Nicoletta Fagiolo, 12 ottobre 2022[1]
La guerra nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo è di gran lunga la peggior crisi del mondo per numero di persone uccise e sfollate, peggiore della Siria, dello Yemen, dell’Etiopia, dell’Ucraina o di altre regioni gravemente dilaniate dalla guerra in questo 21° secolo, eppure questa crisi raramente fa notizia.
La recente ondata di violenza estrema iniziata alla fine del 2014 a Beni, nel Nord Kivu, una regione ricca di petrolio e minerali nella parte orientale del Paese al confine con l’Uganda, è iniziata nel 1996, uccidendo quasi un milione di rifugiati Hutu e più di 10 milioni di Congolesi durante gli ultimi 26 anni.
L’ONG International Rescue Committee (IRC) ha condotto quattro indagini sulla mortalità nella RDC tra il 1998 e il 2004. Secondo l’IRC dall’inizio della seconda guerra del Congo nell’agosto 1998 fino alla fine di aprile 2004, circa 3,8 milioni di persone sono morte, vittime dirette o indirette del conflitto armato. Il rapporto Mapping delle Nazioni Unite pubblicato nel 2010 parla di oltre 5 milioni di morti solo nel periodo marzo 1993-2003. Cifre che hanno spinto Noam Chomsky e Andre Vltchek a qualificare la crisi nella Repubblica Democratica del Congo come un supergenocidio. Dall’inizio di quest’anno, più di un milione di persone sono state sfollate all’interno della Repubblica Democratica del Congo, su un totale di 5,53 milioni di persone già sfollate. La violenza armata è la causa principale di questi spostamenti.
Per capire cosa sta succedendo a Beni, intervistiamo lo storico e giornalista, laureato in giurisprudenza all’Università di Lione, Boniface Musavuli, che smaschera molti falsi miti su questa guerra. Attualmente, gli omicidi di Beni sono attribuiti a una storica ribellione ugandese, le Forze democratiche alleate (ADF) con presunti collegamenti jihadisti, una tesi che, secondo Musavuli, serve a coprire gli schemi di violenza sul terreno e i principali autori di questi crimini. Attingendo a un’ampia gamma di fonti locali e internazionali, Musavuli giunge alla tragica conclusione che a Beni è attualmente in corso un genocidio, che prende di mira principalmente il gruppo etnico Nande, ma anche altri gruppi etnici, per appropriarsi delle loro terre e delle loro risorse naturali.
Nicoletta Fagiolo:
Il suo libro «Les massacres de Beni: Kabila, le Rwanda et les faux islamistes» pubblicato nel luglio 2017, con una versione inglese pubblicata nel 2018, fornisce cifre precise sul numero di morti tra civili e di rapiti durante l’escalation del conflitto nella regione dal 2014 al 2017. Quali erano le sue fonti all’epoca e quali pensa siano i dati più attendibili sui civili uccisi o rapiti dal 2017 ad oggi?
Boniface Musavuli:
Il numero di morti attribuito alle ADF (Allied Democratic Forces) che ho pubblicato nel mio libro proviene da stime della società civile. La società civile a Beni e nel Nord-Kivu dispone di reti ben sviluppate in tutto il territorio. Secondo i rappresentanti della società civile di Beni nella regione, almeno 3.575 civili sono stati uccisi e 3.877 civili rapiti dall’ottobre 2014 al 2017. Tuttavia, è difficile ottenere il numero esatto delle vittime. I dati più attendibili sono quelli dei due rapporti Yotama, basati sui nomi dei due parlamentari, il deputato nazionale e il deputato provinciale di Butembo Katembo Mbusa Tembos Yotama e Mbenze Yotama che hanno svolto rigorose indagini sul campo e raccolto le identità delle vittime dalle loro famiglie e dai loro familiari. Nel primo rapporto Yotama, l’elenco delle vittime copre il periodo dal 12 gennaio 2008 al 23 settembre 2021 e parla di 7.404 civili assassinati. Nel secondo rapporto Yotama, l’elenco delle vittime va dal 1° giugno 2020 al 30 aprile 2021 e durante questi 10 mesi il numero dei morti assassinati è di 2.757. Il vantaggio di questi due rapporti Yotama è che forniscono dettagli sull’identità delle vittime, le date degli attacchi, i luoghi e l’etnia. Sottolineo che oltre il 95% degli uccisi appartiene a un’unica etnia, i Nande, e quindi si tratta di un genocidio di cui ho già parlato nelle mie pubblicazioni.
Nicoletta Fagiolo:
Alcuni ricercatori e think tank occidentali – penso a Jason K. Stearns, direttore del Congo Research Group e del Kivu Security Tracker, della Bridgeway Foundation; International Crisis Group; Human Rights Watch; Tara Candland, Ryan O’Farrell e Caleb Weiss del Georgetown University Extremism Program o Paul Nantulya dell’Africa Center for Strategic Studies – parlano delle ADF (Allied Democratic Forces) come di un gruppo ribelle la cui identità «rimane un mistero», ma tutti fanno il collegamento tra l’ADF, storicamente una ribellione ugandese, e lo Stato Islamico, informazione ampiamente diffusa dai principali media. Inoltre, il 10 marzo 2021, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha designato come affiliata dello Stato Islamico nella Repubblica Democratica del Congo (ISIS-RDC o Stato Islamico della provincia dell’Africa Centrale, ISCAP) una fazione dell’ADF guidata di Musa Baluku come organizzazione terroristica appartenente all’impresa mondiale dello Stato Islamico. La stampa internazionale e congolese ha attribuito ai combattenti dello Stato Islamico anche l’assalto del 10 agosto 2022 alla prigione centrale di Kakwangura a Butembo, operazione che avrebbe fatto evadere 800 persone detenuti. Altri ricercatori però, e in particolare la popolazione locale che ha potuto testimoniare nei processi che si sono tenuti per le uccisioni delle ADF, che lei ha documentato nel suo libro, raccontano una storia diversa Quali prove concrete ha trovato che dimostrino che le ADF non sono dei jihadisti?
Boniface Musavuli:
Quello che sta accadendo dietro il «fenomeno ADF» a Beni dall’ottobre 2014 non ha nulla a che fare con alcuna ribellione ugandese o con l’Islam. I movimenti islamisti sono organizzazioni radicali che sostengono il primato delle leggi religiose e una conversione forzata della società a uno stile di vita coerente con la loro comprensione dell’Islam. I movimenti islamisti prosperano in paesi con un’alta concentrazione di masse popolari musulmane frustrate e in conflitto con le autorità. A Beni i musulmani sono poco visibili, solo il 2% circa della popolazione, e non hanno mai avanzato richieste politiche alle autorità. Non c’è un solo imam radicale conosciuto in Congo, e durante i massacri anche i musulmani vengono uccisi dagli aggressori.
Un esempio: nel settembre 2018 a Beni, musulmani che tornavano dalla preghiera serale, benché vestiti con le loro tuniche bianche sono stati uccisi con altri abitanti del quartiere, e non era la prima volta. A Beni gli assassini non fanno alcuna distinzione di religione, età o sesso.
Sempre sul piano islamico, dei testimoni hanno più volte visto gli assassini bere alcolici e catturare dei maiali dei contadini per mangiarli, anche in pieno Ramadan. «Islamisti», cioè musulmani radicalizzati, che bevono alcolici e mangiano maiali in pieno Ramadan?… Parlare di «islamisti» nel caso degli assassini di Beni è quindi fuori luogo.
Per quanto riguarda il concetto di «ribellione», si tratta di un movimento politico-militare dei cittadini di un Paese che combattono contro il governo del loro Paese. A livello militare, la strategia delle ribellioni in Africa prevede che le forze combattenti operino dal territorio di un Paese confinante che funge da base di retroguardia e da zona di ripiego strategico. A Beni, le «presunte ADF» non possono essere considerate «ribelli» perché non stanno compiendo alcun attacco contro il loro presunto Paese, l’Uganda. Attaccano le popolazioni congolesi, il che è totalmente in contraddizione con la filosofia di una ribellione classica. Ovviamente non hanno una base di ripiego in Uganda, un paese contro il quale dovrebbero essere in guerra. Hanno le loro basi di ripiego e i loro rifornimenti all’interno del territorio della RDC e ottengono armi e munizioni dalle scorte delle FARDC, l’esercito governativo congolese. Parlare di «ribelli» è quindi fuori luogo nel caso degli assassini di Beni.
Il resoconto ufficiale ritrae gli assassini come «ribelli ugandesi» mentre le vittime e i testimoni li descrivono come «uomini in uniformi delle FARDC che parlano kinyarwanda», la lingua del Ruanda, o in kiswahili e in lingala con un accento ruandese. Non c’è villaggio a Beni i cui nativi parlino kinyarwanda o lingala. Le uniche persone che di solito parlano kinyarwanda e lingala a Beni sono i soldati ruandesi che sono stati immessi nelle FARDC mediante i meccanismi di brassage, mescolanza e irreggimentazione, così come i loro compagni in uniforme originari delle province occidentali della RDC. La popolazione di Beni parla kinande e kiswahili con un accento facilmente identificabile. Per quanto riguarda le ADF originali, il movimento di Jamil Mukulu, si esprimevano in luganda, la lingua ugandese, o in kiswahili con accento ugandese. La nazionalità «ugandese» degli assassini di Beni non è stata quindi stabilita, il che è abbastanza curioso per degli aggressori che hanno compiuto attacchi mortali, a volte fino a tre volte alla settimana, dall’ottobre 2014.
Nicoletta Fagiolo:
Lo storico e professore Georges Nzongola-Ntalaja, rappresentante della RDC all’ONU, che ha scritto la prefazione al suo libro «Congo’s Beni masssacres», ha recentemente dichiarato alle Nazioni Unite che il Congo non può garantire la sicurezza del suo territorio nazionale e della sua popolazione perché il suo l’esercito è infiltrato da soldati ruandesi. Ha accusato la comunità internazionale di aver imposto processi di pace in Congo per l’integrazione dei soldati ruandesi, con i rispettivi gradi, nell’Esercito nazionale congolese (FARDC) che ha avuto l’effetto di paralizzare l’esercito congolese. Nzongola-Ntalaja ha citato i nomi di ufficiali ruandesi: James Kabarebe, Dan Munyuza, Bosco Ntaganda e Sultani Makenga, che furono imposti come ufficiali nell’esercito congolese essendo in realtà soldati ruandesi, membri dell’esercito di Paul Kagame sin dalla guerra in Ruanda, iniziata nel 1990. Lei ha scritto che questa è la prima volta che un diplomatico congolese accusa apertamente le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) di essere un esercito infiltrato dal Ruanda di Paul Kagame. Il problema dell’«esercito nell’esercito», creato dai processi di pace a partire dal 2003, ha permesso al Ruanda di integrare nell’esercito nazionale congolese dei soldati che poi disertano e creano la ribellione (RCD-Goma, CNDP, M23). Qual è l’effettiva importanza del fenomeno «un esercito nell’esercito» nella destabilizzazione della RDC?
Boniface Musavuli:
È proprio questo fenomeno di «un esercito nell’esercito» citato dal professor Georges Nzongola-Ntalaja che spiega l’asse portante della tragedia delle popolazioni di Beni mimetizzato nel terrorismo islamista. Non c’è terrorismo islamista a Beni.
Quello che sta accadendo a Beni è un genocidio. Questo genocidio è orchestrato dall’interno stesso dell’esercito e dei poteri di Kigali e Kinshasa con l’obiettivo di imporre una popolazione straniera sulle terre delle popolazioni autoctone, che devono essere prima sterminate nelle zone ambite. Questo processo si è svolto in due fasi. Nel 2009, in virtù dell’accordo del 23 marzo 2009 firmato dal potere di Joseph Kabila e dalla milizia ruandese del CNDP, il Ruanda aveva scaricato migliaia di suoi soldati nell’est del Congo dove Kinshasa aveva ceduto loro quasi tutte le linee del fronte, dal nord Katanga all’Ituri, passando per il Sud-Kivu e il Nord-Kivu. Per quattro anni, gli ufficiali dell’intelligence ruandese, mescolati nelle FARDC, si sono presi il tempo di esplorare ogni angolo delle campagne in questa parte del Congo, di identificare i piccoli conflitti locali e di preparare piani per colpire i punti di fragilità quando sarebbe arrivato il momento. La seconda fase ha avuto luogo dal dicembre 2013 dopo la disfatta dell’M23 i cui elementi cercavano di insediare le popolazioni ruandesi espulse dalla Tanzania nel territorio di Rutshuru.
I combattenti dell’M23 e queste popolazioni si sono ritrovati in Ruanda e Uganda da dove hanno cominciato a tornare in massa in Congo sotto la trita identità di “Banyabwisha” o “Hutu di Masisi”. Aiutati dagli ufficiali ruandesi mescolati nelle FARDC, in applicazione dell’accordo del 23 marzo 2009, queste masse di Ruandesi, compresi dei criminali che il Ruanda scarcerava, si sono riversate nelle campagne di Beni e in Ituri dove i loro compatrioti, degli ufficiali ruandesi delle FARDC, avevano già individuato spazi favorevoli per la loro installazione.
Il seguito, lo sappiamo. Non appena sono stati in numero sufficiente nelle FARDC e nelle campagne di Beni-Ituri, hanno lanciato attacchi contro gli autoctoni con la sigla «ADF» e li hanno scacciati dalle loro terre. Da allora, a Beni, quasi ogni giorno intere famiglie vengono sterminate a colpi di machete, mentre diverse decine di villaggi sono stati svuotati dei loro nativi.
Nicoletta Fagiolo:
In una recente conferenza a Bruxelles, un esperto regionale ha parlato di 2.500 soldati stranieri, principalmente dei Ruandesi, integrati nell’esercito nazionale. Secondo lei, come superare questo problema, una volta riconosciuto ufficialmente il problema, cosa che ad oggi non sembra essere il caso?
Boniface Musavuli:
Le FARDC sono un esercito compromesso dalle politiche di brassage e mescolanza che consentono a un Paese come il Rwanda di scaricare migliaia di suoi soldati all’interno dell’esercito congolese, portandolo alla paralisi. È un esercito che non ispira fiducia a nessuno, nemmeno al presidente Tshisekedi che, almeno due volte, ha espresso pubblicamente la sua sfiducia in questo esercito. Una delle soluzioni che egli sembra privilegiare è quella di far venire eserciti stranieri in Congo. L’esercito ugandese si è insediato nei territori di Beni e Ituri dal novembre 2021. L’esercito keniota sta prendendo posizione nel sud della provincia del Nord-Kivu intorno a Goma. L’esercito burundese è stato invitato da Tshisekedi a prendere posizione nella provincia del Sud-Kivu. Ma a lungo andare questa presenza degli eserciti dei Paesi della regione, oltre alla MONUSCO, finirà per porre più problemi di quanti ne abbia risolti. L’approccio responsabile è che i leader congolesi lavorino per riformare l’esercito nazionale creando gradualmente nuove unità e liberandosi degli elementi venuti dalle catastrofiche politiche di brassage e mescolanza.
La partenza della MONUSCO è inoltre richiesta dalla popolazione, che non sopporta più la presenza di questa missione Onu che assiste impotente al proliferare dei gruppi armati e a dei massacri, talvolta a soli pochi metri dalle sue basi, peraltro molto attrezzate.
Nicoletta Fagiolo:
Secondo lei, la scelta dello stato d’assedio istituito dal presidente Tshisekedi per la regione nel maggio 2021 per cercare di fermare i massacri ha cambiato qualcosa in bene o in male per la popolazione? Cosa significa lo stato d’assedio per la vita quotidiana degli abitanti della regione?
Boniface Musavuli:
Lo stato d’assedio è stato dichiarato nel maggio 2021 dal presidente Tshisekedi, ufficialmente per sradicare i gruppi armati. Ma più di un anno dopo, i gruppi armati sono ancora attivi e il numero di civili uccisi è più alto durante lo stato d’assedio che prima dell’instaurazione dello stato d’assedio.
Nicoletta Fagiolo:
Dei politici eletti del Nord-Kivu e dell’Ituri chiedono la revoca dello stato d’assedio perché il rapporto Yotama del marzo 2022, che analizza il numero di morti 11 mesi prima e 11 mesi dopo lo stato d’assedio, rileva che le uccisioni sono aumentate fino al 46%. Dalle conclusioni delle indagini del rapporto risulta che durante gli 11 mesi successivi all’instaurazione dello stato d’assedio, 4.516 persone sono state barbaramente massacrate dalle presunte ADF in 453 entità nella regione di Beni nel Nord-Kivu e in Ituri precisamente nei territori di Mambase e Irumu e che negli 11 mesi precedenti lo stato d’assedio sono state massacrate 3.098 persone; vediamo qui che per questo periodo dello stato d’assedio il numero delle vittime è aumentato in valore assoluto di 1.418 vittime, cioè semplicemente del 45,77%. Ad esempio, secondo i rapporti Yotama per il 2021, il bilancio medio mensile delle vittime è di 256 civili assassinati a Beni e Irumu, e per il 2022, dopo l’istituzione dello stato d’assedio, il bilancio medio mensile delle vittime è di 400 persone uccise al mese, sempre solo a Beni e Ituri. Quale pensa sia la spiegazione di questo aumento significativo?
Boniface Musavuli:
Diverse ragioni spiegano questo contrasto. Una di queste è che, affidando i pieni poteri all’esercito, lo stato d’assedio è stato un’occasione per i militari di approfittare della gestione degli affari civili per arricchirsi riscuotendo tributi già esistenti, creandone altri e facendo traffici di tutti i tipi, in totale impunità. Hanno trascurato le operazioni militari, il che ha consentito ai gruppi armati di effettuare attacchi senza essere disturbati. L’esercito ha eretto decine di posti di blocco sulle strade, non per fermare la criminalità, ma per taglieggiare la popolazione a ogni passaggio. Ora che i militari hanno accesso al denaro facile, si sono allontanati dalle operazioni rischiose contro i gruppi armati. Lo stato d’assedio è un fiasco.
Nicoletta Fagiolo:
Si parla di oltre 120 gruppi armati nel Congo orientale, ma questa complessità sembra oscurare piuttosto che illuminare l’equilibrio delle forze sul campo. Non dovremmo prima distinguere tra gruppi di autodifesa nati per proteggere la popolazione dall’invasione di milizie straniere, da gruppi legati al banditismo e milizie straniere? Nel Nord Kivu e nella regione dell’Ituri, quali gruppi armati sono attualmente presenti nell’area?
Boniface Musavuli:
I principali gruppi armati attualmente presenti nel Nord Kivu e Ituri sono a prima vista le ADF (Beni-Irumu), le FDLR (Rutshuru), gli NDC (Walikale, Rutshuru, Lubero), la CODECO (Ituri). Ma dietro queste sigle si nascondono realtà complesse. Questi gruppi armati sono divisi in diverse fazioni che si scontrano, alcune con l’appoggio delle FARDC e altre con una moltitudine di altri appoggi, anche stranieri. Difficile quindi definire con precisione il fenomeno dei gruppi armati senza prendere in considerazione la questione delle rivalità interne e della complicità con le autorità civili e militari del Paese.
L’M23 è un caso speciale. Non è un gruppo armato in senso stretto, ma un esercito di occupazione, l’esercito ruandese (RDF) che si nasconde dietro la sigla «M23» ogni volta che si schiera sul suolo congolese. Il Ruanda, sotto la copertura dell’M23, ha rilanciato la guerra contro il Congo nel novembre 2021 e ha conquistato la città di confine di Bunagana nel giugno 2022. Bunagana è ancora sotto l’occupazione militare ruandese.
Nicoletta Fagiolo:
Alla luce delle statistiche delle vittime, i Nande, etnia che rappresenta il 60% della popolazione della regione, costituiscono il 95% delle persone assassinate negli ultimi anni secondo il rapporto Yotama. Perché i Nande? Può darci un’idea di ciò che questo genocidio sta causando sul terreno?
Boniface Musavuli:
I Nande hanno sempre rappresentato un ostacolo all’espansionismo ruandese nel Congo orientale. Dal 1996, ogni volta che il Ruanda ha l’opportunità di commettere massacri nel Congo orientale, le popolazioni più prese di mira sono i Nande. Il potere di Kinshasa, che ha funzionato a lungo come un ramo del potere del Ruanda, non fa quasi nulla per porre fine a questo genocidio. Peggio ancora, lo aggrava inviando a Beni ufficiali affaristi o vicini al regime ruandese. Non c’è quindi, ad oggi, alcuna speranza di vedere la fine del genocidio di Beni.
Le stime attuali sono di circa 10.000 morti dal 2014. Per come stanno andando le cose, si va verso i 20.000 morti poiché non è stata presa nessuna misura seria né dal governo, né dalla MONUSCO, per identificare con precisione e arrestare i pianificatori di queste stragi. Seka Baluku, presentato come il leader delle ADF, non è ancora ufficialmente ricercato dal governo congolese (nessun mandato d’arresto o avviso di ricerca nei suoi confronti). La crisi è inoltre aggravata dall’afflusso degli sfollati. Secondo l’OCHA (Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari, è un dipartimento del Segretariato delle Nazioni Unite) nel giugno 2022 il territorio di Beni contava 166.000 sfollati.
Nicoletta Fagiolo:
Quali fonti ritiene siano le più attendibili se si vuol leggere e capire cosa sta succedendo nel Congo orientale dal 1996?
Boniface Musavuli:
Di fronte a una crisi in cui le fonti ufficiali sono screditate, consiglio sempre di diversificare le fonti di informazione, di incrociarle e di formarsi un’opinione. Ma il mondo capirà meglio cosa sta succedendo in Congo se i Congolesi riusciranno a istituire un Tribunale penale internazionale che si occupi dei crimini commessi in questo Paese da più di due decenni. Questa è la lotta condotta dal dottor Denis Mukwege, premio Nobel per la pace 2018.
[1] originale francese: https://www.africageopolitics.com/post/le-g%C3%A9nocide-nande-dans-l-est-de-la-r%C3%A9publique-d%C3%A9mocratique-du-congo-rdc