Congo Attualità 398

INDICE

1. “BALCANIZZAZIONE”, TENSIONI REGIONALI O DEBOLEZZA DELLO STATO: LE VERE MINACCE ALLA STABILITÀ DEI KIVU
2. IL DIBATTITO POLITICO SUL RISCHIO DELLA BALCANIZZAZIONE
3. DOPO 20 GIORNI DI RELATIVA CALMA, LA RIPRESA DEI MASSACRI COMMESSI DALLE ADF A BENI (NORD KIVU)

1. “BALCANIZZAZIONE”, TENSIONI REGIONALI O DEBOLEZZA DELLO STATO: LE VERE MINACCE ALLA STABILITÀ DEI KIVU

Kivu Security Tracker – 29 janvier 2020[1]

La scena è avvenuta a Baraka, nel Sud Kivu, il 17 gennaio. Nell’ambito di una manifestazione nazionale indetta dall’opposizione contro la “balcanizzazione” del paese, un giovane attivista di Lamuka, piattaforma dell’opposizione, arringa la folla. Ha dato ai Banyamulenge, una minoranza congolese di origine ruandese, 48 ore di tempo per lasciare il Paese, ha dato l’ordine di cacciare con la forza quelli che sarebbero rimasti e ha proferito minacce contro tutti quelli che li avrebbero aiutati o ospitati.
Nella Repubblica Democratica del Congo, il termine “balcanizzazione” indica il timore che vi sia un complotto orchestrato dagli Stati limitrofi, in collaborazione con certe comunità presenti sul territorio congolese, per annettersi i ricchi territori dell’Est del Paese. Secondo questa teoria, per preparare questa annessione, alcuni stati limitrofi favorirebbero l’entrata clandestina di loro cittadini nella Repubblica Democratica del Congo. Molto spesso, sono le comunità tutsi della regione, e in particolare quella ruandese, che sono designate come cospiratrici.
Questo tema, che ritorna spesso al centro del dibattito congolese, è stato rafforzato negli anni 1990 e 2000, con l’occupazione di ampie parti del territorio congolese da parte di ribellioni guidate, in parte, da membri delle comunità congolesi ruandofone e sostenute dall’Uganda (RCD / K-ML) e dal Ruanda (RCD-Goma).

Nelle ultime settimane, questo tema  è ritornato alla ribalta, soprattutto in seguito a una conferenza stampa del cardinale Fridolin Ambongo, la massima autorità cattolica del Paese, tenuta a Kinshasa dopo una sua visita a Beni. Egli ha affermato che i massacri commessi in quella zona sono stati “pianificati” e che il loro “obiettivo” è quello della “balcanizzazione del paese”, attraverso  la “sostituzione della popolazione locale sfollata con popolazioni ruandesi e ugandesi”. Egli ha quindi denunciato con fermezza il tentativo di facilitare una “emigrazione clandestina” verso l’Est della RDCongo, intrapreso da alcuni paesi limitrofi, tra cui Uganda, Ruanda e Burundi.
Nonostante la prudenza oratoria del prelato, che ha confermato la nazionalità congolese di alcune comunità ruandofone, tra cui i Banyamulenge, la diffusione della tesi da lui sostenuta potrebbe rafforzare la sfiducia nei confronti delle minoranze ruandofone. Infatti, durante il mese di gennaio, sui social network sono stati diffusi numerosi messaggi di odio, simili a quello di Baraka.
Questi pregiudizi sono stati alimentati anche dalle ambigue dichiarazioni di Vital Kamerhe, capo del gabinetto del Presidente della Repubblica, fatte in Ruanda il 4 gennaio, in occasione della festa di matrimonio di un figlio dell’ex ministro della Difesa ruandese James Kabarebe. In quel giorno, Vital Kamerhe ha affermato di aver offerto 30 mucche per “consolidare le relazioni” tra il Ruanda e il Kivu, come se questa provincia della RD Congo fosse un’entità separata dal resto del paese.
Martin Fayulu, membro dell’opposizione e candidato alle ultime elezioni presidenziali, che ha usa la retorica della balcanizzazione da diversi anni, ha approfittato di questa occasione per ribadire le sue posizioni, accusando pubblicamente l’attuale Presidente della Repubblica, Félix Tshisekedi, e il suo predecessore, Joseph Kabila, di mettere in atto questo progetto. Egli ha persino affermato che Félix Tshisekedi cercherebbe di portare a termine la “balcanizzazione” del Paese in combutta con il presidente ruandese Paul Kagame.

Questo tema, che offre una spiegazione semplificata a problemi complessi, riscontra in ogni caso un vero successo popolare. Gli intensi scontri, che negli ultimi mesi hanno colpito soprattutto tre zone dell’Est della RDCongo, hanno contribuito ad aumentarne la popolarità.
– Quelli del territorio di Beni, prima di tutto, citati da Mons. Ambongo nel suo intervento. Secondo l’ultimo rapporto del Kivu Security Tracker (KST), dall’inizio del mese di novembre 2019, la misteriosa ribellione islamista di origine ugandese, le Forze Democratiche Alleate (ADF), avrebbe ucciso circa duecentosessantacinque persone. Questi massacri, particolarmente brutali e difficilmente comprensibili, hanno di fatto costretto la popolazione locale alla fuga.
– Quelli degli altopiani di Fizi e Uvira, in secondo luogo. Alcuni gruppi armati delle comunità locali Banyindu, Babembe e Bafuliru stanno contestando la creazione del comune rurale di Minembwe, situato in una zona abitata principalmente da Banyamulenge. Vi si commettono violenze contro i civili e atti di furto di bestiame. Nello stesso tempo però, anche i gruppi armati dei Banyamulenge, con il pretesto di difendere la prpia comunità etnica, hanno commesso gravi violenze contro le popolazioni civili. Molti villaggi sono stati incendiati e la popolazione locale è stata costretta a fuggire. La defezione del colonnello dell’esercito congolese Michel Rukunda, alias Makanika, (un munyamulenge) avvenuta all’inizio di gennaio, ha contribuito a rafforzare il sospetto di un’eventuale nuova ribellione banyamulenge, in vista di una loro prossima espansione.
– Il terzo conflitto che alimenta un certo sospetto è quello intrapreso alla fine di novembre dall’esercito congolese, per neutralizzare la ribellione hutu di origine ruandese, il Consiglio Nazionale per il Rinnovamento e la Democrazia (CNRD), nel territorio di Kalehe (Sud Kivu). Come avvenuto nel caso del territorio di Rutshuru (Nord Kivu) nei mesi precedenti, molte fonti locali hanno segnalato la presenza di militari ruandesi in uniforme congolese. Essendo venuti in possesso di tali informazioni, gli abitanti di certi villaggi, tra cui Kigogo e Kasika, sono fuggiti per la paura di una nuova eventuale invasione di truppe straniere.

Ma in realtà, queste tre situazioni sembrano obbedire a logiche locali diverse e sembra difficile vedervi un piano concordato su scala regionale – internazionale.
– Nel territorio di Beni, le ADF vi sono arrivate quasi 25 anni fa e con l’obiettivo di combattere contro il potere ugandese. Secondo le ricerche effettuate dal Gruppo di Studi sul Congo (GEC), con il passare del tempo, esse hanno stretto profonde relazioni con le comunità locali e hanno ottenuto numerosi profitti dai loro conflitti. Questo gruppo potrebbe, in una certa misura, avere determinate ambizioni territoriali, ma sembra difficilmente immaginabile che, un giorno, possa ottenere il riconoscimento internazionale per la creazione di uno Stato indipendente o per un’annessione all’Uganda.
D’altra parte, nella sua conferenza stampa del 3 gennaio, l’arcivescovo di Kinshasa, Fridolin Ambongo, ha affermato che, “nelle zone abbandonate dalla popolazione locale a causa dei massacri, sono stati “riversati” degli immigrati ruandesi espulsi dalla Tanzania alcuni anni fa. Secondo alcune fonti, si tratta di un riferimento alle migrazioni di popolazioni hutu che, negli ultimi anni, hanno lasciato i territori congolesi di Masisi e Lubero per dirigersi verso la provincia di Ituri passando sul territorio di Beni. Tuttavia, rimane tuttora difficile valutare l’ampiezza e la causa di queste migrazioni. In ogni caso, esse non sembrano incidere che marginalmente sulle aree urbane del territorio di Beni, obiettivi principali dei recenti massacri.
– Sugli altipiani di Fizi e Uvira, in secondo luogo, i gruppi armati di banyamulenge sembrano indeboliti e divisi e difficilmente potrebbero avere i mezzi per attuare progetti in vista di una loro indipendenza. Il profilo del colonnello disertore Makanika non combacia con l’idea che i gruppi armati banyamulenge siano complici del Ruanda. Makanika, infatti, negli anni 2000, quando era ancora membro delle Forze Repubblicane Federaliste (FRF), un gruppo armato dei Banyamulenge, varie volte si era schierato contro Kigali e, ancora nel 2013, era stato descritto come “fermamente contrario al Ruanda”. Inoltre, numerosi membri della società civile dei Banyamulenge dichiarano di aver perso la fiducia nei confronti del Ruanda, quando affermano che i gruppi armati stranieri e le milizie Mai-Mai che li minacciano sono appoggiati da Kigali che, in tal modo, cercherebbe di punirli per essersi alleati a una ribellione ruandese dissidente: il Congresso Nazionale Ruandese (RNC).
Inoltre, nonostante le numerose voci, pochi ufficiali congolesi sembrano aver seguito Makanika. Egli ha certamente ottenuto l’adesione di alcuni ex militari ritornati dall’estero, come Gakunzi Masabo e Alexis Gasita, che l’hanno raggiunto nella sua roccaforte di Kajembwe. Ma la maggior parte dei leader militari dei Banyamulenge attivi nell’esercito congolese, come Masunzu, Venant Bisogo e Mustafa, continuano a restare lontano dal fronte, nella parte occidentale del paese. Anche l’ex capo ribelle Richard Tawimbi si trova a Kinshasa. E gli altri ufficiali Banyamulenge sono sorvegliati da vicino dai loro colleghi. Secondo fonti militari e della società civile locale, tre ufficiali banyamulenge sospettati di voler disertare – il tenente colonnello Joli Mufoko Rugwe, il maggiore Sébastien Mugemani e il vice tenente Aimable Rukuyana Nyamugume – sono in arresto da diversi mesi presso il Camp Saïo a Bukavu (Sud Kivu).
– Ultimo territorio in cui la realtà sul campo non corrisponde del tutto alla teoria della balcanizzazione del Paese è quello di Kalehe. Diverse fonti provenienti da autorità tradizionali, militari e diplomatiche congolesi hanno confermato, è vero, la presenza di militari appartenenti alle Forze di Difesa Ruandesi (RDF) nell’offensiva contro il Consiglio Nazionale Per il Rinnovamento e la Democrazia (CNRD). Le stime sul loro numero differiscono considerevolmente: si va da pochi ufficiali dei servizi ruandesi dell’intelligence a diversi battaglioni di militari ruandesi. Ma, secondo una fonte militare congolese, che afferma di essere stato presente durante l’arrivo di un battaglione ruandese, queste operazioni sono puntuali e persino accettate dal presidente Félix Tshisekedi. Esse sarebbero state mantenute segrete solo per paura di una reazione ostile da parte degli abitanti locali. Soprattutto, piuttosto che “scaricare” popolazioni ruandesi sul territorio congolese, queste operazioni hanno invece condotto al rimpatrio di circa 2.500 membri ruandesi del CNRD (combattenti e famiglie) dalla Repubblica Democratica del Congo verso il Ruanda.

La teoria della balcanizzazione non descrive oggettivamente i vari conflitti che colpiscono il Kivu. Contrariamente alla situazione degli anni 2000-2013, nessuna ribellione congolese ruandofona sembra attualmente essere appoggiata dal Ruanda. Ciò non significa, tuttavia, che l’attuale situazione sia rassicurante. Decine di migliaia di Congolesi dell’Est del Paese continuano a vivere in territori controllati da oltre un centinaio di gruppi armati e, di fatto, si trovano privati della protezione dello Stato. Più che un piano regionale – internazionale concertato tra Stati confinanti per smembrare la Repubblica Democratica del Congo, sono invece le tensioni esistenti tra questi stessi stati, combinate alla debolezza dello Stato congolese, che sembrano minacciare la stabilità delle due province del Kivu.
L’Uganda e il Burundi da un lato e il Ruanda dall’altro si accusano a vicenda di appoggiare i loro rispettivi gruppi dissidenti presenti nell’est del Congo e non esitano a combatterli, direttamente o indirettamente attraverso gruppi armati alleati.
Kigali ha in particolare accusato il Burundi e l’Uganda di appoggiare l’RNC che, tuttavia, è stato notevolmente indebolito, in condizioni misteriose, nel 2019: attualmente, esso non disporrebbe che di una cinquantina d’uomini nei pressi del villaggio di Miti.
Inoltre, negli ultimi mesi, il Burundi e il Ruanda sono stati oggetto di alcuni attacchi compiuti a partire dal territorio congolese: l’attacco di Kinigi, in Ruanda il 6 ottobre, attribuito da Kigali alla ribellione hutu ruandese del Raggruppamento per l’Unità e la Democrazia (RUD), presumibilmente sostenuta dall’Uganda; quello del 22 ottobre, a Musigati, in Burundi, rivendicato dal RED-Tabara, un gruppo ribelle burundese che opera nel Sud Kivu; quello del 16 novembre, a Mabayi, in Burundi, per il quale il presidente burundese ha accusato il Ruanda.
È certo che, nel Sud Kivu, sono presenti diverse ribellioni burundesi ostili al loro governo, come la RED-Tabara, la Frodebu e la FNL. Secondo una fonte militare congolese e un rapporto degli esperti dell’ONU, negli ultimi anni, la RED-Tabara burundese è stata sostenuta da Kigali. Inoltre, le Forze di Difesa Nazionale del Burundi (FDN) e le milizie Imbonerakure (prossime al governo di Gitega) effettuano regolarmente incursioni nella RD Congo. Secondo quanto riferito, alcuni membri delle autorità burundesi appoggiano diversi gruppi armati congolesi, come i Mai-Mai Mbulu, nella pianura del Ruzizi, probabilmente per prevenire l’eventualità di un attacco al loro territorio.
Se le elezioni presidenziali del Burundi, previste per maggio, dovessero provocare una protesta violenta paragonabile alla precedente, nel 2015, il Sud Kivu potrebbe diventare di nuovo un campo di battaglia. Ciò non significherebbe, tuttavia, che la “balcanizzazione” del paese sia in corso.

2. IL DIBATTITO POLITICO SUL RISCHIO DELLA BALCANIZZAZIONE

Il 17 gennaio, in un comizio organizzato presso lo stadio Unità di Goma (Nord Kivu), in occasione della commemorazione dell’assassinio di Emery Patrice Lumumba, il deputato nazionale Jean Baptiste Kasekwa, segretario esecutivo dell’ECIDE di Martin Fayulu, ha chiesto alla popolazione di  mobilitarsi contro la balcanizzazione della Repubblica Democratica del Congo (RDC).
Egli ha denunciato l’esistenza di un piano di occupazione delle terre abbandonate dagli abitanti che fuggono dalle atrocità perpetrate dalle Forze Democratiche Alleate (ADF) nel Territorio di Beni. Secondo lui, si tratta di una strategia che mira a popolare la zona con gente che, in futuro, potrebbe votare per un cosiddetto referendum di autodeterminazione: «Il primo passo è quello di far rientrare più di un milione di cosiddetti rifugiati che si trovano in Uganda e il secondo passo sarà quello di organizzare un referendum di autodeterminazione, grazie al quale queste persone avranno l’opportunità di votare per la balcanizzazione del Paese, come avvenuto in Sudan».[2]

Il 18 gennaio, il Vice Ministro per l’Istruzione Primaria, Secondaria e Tecnica (EPST), Didier Budimbu, si è espresso sul rischio di balcanizzazione della Repubblica Democratica del Congo, denunciato da diverse personalità, tra cui il Cardinale Fridolin Ambongo.
Secondo lui, «parlare ora di balcanizzazione del Paese è fuori posto. Per un certo tempo (1998 – 2003), il Congo era praticamente diviso in 4 … Era in quel periodo che la RDCongo avrebbe potuto essere balcanizzata. Non è successo allora. E non succederà ora, quando l’esercito sta riportando varie piccole vittorie nella lotta contro i gruppi armati, nazionali e stranieri, grazie al sacrificio dei nostri soldati pronti a morire per difendere il Paese».
Autorità morale del partito politico Altra Visione del Congo (AVC), Didier Budimbu ha affermato che quelli che oggi parlano di balcanizzazione lo fanno, in realtà, per ottenere l’organizzazione di un ennesimo dialogo politico che permetta loro di accedere a posti di responsabilità nel governo. Egli ha loro chiesto di attendere fino al 2023, quando ci saranno le prossime elezioni a livello nazionale: «Si parla di balcanizzazione, perché alcuni vogliono aprire nuove trattative per diventare ministri o PDG. Aspettino il 2023. Di dialogo se ne parlerà nel 2023 con le urne».[3]

Il 19 gennaio, in una nota, il presidente nazionale della Nuova Società Civile Congolese (NSCC), Jonas Tshombela, ha sottolineato che il progetto di balcanizzazione del paese non risale ad oggi: «le velleità di balcanizzazione della Repubblica Democratica del Congo non sono di oggi. Questo progetto è fallito ieri, fallisce oggi e fallirà domani. Il maresciallo Mobutu non cessava di proclamare che lo Zaire, attuale RDCongo, rimane uno e indivisibile». Inoltre, Jonas Tshombela ha fatto notare che, già dal primo giorno dell’indipendenza della RDC, «l’ex primo ministro Patrice Emery Lumumba aveva denunciato il piano di balcanizzazione della RDC e aveva puntato il dito contro il Belgio. Diversi anni dopo, molti altri hanno denunciato, in un modo o nell’altro, questo diabolico piano di balcanizzazione della RDC e accusato certi paesi limitrofi e le multinazionali, che approfittano delle debolezze dello stato congolese, soprattutto di quella che riguarda l’insufficienza della presenza dell’autorità dello Stato sul territorio».
Jonas Tshombela ha affermato che questa questione sembra diventare il cavallo di battaglia di alcuni attori politici congolesi. «Dov’erano durante tutto questo tempo? Stiamo assistendo ora a un recupero politico di questa questione?», si è egli chiesto aggiungendo: «La situazione estremamente preoccupante dell’insicurezza a Beni, a Butembo e nell’intero paese, richiede un’analisi neutrale e depoliticizzata». Jonas Tshombela segnala che si tratta di una questione nazionale che richiede un comportamento unificante e uno sforzo comunitario al di là degli interessi egoistici degli uni e degli altri: «Il superamento di se stessi è un imperativo per tutti».[4]

Il 20 gennaio, in un’intervista, il professor André Mbata, deputato eletto per il territorio di Dimbelenge (Kasaï Central), ha dichiarato che «il paese non è balcanizzato e non lo sarà mai, nemmeno all’1%», perché lo Stato si sta attualmente impegnando a riportare la pace nella maggior parte delle zone vittime dell’insicurezza provocata dai gruppi armati, nazionali e stranieri.
Pertanto egli ha manifestato un certo suo disaccordo con le dichiarazioni fatte dal cardinale Fridolin Ambongo e da alcuni leader della coalizione LAMUKA, tra cui Adolphe Muzito e Martin Fayulu, sulla balcanizzazione del paese.[5]

3. DOPO 20 GIORNI DI RELATIVA CALMA, LA RIPRESA DEI MASSACRI COMMESSI DALLE ADF A BENI (NORD KIVU)

Un ex miliziano delle Forze Democratiche Alleate (ADF), Kayigunza Elias, catturato nella foresta del territorio di Beni e interrogato dai giornalisti di Oicha, ha dichiarato che ogni ADF riceve 30.000 franchi congolesi (FC) a settimana, per uccidere: «Ogni ADF riceve 30.000 FC ogni settimana per uccidere gli abitanti del posto. Il denaro che riceviamo lo usiamo per acquistare merci nei mercati di Beni, Oicha e altrove. Vi andiamo in tenta civile, come gli altri cittadini. I nostri capi ci dicono che recupereremo le case e i campi abbandonati dai civili che fuggono. Il nostra campo base era Kididiwe e il mio capo era un ugandese di nome “Autista”. 400 di noi siamo stati arruolati a partire da Isale (Bashus), mentre lavoravamo nei campi. Siamo stati trasportati nella foresta di Beni con un elicottero. Là, si somministrano delle medicine (droghe), prima di compiere azioni contro i civili. Abbiamo ucciso a Eringeti, Mayimoya, Boikene, Mavivi e Oicha, dove io stesso ho ucciso una decina di persone». Le ADF sono un gruppo armato di origine ugandese, ma attivo sul territorio di Beni (Nord Kivu), nell’Est della Repubblica Democratica del Congo.[6]

In occasione della presentazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 21 gennaio, delle conclusioni di una valutazione indipendente condotta da esperti delle Nazioni Unite, il generale brasiliano Carlos Alberto Dos Santos Cruz ha affermato che, nei soli due mesi di novembre e di dicembre 2019, nel territorio di Beni (Nord Kivu), dei presunti combattenti delle ADF hanno ucciso più di 260 persone civili. Secondo l’ufficiale militare brasiliano «questi gruppi sono sì dei gruppi armati, ma anche una forma di criminalità organizzata. Essi controllano molte attività lucrative illegali e transnazionali con i paesi vicini. È quindi difficile agire contro di loro, perché non hanno né un programma politico, né una strategia militare, ma un comportamento criminale».[7]

Il 20 gennaio, fonti giudiziarie hanno annunciato che 181 persone accusate di aver compiuto atti di violenza a Beni, Butembo e Lubero saranno presto processate presso il tribunale militare operativo del Nord Kivu. Accusate dalla giustizia militare di terrorismo e di partecipazione a movimento insurrezionale e ad associazione criminale, queste persone sono detenute già da alcuni mesi presso la prigione centrale di Kangbayi a Beni. Tra queste persone ci sono 130 presunti membri o collaboratori delle Forze Democratiche Alleate (ADF), 25 miliziani Mayi-Mayi e 26 altre persone arrestate per l’attacco del 24 dicembre 2017 alla residenza dell’ex capo dello Stato Joseph Kabila situata a Musyenene.[8]

Il 21 gennaio, l’esercito ha respinto un attacco di presunti combattenti ADF contro due postazioni militari nei pressi di Mayimoya, circa 60 chilometri a nord della città di Beni, nel raggruppamento di Bambuba-Kisiki, sulla strada Oicha-Eringeti (Nord Kivu). Dopo aver attaccato la postazione di Kokola verso le 18:00, le ADF hanno attaccato una seconda postazione, quella di Tekelibo, verso le 19:00. In entrambi i casi sono stati respinte. La mattina seguente, verso le 9:30 del mattino, a Kayitavula, le ADF hanno teso un’imboscata ai militari inviati per rafforzare i loro compagni d’armi, ma sono state respinte una terza volta.[9]

Il 22 gennaio, almeno nove persone sono state uccise e altre 14 date per scomparse in un nuovo attacco attribuito a combattenti ADF, nella località di Mayimoya, situata sulla  strada nazionale n. 4, nel territorio di Beni (Nord Kivu). Secondo Patrick Musubao, presidente della società civile di Mayimoya, l’attacco è iniziato verso le 10:00 del mattino. Dopo aver saccheggiato alcune case, questi presunti miliziani ADF si sono poi dileguati nella foresta. La popolazione è fuggita, alcuni verso Eringeti e altri verso Oicha. È il primo attacco perpetrato da combattenti ADF a Beni dall’inizio del 2020, dopo 21 giorni di relativa calma.[10]

Il 22 gennaio, durante la notte, altri due civili, tra cui un uomo e un bambino di 5 anni, sono stati uccisi, tre case bruciate e numerosi animali domestici saccheggiati, in un nuovo attacco perpetrato dalle ADF nel distretto di Mabasele, a ovest della cittadina di Oicha. Sono ormai 11 le persone uccise a Beni in sole 24 ore.[11]

Il 24 gennaio, appoggiato dalla polizia e dalla Monusco, l’esercito ha respinto un nuovo attacco ADF a Oicha, capoluogo del territorio di Beni, situato a 30 chilometri a nord-est della città di Beni. Secondo fonti militari, durante i combattimenti è stato ucciso un militare e un altro è rimasto ferito.
Secondo le stesse fonti militari, è stato verso le 1:30 della notte che le ADF hanno attaccato simultanei due postazioni del terzo battaglione della 32a brigata di rapido intervento situate a Mabasele e a Kabandoke, ad ovest della cittadina di Oicha.[12]

Il 28 gennaio, nella tarda notte, trentasei persone sono state uccise e alcune donne violentate, in una serie di attacchi attribuiti ai miliziani delle ADF e perpetrati nei villaggi di Manzingi, Mebendu e Mayabalo, nel territorio di Beni (Nord Kivu). Secondo la società civile di Beni, che conferma questa cifra, la maggior parte delle 36 vittime si trovavano nelle loro case, quando gli aggressori hanno cominciato a passare di casa in casa,muniti di fucili e armi bianche. Questi nuovi massacri portano a 292 il numero delle persone civili uccise dalle ADF nella regione di Beni, a partire dal 30 ottobre 2019, data dell’inizio delle offensive intraprese dall’esercito contro questo gruppo armato.[13]

Il 29 gennaio, nelle prime ore del mattino, un civile e due militari sono stati uccisi dalle ADF a Eringeti, una località del territorio di Beni, situata più o meno 60 km a nord-est della città di Beni (Nord Kivu). Il presidente della società civile locale, Bravo Vukulu, ha dichiarato che la persona civile uccisa un pastore della chiesa anglicana di Eringeti. Inoltre, egli ha anche chiesto all’esercito di continuare e di intensificare le operazioni militari contro le ADF, in modo da non consentire loro di riorganizzarsi.[14]

Dopo questi ultimi massacri, la società civile locale ha dichiarato che non c’è da stupirsi che avvengano perché, in quelle zone in cui hanno luogo, non c’è alcuna operazione militare in corso.
Secondo il segretario alla società civile del territorio di Beni, Janvier Kasereka, «attualmente, numerosi massacri avvengono ad ovest di Oicha dove, stranamente, non ci sono operazioni militari in corso. Ciò che sta succedendo è che, fuggendo dalle operazioni militari effettuate a est, le ADF si spostano verso ovest e si riorganizzano. Riteniamo che le autorità militari debbano tenerne conto, in modo che le stesse operazioni organizzate a est siano organizzate anche a ovest. Aspettare di terminare le operazioni ad est per cominciarle anche ad ovest è dare al nemico la possibilità di riorganizzarsi».[15]

La società civile di Beni mette in dubbio la strategia dell’esercito. Sin dall’inizio della sua offensiva, fine ottobre, l’esercito congolese ha concentrato tutte le sue forze sul lato est della strada nazionale n. 4, che collega Beni all’Ituri, un po’ più a nord. La società civile assicura che la maggior parte dei miliziani ADF si sono ormai ritirati sul lato ovest di questa strada e che hanno usato le ultime settimane per riorganizzarsi, dopo le sconfitte subite nella zona est.[16]

Il 30 gennaio, in pieno giorno, almeno 33 persone civili sono state uccise in una serie di attacchi simultanei attribuiti alle ADF e perpetrati nelle località di Mantumbi, Mamove, Mulolya e Aveli, situate a ovest della città di Oicha, nel Territorio di Beni (Nord Kivu). Le vittime: 23 a Mantumbi, 6 a Mamove, 3 a Mulolya e 1 ad Aveli. Sono almeno 73 le persone che sono state uccise in sole 48 ore. La maggior parte dei massacri sono stati commessi a ovest della città di Oicha. In totale, secondo il conteggio di Kivu Security Tracker, a partire da novembre scorso, nella zona di Beni sono state uccise 312 persone.[17]

Il 31 gennaio, verso le 19:00, dei miliziani Mayi-Mayi hanno attaccato una postazione della polizia a Mamove, situata a circa 18 chilometri da Oicha, capoluogo del territorio di Beni. 7 civili uccisi, altri 7 feriti e vari furti costituiscono il bilancio provvisorio di questo attacco commesso dai Mai-Mai che hanno affermato di voler restaurare l’autorità dello Stato in questa località minacciata dalla presenza di miliziani ADF.[18]

Il 1° febbraio, durante la notte, almeno quattro civili, tra cui due donne e due uomini, sono stati uccisi da combattenti delle ADF, in un nuovo attacco alla località di Mamove. Si tratta del terzo attacco a questa località in una settimana. Questi vari attacchi hanno causato la morte di almeno 19 persone, di cui nove sarebbero state uccise nel corso dell’attacco operato dalla milizia Mayi-Mayi. La società civile del territorio di Beni chiede con insistenza che l’esercito avvii delle operazioni militari anche sul lato ovest di Beni.[19]

Il 1° febbraio, durante la notte, 15 persone sono state uccise nel villaggio di Matumbi, situato al limite tra le due province dell’Ituri e del Nord Kivu. Questo attacco è attribuito a combattenti ADF.[20]

Il 2 febbraio, durante la notte, almeno otto civili sono stati uccisi da combattenti ADF a Ndalia e a Vulese (Ituri), vicino a Eringeti (Nord Kivu). Il primo attacco ha avuto luogo a Ndalia alle 23:00. Cinque persone sono state uccise all’arma bianca. Altri 3, membri di una stessa famiglia, sono stati uccisi a Vulese. Si tratta di un soccorritore della Croce Rossa Nazionale, di sua moglie e di suo figlio. Ormai, i massacri si stanno estendendo oltre il territorio di Beni, colpendo anche la vicina provincia dell’Ituri.[21]

Il 3 febbraio, al termine di una sua assemblea generale straordinaria tenutasi a Oicha, la società civile di Beni ha riferito che, in questo territorio, sono almeno 32 i villaggi che sono stati attaccati in meno di due mesi, in particolare sull’asse stradale Mavivi- Kainama. Le vittime dei massacri sarebbero ormai salite a 353 morti, senza parlare delle donne violentate e sventrate e dei bambini decapitati all’arma bianca.[22]

Il 5 febbraio, l’amministratore del territorio di Mambasa (Ituri), Idriss Koma Kokodila, ha dichiarato che, da domenica 2 febbraio a martedì 4 febbraio, presunti ADF hanno ucciso 23 persone in sette diverse località del raggruppamento di Bangole, a 96 chilometri dalla città di Mambasa.
Attribuito a dei presunti miliziani ADF, questo nuovo massacro si è svolto nei villaggi di Mandumbi, Makilidou, Mbothole, Musuku-Sabwa, Masenze, Kambiasa e Sangolo (distretto Babila-Babombi). Da parte sua, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani “Convenzione per il Rispetto dei Diritti Umani” (CRDH) ha precisato che tredici corpi sono stati ritrovati la domenica 2 febbraio. Tra essi: sei a Makilidou e altri sette a Musuku-Sabwa e Mbotole. Altri dieci corpi sono stati ritrovati martedì 4 febbraio a Masenze e Kambiasa.[23]

[1] Cf testo completo: https://blog.kivusecurity.org/fr/balkanisation-tensions-regionales-ou-faiblesse-de-letat-les-vraies-menaces-sur-la-stabilite-des-kivus/
[2] Cf Yvonne Kapinga – Actualité.cd, 17.01.’20
[3] Cf Jephté Kitsita – 7sur7.cd, 18.01.’20
[4] Cf Alain Saveur Makoba – 7sur7.cd, 20.01.’20
[5] Cf Dostin Eugène Luange – 7sur7.cd, 21.01.’20
[6] Cf Bantou Kapanza Son – 7sur7.cd, 06.02.’20
[7] Cf Cas-info.ca, 23.01.’20
[8] Cf Radio Okapi, 20.01.’20
[9] Cf Christine Tshibuyi – Actualité.cd, 22.01.’20
[10] Cf Yassin Kombi – Actualité.cd, 22.01.’20; Christine Tshibuyi – Actualité.cd, 22.01.’20
[11] Cf Yassin Kombi – Actualité.cd, 23.01.’20; Bantou kapanza Son – 7sur7.cd, 23.01.’20
[12] Cf Radio Okapi, 24.01.’20
[13] Cf Radio Okapi, 30.01.’20
[14] Cf Radio Okapi, 29.01.’20
[15] Cf Yassin Kombi – Actualité.cd, 29.01.’20
[16] Cf RFI, 01.02.’20
[17] Cf Yassin Kombi – Actualité.cd, 30 e 31.01.’20
[18] Cf Bantou Kapanza Son – 7sur7.cd, 31.01.’20
[19] Cf Actualité.cd, 02.02.’20
[20] Cf Franck Asante – Actualité.cd, 03 e 05.02.’20
[21] Cf Yassin Kombi – Actualité.cd, 03.02.’20
[22] Cf Actualité.cd, 04.02.’20
[23] Cf Radio Okapi, 05.02.’20