La conflittualità nell’est della RDC deriva anche dall’influenza della conflittualità in corso nei Paesi limitrofi. In effetti, l’est della RDC è storicamente una zona di rifugio per gli oppositori dei regimi limitrofi (le ADF dell’Uganda, le FDLR del Ruanda e i vari gruppi armati del Burundi). Questa conflittualità importata è resiliente, perché questi gruppi armati si sono innestati nell’economia predatoria nell’est della RDC e agiscono come gli altri attori di questo sistema di conflitti.
Dato che il monopolio della depredazione da parte del governo centrale era crollato con la caduta del mobulismo nella seconda metà degli anni 1990, le risorse estrattive dell’est congolese furono accaparrate in maniera anarchica dagli eserciti occupanti e dai signori della guerra congolesi locali. Il ritiro degli eserciti ugandese e ruandese non ha messo fine al loro controllo su queste risorse, poiché hanno continuato a trarne vantaggio attraverso altri intermediari armati, Nello stesso tempo, di ritorno in queste province, l’esercito congolese ha cercato di prendersi la sua parte di risorse naturali. Nel corso degli anni, si è raggiunto un riequilibrio nella ripartizione di queste risorse tra quelli che le controllano. Apparsa tra la fine degli anni 1990 e l’inizio degli anni 2000, questa economia di guerra e saccheggio si è progressivamente fossilizzata. I regimi limitrofi hanno potuto mantenere, nell’est della RDC, le loro reti di subappalto dello sfruttamento delle risorse naturali, tanto più facilmente in quanto sono il punto di passaggio necessario per la loro esportazione.
Inoltre, il regime congolese partecipa a questo sfruttamento violento delle risorse del Paese, grazie ai suoi servizi di sicurezza che hanno progressivamente ripreso il controllo su alcune zone e flussi commerciali. Dal 2000 ad oggi, l’est della RDC è gradualmente passato da un’economia di guerra contesa tra diversi eserciti stranieri a un’economia di guerriglia contesa tra gruppi armati ed esercito regolare. In larga misura, il comportamento e le tecniche di estorsione dei gruppi armati non fanno che imitare semplicemente le pratiche delle forze di sicurezza (ad esempio, la famigerata pratica dell’estorsione ai “posti di blocco” eretti sulle strade come posti di pedaggio, al fine di riscuotere illegalmente tasse illecite su persone e merci).
Questa economia di guerriglia si regge su una sua élite, ha un proprio modello di business ed è entrata a far parte del circolo dell’economia mondiale globale. Molti dei membri dell’attuale élite del Kivu sono emersi dopo la seconda guerra del Congo (1998-2002), grazie ai profitti ottenuti nell’ambito dell’economia di guerra dell’epoca e ancora oggi la loro strategia rimane quella dell’accumulo. Abituata alle pratiche dell’economia di guerra, questa élite l’ha trasformata oggi in un’economia di saccheggio, utilizzando gruppi armati e forze di sicurezza per i loro interessi. Il “modello di business” di questa élite è: estrazione delle risorse mediante la violenza e loro commercializzazione mediante il contrabbando e la frode fiscale.
Questo modello di business caratterizza anche le elite dirigenti dei paesi vicini (Ruanda, Uganda e Burundi), come evidenziato dal rapporto Kassem che sottolinea il concetto di reti elitarie transnazionali. Uomini d’affari, commercianti, militari, politici, funzionari pubblici e ministri, questi “Big Men”, che fanno parte dell’élite provinciale e nazionale, hanno creato delle reti predatorie transnazionali e sono diventati gli “imprenditori” della violenza. Svolgendo il ruolo di dirigenti, essi acquisiscono e mantengono la loro autorità attraverso complesse relazioni di reciprocità asimmetrica con un insieme di clienti, che sono contemporaneamente legati a una pluralità di altre reti basate, ad esempio, su rapporti di parentela, legami professionali, situazioni geografiche, forme di solidarietà, ecc.
All’interno delle reti dei Big Men, il potere si basa principalmente sulla distribuzione di benefici o su promesse di un accesso a opportunità generatrici di reddito. Conosciuti localmente come “milionari del caos” o “pompieri piromani”, questi Big Men strumentalizzano i conflitti locali a loro favore e in una logica di profitto, li amplificano e spesso ne perdono il controllo. Essi si trovano all’intersezione degli interessi dei paesi vicini e dei circoli dominanti di Kinshasa e sono quindi la base di questa economia violenta che si è perfettamente adattata alla mondializzazione.
In effetti, le principali risorse naturali sfruttate durante la guerra nell’est della RDC erano i “minerali di conflitto” (oro, coltan, cassiterite e wolframite). Le due province del Kivu hanno vissuto una vera e propria corsa al coltan all’inizio degli anni 2000, seguita successivamente dalla febbre dell’oro. L’evoluzione dei prezzi mondiali di questi minerali ha permesso di finanziare i belligeranti (il prezzo del coltan era passato da 10 $ nel 2000 a 380 $ al kg nel 2001 e quello dell’oro ha registrato una tendenza al rialzo a partire dal 2008). I minerali facilmente sfruttabili in modo artigianale hanno quindi costituito la base economica dei gruppi armati e un’importante fonte di reddito per i regimi dei Paesi limitrofi.
Da allora, gli esperti delle Nazioni Unite e varie ONG hanno documentato la diversificazione delle risorse economiche dei gruppi armati e dell’esercito regolare, che non sono più solo i minerali, ma anche il carbone, la canapa, il cacao, ecc. Questa economia di guerriglia crea sistema: crea un perfetto circolo vizioso tra povertà e conflitto. Da un lato, attraverso la violenza distruttrice e il racket organizzato, i gruppi armati contribuiscono all’impoverimento della popolazione e al disgregamento delle comunità, creando così un bacino di giovani rurali impoveriti e intrappolati in logiche di sopravvivenza; dall’altro, grazie alla loro tassazione di tutti i tipi di prodotti e al loro basso costo di funzionamento, i gruppi armati sono diventati delle “imprese” che si autofinanziano.
I profitti di questa economia sono in parte reinvestiti nella creazione di nuovi gruppi armati, Così si spiega la loro continua proliferazione. In tal modo, la capacità di autofinanziamento della conflittualità la trasforma in una guerra senza fine e senza un vero obiettivo, se non il mantenimento delle rendite che ne traggono i suoi vari attori. A ciò si aggiunge una situazione cronica di povertà e di insicurezza che, combinata a una socializzazione della violenza e della depredazione, incoraggia la popolazione in generale e i giovani in particolare, a ricorrere alla violenza come modalità di sopravvivenza e di regolamento dei litigi (proliferazione della giustizia popolare, delle milizie rurali e delle gang urbane).
b. La stabilità dei giri d’affari e la geo-economia dei traffici
La continuità della conflittualità nelle province dell’est della RDC riflette la stabilità delle reti politico-imprenditoriali di questa regione. Mentre a Kinshasa il panorama politico è cambiato con l’arrivo di Felix Tshisekedi alla presidenza della Repubblica, nelle province orientali le élite di ciascuna provincia non sono cambiate. Qui di seguito, l’analisi biografica di alcuni Big Men rappresentativi che sono entrati in campo politico a livello nazionale o provinciale.
– Robert Seninga (Masisi / Nord Kivu):
Comandante dell’AFDL nel 1997 e dell’RCD nel 1998.
Consigliere del governatore del Nord Kivu Eugène Serufuli, durante la ribellione dell’RCD-Goma dal 2000 al 2007.
Deputato provinciale dal 2006.
Co-fondatore del gruppo armato Nyatura, creato nel 2009 durante la ribellione del CNDP.
Presidente della cooperativa mineraria Cooperama.
Presidente dell’Assemblea provinciale del Nord Kivu dal 2019, come membro della coalizione di Joseph Kabila (FCC).
– Antipas Mbusa Nyamwisi (Beni, Butembo / Nord Kivu):
Presidente dell’RCD-Kml, un movimento ribelle risultante dalla scissione dell’RCD dopo lo scontro tra Ruanda e Uganda nel 1999.
Ministro della cooperazione durante la transizione dal 2003 al 2006.
Ministro degli Affari Esteri dal 2006 al 2007.
Ministro del Decentramento e dell’Assetto Territoriale nel 2008.
Esiliato nel 2012 dopo essere entrato in dissenso con Joseph Kabila.
Rieletto deputato nazionale per Butembo nel 2018.
Rieletto presidente dell’RCD-Kml nel 2021.
– Justin Bitakwira (Uvira/Sud Kivu):
Dirigente dell’AFDL nel 1997 e creatore delle Forze di autodifesa popolare nel 1999.
Deputato eletto nel 2006 e rieletto nel 2011 per conto dell’UNC.
Presidente fondatore del partito ARCN.
Ministro per i Rapporti con il Parlamento.
Ministro dello sviluppo rurale nel 2017.
Deputato.
Queste tre personalità sono degli archetipi di cui si è recentemente parlato.
Nel 2019 e nel 2020, in vari siti minerari, i membri della cooperativa di minatori artigianali Cooperama hanno aggredito degli agenti della polizia mineraria, per provocare la partenza di compagnie concorrenti. Durante questi tafferugli, tra i membri di Cooperama sono state identificate diverse personalità politiche del Nord Kivu, tra cui Robert Seninga, ex presidente di Cooperama e attualmente presidente dell’Assemblea provinciale del Nord Kivu.
Nel mese di novembre 2020, il presidente della Repubblica, Felix Tshisekedi, ha inviato una delegazione sugli altopiani del Sud Kivu, per sensibilizzare i gruppi armati sulla pace. Quella delegazione era guidata da Justin Bitakwira, ex ministro dello sviluppo rurale.
Antipas Mbusa Nyamwisi è un signore della guerra del Nord Kivu. Durante la seconda guerra del Congo, si è arricchito grazie all’abolizione dei dazi doganali tra Beni, sua base politica, e l’Uganda e al conseguente arrivo di compagnie petrolifere. Da allora ha sempre mantenuto legami poco trasparenti con i gruppi armati presenti nella sua roccaforte.
La sua ascesa nella politica nazionale è iniziata durante la transizione (2003-2006) e si è conclusa nel 2012, quando la sua opposizione al presidente Kabila lo ha costretto a intraprendere la strada dell’esilio e a perdere il seggio di deputato nazionale. Rientrato dall’esilio, egli ha approfittato del clima di apertura politica creatosi in seguito alle elezioni del 2018, per tentare di essere rieletto e di riconquistare la sua influenza passata, offrendosi come consigliere nella lotta contro le ADF.
Queste tre personalità pubbliche hanno la caratteristica di aver iniziato la loro carriera nelle violenze belliche degli anni 1990 e di essere entrati in politica, pur conservando il controllo sul loro territorio e sulle sue risorse, proprio grazie ai loro legami con dei gruppi armati.
Comandante hutu che ha preso le armi durante la mini-guerra del Masisi nel 1993, Robert Seninga è l’archetipo del ribelle convertitosi alla politica e al mondo degli affari. Ha fatto parte dell’RCD e, successivamente, dell’RCD-Goma quando questa ribellione governava il Nord Kivu. Ha cambiato alleanza quando il governo centrale ha ripreso il controllo sul Nord Kivu. In molti rapporti, è stato citato in molti casi di traffici illegali di minerali estratti nel Masisi. Come presidente di Cooperama, è implicato in un vecchio conflitto con la società mineraria Bisunzu a Rubaya, una cittadina mineraria del Masisi. Sono noti i suoi legami con gruppi armati mobilitati per promuovere i suoi interessi minerari.
Noto politico Bafulero del Sud Kivu, Justin Bitakwira ha saputo passare dall’opposizione alla maggioranza in modo opportunistico e mantiene stretti legami con vari gruppi armati Mayi-Mayi di etnia Bafulero, nella piana di Ruzizi (territorio di Uvira / Sud Kivu). Nel corso della sua carriera si è distinto per i suoi discorsi infuocati contro i Banyamulenge e per il suo appoggio ai gruppi armati. In gennaio 2020, ha creato il movimento “Simama Kivu” apertamente anti-Banyamulenge. La sua designazione da parte del presidente Tshisekedi come capo di una delegazione inviata presso la comunità Banyamulenge è stata fortemente criticata dal quest’ultima.
Justin Bitakwira non è l’unico politico del Sud Kivu ad avere stretti rapporti con i gruppi armati.
Da molto tempo, il deputato Jemsi Mulengwa ha legami durevoli con i Mayi-Mayi Yakutumba ed Emmanuel Ramazani Shadary con i Mayi-Mayi Malaïka.
Emmanuel Ramazani Shadary è un membro fondatore del PPRD, il partito di Joseph Kabila. È stato vicegovernatore e poi governatore della provincia del Maniema dal 1997 al 2006. È stato eletto deputato nazionale nel 2006 e nel 2011 ed è diventato Vice Primo Ministro e Ministro dell’Interno e della Sicurezza dal 2016 al 2018. Il 29 maggio 2017, l’Unione Europea lo ha inserito nella lista delle persone sanzionate, per essere stato ritenuto responsabile della repressione delle manifestazioni pro-democrazia organizzate tra il 2016 e il 2017. Candidato senza successo alle presidenziali del 2018, da allora è deputato del PPRD.
Gli ex ribelli che formano l’attuale classe politica si sono quindi riconvertiti alla politica solo parzialmente, in quanto conservano ancora stretti rapporti con le milizie locali per difendere e promuovere i propri interessi in un’economia di depredazione delle risorse naturali mediante il ricorso alle armi. Definiti “milionari del caos”, molti di loro sono ancora membri sia dell’Assemblea Nazionale che delle Assemblee provinciali dei deputati. Denigrati pubblicamente, Robert Seninga ha dovuto farsi loro portavoce dichiarando nel 2021: «Nei gruppi armati non ci sono deputati».
L’opportunismo dei politici dell’est della RDC spiega la loro capacità di riposizionamento, indipendentemente dalla loro convinzione politica o militare. Sia che abbiano iniziato la loro carriera nella ribellione, nell’opposizione o nella maggioranza, tutti hanno avuto stretti legami con il campo kabilista per continuare a fare affari.
L’arrivo al potere di Felix Tshisekedi non ha cambiato nulla nella “politica degli affari” e ha persino aumentato il fenomeno del “nomadismo” politico. Infatti, per affermare il suo potere e porre fine all’alleanza con il precedente presidente Joseph Kabila, il presidente Tshisekedi ha dovuto convincere molti deputati nazionali e provinciali a passare dalla sua parte.
Ma i Big Men dell’est della RDC non sono gli unici protagonisti dell’economia del conflitto a resistere alla prova del tempo. La continuità è una caratteristica anche dei loro partner commerciali ugandesi, ruandesi e burundesi (dovuta in gran parte alla stabilità della classe dirigente di questi regimi) e persino di molti investitori non africani. Tra gli intermediari internazionali dell’economia mineraria dell’est della RDC sono ancora attivi Klaus Eckhof e Alain Goetz, i cui primi contratti nella regione risalgono agli anni 1990.
Klaus Eckhof, geologo tedesco che, nel 2003, aveva fondato Moto Goldmines, società titolare di un permesso minerario nell’Ituri, e che ha avuto un ruolo importante nell’acquisizione della miniera di Bisie, nel Nord Kivu, da parte di Alphamin Resources, ha ripreso le sue attività nella regione con le società Okapi Risorse e AJN Risorse.
Alain Goetz, un uomo d’affari belga, aveva ottenuto il diritto di esportazione d’oro da Laurent-Désiré Kabila. La sua compagnia Congocom esportava oro dalla RDC verso il Belgio. Nel 2009 fu accusato dalle Nazioni Unite per traffico di minerali e condannato dalla giustizia belga per frode. Tuttavia, ha ripreso le sue attività commerciali a partire da Dubai, costruendo raffinerie d’oro in Uganda e in Ruanda, rifornite da giacimenti congolesi, ciò per cui è stato sottoposto a sanzioni da parte delle autorità americane.
La stabilità è una caratteristica anche dei signori della guerra.
William Amuri Yakutumba, dal 2007, è il capo del principale gruppo Mayi-Mayi del territorio di Uvira (Sud Kivu). I Mayi-Mayi Yakutumba e l’esercito regolare sono a volte alleati, altre volte avversari. I Mayi-Mayi Yakutumba controllano alcuni circuiti di traffico d’oro con il Burundi.
Creato nel 2014, l’NDC-R controlla vari siti minerari del territorio di Masisi.
In Ituri, l’FRPI e le varie fazioni della CODECO sono implicate nel traffico dell’oro. Il controllo delle miniere d’oro era già oggetto dei conflitti tra gruppi armati diversi già durante la guerra del 1999 – 2006.
Instaurando la legge marziale e conferendo il potere civile alle forze di sicurezza, il presidente Tshisekedi ha operato una finzione di cambiamento. Alla fine, non ha fatto che cedere ad ex ribelli divenuti generali dell’esercito il controllo dei siti minerari precedentemente sfruttati da generali prossimi al precedente regime. Infatti, il presidente Tshisekedi ha nominato un generale dell’RCD-Goma governatore dell’Ituri e un generale dell’RCD-Kml governatore del Nord Kivu. Si tratta di una riproduzione del patto di corruzione stipulato tra l’esercito e il presidente Joseph Kabila quando quest’ultimo era al potere.
Al di là degli attori della conflittualità, la stabilità si riscontra anche nella geografia dei traffici a livello regionale. L’Uganda, il Burundi e il Ruanda sono diventati i principali esportatori di coltan, tantalio e cassiterite durante e subito dopo le guerre del Congo e ora sono ormai dei fornitori d’oro che esportano in quantità maggiore di quanto possono produrre. Le rotte commerciali che collegano l’est della RDC ai mercati internazionali passano attraverso questi tre paesi. Esse esistevano già prima dei conflitti, ma hanno acquisito importanza grazie ad essi. Legname e minerali viaggiano su strada dalla RDC ai porti di Mombasa (Kenya) e Dar-es-Salam (Tanzania), passando per il Ruanda, il Burundi e l’Uganda. L’oro era esportato verso Dubai a partire dall’aeroporto di Nairobi (Kenia), prima che si aprissero dei collegamenti diretti tra Dubai, Istanbul e le capitali dei Paesi dei Grandi Laghi Africani.
c. L’inerzia della comunità internazionale
Il fallimento delle ultime iniziative internazionali nel tentare di risolvere il conflitto è un’altra delle cause della mancanza di progressi nella pacificazione dell’est della RDC. In effetti, i ripetuti fallimenti hanno naturalmente provocato lo scoraggiamento, l’inerzia e la passività degli attori internazionali implicati nella gestione del conflitto congolese. Se fino all’inizio degli anni 2000 la questione congolese era una priorità dell’agenda internazionale, ultimamente essa suscita scetticismo e disinteresse da parte di molti ambienti internazionali. Il ripetuto fallimento delle iniziative internazionali è apparso evidente almeno in due settori: da una parte, la gestione della crisi politica e della situazione di insicurezza e, dall’altra, l’attuazione dell’iniziativa normativa sui “minerali di conflitto”.
– La presenza / assenza delle Nazioni Unite
Dal 2006, a parte il periodo della ribellione del Movimento del 23 marzo (M23), durante il quale le Nazioni Unite hanno saputo dare una risposta proporzionata alla minaccia, le Nazioni Unite sono state sempre meno capaci di reagire alle crisi che stanno scuotendo la RDC. Dal 1999 al 2006, esse si sono implicate nelle trattative di risoluzione del conflitto congolese, ma si sono progressivamente impantanate, per poi cadere in una deplorevole inerzia dopo le elezioni truccate del 2011. Da attore politico di primo piano dal 1999 al 2011, le Nazioni Unite in Congo sono poi diventate semplici osservatrici della crisi.
Durante la crisi dell’M23 nel 2012 – 2013, il Consiglio di Sicurezza aveva autorizzato il dispiegamento, all’interno della MONUSCO, di una forza di intervento proattivo che, insieme all’esercito congolese, ha condotto con successo delle offensive contro il Movimento del 23 marzo (M23), appoggiato dal Ruanda e dall’Uganda, poi contro le Forze Democratiche Alleate (ADF9, di origine ugandese. Dopo queste operazioni militari, le Nazioni Unite in Congo hanno collaborato per il successo di un accordo di base per la pace, la sicurezza e la cooperazione (PSC) a livello della Regione dei Grandi Laghi Africani. Replica della Conferenza Internazionale per la Regione dei Grandi Laghi (CIRGL), questo accordo non è riuscito, purtroppo, a fornire risposte adeguate alle cause della crisi congolese e si è arenato.
Nella crisi politica del 2016 – 2018, in cui l’allora Presidente Joseph Kabila non organizzò le elezioni presidenziali e legislative previste per il 2016, le Nazioni Unite furono completamente assenti. A sbloccare la situazione intervenne la Conferenza Episcopale Nazionale del Congo (CENCO) che, il 31 dicembre 2016, riuscì a far firmare l’accordo di San Silvestro tra governo e opposizione. Nella risoluzione di questa grave crisi politica, la Chiesa cattolica svolse il primo ruolo, l’UA il secondo e le Nazioni Unite nessuno.
Dopo un decennio di stagnazione, la MONUSCO è ora una missione incapace non solo di intervenire contro i gruppi armati, ma anche di assicurare un minimo di protezione alle popolazioni civili che la contestano per passività e complicità con il nemico.
– Il fallimento delle leggi sulla regolamentazione del commercio dei minerali
Per porre fine al finanziamento dei gruppi armati attraverso il commercio illegale dei minerali, gli Stati Uniti (2010) e i paesi europei (2017) hanno adottato dei testi regolamentari sui “minerali dei conflitti”, come lo stagno, il tantalio, il coltan e l’oro.
Anche l’OCSE, con 38 Stati membri, ha adottato una guida sul dovere di diligenza da applicare alla catena di approvvigionamento dello stagno, del tantalum, del tungsteno e dell’oro provenienti da zone di conflitto o zone ad alto rischio di conflitto della Regione dei Grande Laghi Africani. L’OCSE ha inoltre collaborato con la Conferenza Internazionale della Regione dei Grandi Laghi (CIRGL) per creare un meccanismo regionale di tracciabilità e di certificazione dei minerali.
Più di dieci anni dopo, si deve riconoscere che questo intervento internazionale non ha raggiunto il suo obiettivo (mettere fine ai gruppi armati impedendone il finanziamento) perché è stato ostacolato o bypassato. Da un lato, in seguito agli sforzi fatti per regolamentare il settore della stagno, i gruppi armati si sono sempre più orientati verso il commercio illegale dell’oro, molto più facilmente oggetto di contrabbando.
Inoltre, essi hanno diversificato le loro fonti di finanziamento, come il legname, il carbone e il cacao, rimanendo i blocchi stradali la principale fonte di tassazione sulle risorse naturali da parte di attori armati statali e non statali. I tentativi di sanificazione del commercio dell’oro nella Regione dei Grandi Laghi si sono urtati con l’innalzamento dei prezzi mondiali di questo minerale che ha provocato una vera corsa all’oro, l’ingresso di società cinesi nel settore congolese dell’oro e enormi esportazioni verso Dubai che ha si è affermato come una delle maggiori piazze commerciali dell’oro.
I tentativi fatti per ridurre il traffico illegale dell’oro sembrano essere stai destinati al fallimento, come indicato degli esempi seguenti.
Società citate in alcuni rapporti investigativi sul commercio dell’oro:
Nonostante le leggi e le inchieste condotte dalle autorità ugandesi, nel 2013 le compagnie Westcorp Mining e Treasure Highland Cave, installate a Kampala, hanno intrattenuto un commercio illegale dell’oro estratto nel Sud Sudan e nella RDC. In Ruanda, le società minerarie Cimiex e Union Mines sono state sospettate di importare dell’oro illegalmente dalla RDC. Nel 2015, la società Argor-Heraeus è stata assolta dalla giustizia svizzera dopo essere stata indagata su un presunto traffico illegale d’oro tra la RDC e la Svizzera via l’Uganda, una decisione giudiziaria criticata da molte ONG. Dal 2017, l’Uganda si è dotato di raffinerie d’oro, tra cui la “Raffineria d’Oro Africana”. Questa società è stata infine messa sotto sanzioni dalle autorità americane il 17 marzo 2022.
D’altra parte, il sistema di tracciabilità e di certificazione dei minerali ha dimostrato di essere complesso, lento e costoso. Nel 2019, solo 122 siti minerari artigianali, su un totale di 2.673, erano stati ispezionati dalle equipe di validazione dei siti minerari, perché queste ultime non riescono a effettuare le ispezioni su una base semestrale, come previsto dalla legge congolese, a causa delle difficoltà finanziarie e materiali incontrate nell’applicazione del sistema di tracciabilità e di certificazione. Inoltre, dato che la certificazione dei minerali è effettuata da amministrazioni nazionali spesso corrotte, la sua credibilità è discutibile.
La certificazione provoca manovre di lobbying e la constatazione di diversi casi di frode ha indotto gli attori internazionali a finanziare dei meccanismi di monitoraggio del sistema di tracciabilità e di certificazione con la collaborazione delle organizzazioni della società civile. L’efficacia della regolamentazione normativa del commercio dei minerali sarà sempre limitata, fintanto che le amministrazioni locali responsabili della sua attuazione non siano state esse stesse sanificate e riformate. Inoltre, questa regolamentazione normativa sui minerali ha provocato un significativo disimpegno o boicottaggio, da parte delle società minerarie internazionali, delle aree minerarie colpite da conflitti, con una conseguente perdita di reddito da parte dello Stato congolese e delle comunità locali.
Infine, in un contesto di forte domanda mondiale d’oro, se il commercio di questo minerale e di altre risorse naturali della Regione dei Grandi Laghi Africani rimane in gran parte non regolamentato, ne consegue che lo sfruttamento illegale, predatorio e violento dei minerali dell’est della RDC è condannato a continuare.
5. CONCLUSIONE
La mancanza di progressi nella pacificazione dell’est della RDC è la conseguenza di uno sviluppo economico retto dalla violenza.
Un’ampia coalizione di interessi locali, nazionali, regionali e persino internazionali emersi dalla guerra del Congo è riuscita a cristallizzare e a sostenere le proprie fonti di reddito attraverso un’economia di guerriglia predatoria. Questa coalizione è stata resa possibile grazie a un patto di corruzione tra gli attori di questa economia, in cui i Big Men giocano un ruolo fondamentale. L’impunità che regna nella Regione dei Grandi Laghi Africani in generale, e nella RDC in particolare, impedisce qualsiasi messa in discussione di questo patto di corruzione e delle élite in esso implicate. Di conseguenza, gli opachi rapporti tra uomini d’affari, politici, militari e miliziani non sono mai realmente sanzionati e il panorama politico-economico dell’est della RDC è rimasto sostanzialmente immutato.
Di fronte a questo nesso di interessi predatori, i governi congolesi ricorrono sempre allo stesso logoro repertorio di false soluzioni. In particolare, essi privilegiano la soluzione militare per risolvere quella che è solo una conseguenza di una problematica modalità di governo della RDC.
L’impunità è stata la regola stabilita per ottenere la pace nella Regione dei Grandi Laghi (“la pace prima della giustizia”). Le riforme politiche, economiche e militari avviate durante il primo mandato di Joseph Kabila sono state rapidamente interrotte e mai rimesse sul tavolo.
Da parte loro, i partner internazionali della RDC hanno sempre proposto soluzioni tecniche a un problema che è essenzialmente politico riguardante la modalità di governare il Paese e la qualità delle persone adibite a tale compito. Il fallimento dell’intervento internazionale nella regolamentazione del commercio dei minerali ne è un esempio.
A forza di accumulare fallimenti e di spendere miliardi invano, gli attori internazionali hanno finito per sprofondare in una silenziosa rassegnazione e negli ambienti internazionali inizia a prevalere un certo clima di “Congo stanchezza”. La pacificazione dell’est della RDC richiede una riforma della governante, sia nella RDC che nell’intera Regione dei Grandi Laghi Africani.
[1] https://www.ifri.org/fr/publications/etudes-de-lifri/republique-democratique-congo-lest-rien-de-nouveau