Congo Attualità n. 314

INDICE

EDITORIALE: DIETRO LA SIGLA ADF (FORCES DÉMOCRATIQUES ALLIÉES) → INTERESSI E COMPLICITÀ ANCORA NASCOSTE

  1. LE FORZE DEMOCRATICHE ALLEATE (ADF)
    1. L’evoluzione delle ADF sul territorio congolese
    2. Il processo dei presunti ADF
    3. “Veri”, “falsi” e “presunti” ADF
    4. La minaccia jihadista nell’est della RDCongo è una pura invenzione
    5. Le tuniche musulmane contribuiscono a nascondere il volto ruandese dell’occupazione
  2. IL MOVIMENTO DEL 23 MARZO (M23)
    1. Il tentativo di un’infiltrazione in territorio congolese a partire dall’Uganda
    2. Una nuova strategia

 

EDITORIALE: DIETRO LA SIGLA ADF (FORCES DÉMOCRATIQUES ALLIÉES) → INTERESSI E COMPLICITÀ ANCORA NASCOSTE

 

 

 

 

1. LE FORZE DEMOCRATICHE ALLEATE (ADF)

 

a. L’evoluzione delle ADF sul territorio congolese

 

A Beni e dintorni, nel Nord Kivu, dal 2014, massacri, decapitazioni, sequestri, raid notturni hanno provocato la morte di più di 1.000 persone. Subito fuori città, si vedono case vuote e campi abbandonati. È con disprezzo e con la sensazione di sentirsi abbandonata che la popolazione di Beni vede passare le jeep della MONUSCO e i convogli dell’esercito governativo. Quasi sempre queste atrocità sono attribuite a un nemico invisibile, le Forze Democratiche Alleate (ADF), presentate come ribelli ugandesi rifugiati sul territorio congolese da oltre vent’anni. Arrivati in Congo a metà degli anni 1990, i ribelli ugandesi ADF, di religione musulmana,  abitavano in un quartiere di Beni, chiamato “Matonge”, dove vivevano senza problemi con la popolazione locale e sposavano donne congolesi.

Nei primi anni 2000, mentre in Congo continuava la guerra, essi si erano spostati nel parco dei Virunga, dove c’erano già dei gruppi di rifugiati Hutu ruandesi che vivevano del commercio di carbone. Secondo Omar Kavota, «i rapporti dei ribelli ugandesi con i contadini congolesi sono sempre stati ambivalenti: in alcuni casi, mentre l’Istituto Congolese per la Conservazione dell’Ambiente (ICCN) cacciava i contadini che volevano coltivare delle terre all’interno del parco, i ribelli ugandesi li accettavano sotto la loro protezione e compravano la loro produzione agricola a buon prezzo. In altri casi, li usavano come loro manodopera coatta».

Il loro principale “campo base” allestito nella foresta viene denominato “Campo Medina”. Ad altri campi base sono stati attribuiti altri nomi, come “Nadui”, “Kabila”, “KBG” e soprattutto “Canada”. Quest’ultimo nome, spiega Omar Kavota, «rappresenta una specie d’inganno: per reclutare nuove leve tra i giovani congolesi di Goma o altrove, le ADF promettono loro di mandarli a studiare in Canada. In realtà, il viaggio si conclude nelle foreste di Beni dove le reclute ricevono addestramento militare e una formazione ideologica».

Ben presto, i ribelli ugandesi delle ADF sono diventarti economicamente autosufficienti. Nella valle del fiume Semliki dove si sono stabiliti, sul versante congolese della frontiera con l’Uganda, sfruttano le ricche miniere d’oro e a Kasese e Bundibugyo, sul versante ugandese della frontiera, creano centri d’acquisto d’oro, mentre aumentano le raffinerie d’oro a Kampala, capitale dell’Uganda. Le ADF sfruttano anche il legname del Congo, che verrà poi immesso sul mercato internazionale come legname ugandese. Si dedicano pure al commercio del caffè e del cacao, prodotti in Congo, ma anch’essi esportati attraverso l’Uganda, ciò che permette loro di offrire un buon prezzo agli agricoltori della zona di Beni. Stringendo alleanze con dei commercianti Nande, i ribelli ugandesi si fanno presenti anche nelle rotte commerciali del petrolio: attraverso un sistema di credito islamico, l’hawala, basato sulla fiducia e sulla parola data, offrono del petrolio a credito e in cambio comprano legname. Traffici economici transfrontalieri e circuiti mafiosi si intrecciano fino al 2010, garantendo uno spettacolare sviluppo alle città di Beni e di Butembo e rafforzando il peso economico della comunità Nande, la cui influenza si estende fino a Kisangani, nella Provincia Orientale, a Bukavu, nel Sud Kivu e a Goma, nel Nord Kivu.

Ma nel 2010, la situazione cambia: Kinshasa vuole assicurarsi la supremazia sulle “basi” ADF sparse nelle foreste del Nord Kivu e riprendere il controllo sui circuiti economici della zona. Inizia così una serie di operazioni militari. In tale occasione, i ribelli ADF non solo rinforzano la difesa delle loro roccaforti, ma intensificano anche il reclutamento di nuove leve. Soprattutto, cercano degli alleati tra i Nande locali, con i quali avevano già stabilito molte relazioni economiche e matrimoniali e, infine, trovano molti complici all’interno delle forze armate congolesi.

Infatti, l’esercito congolese è tutt’altro che omogeneo. In seguito ad accordi di pace successivi, in esso sono stati integrati molti ex ribelli provenienti da vari gruppi armati: l’RCD-Goma (Tutsi filo ruandese), l’RCD-MK di Mbusa Nyamwisi (Nande filo ugandese), l’MLC di Jean Pierre Bemba ed ex miliziani Mai-Mai (gruppi armati di origine congolese). Degli ex signori della guerra, responsabili di numerosi massacri, sono promossi ai più alti gradi militari; degli analfabeti si trovano ai più alti posti di comando; ex ribelli mantengono i contatti con i loro colleghi di ribellione rimasti nella foresta e “coprono” i vari traffici suddividendosene  i lucrosi proventi.

È nel 2014 che la situazione peggiora e si degrada: dopo la vittoria sui ribelli tutsi filoruandesi dell’M23 cacciati dal paese, invece di attaccare i ribelli hutu ruandesi delle FDLR (una priorità per Kigali), l’esercito congolese decide di iniziare un’offensiva contro le ADF e lancia l’operazione Sukola I. Ma il 2 gennaio, il popolare colonnello Mamadou Ndala, che aveva vinto la guerra contro l’M23, viene ucciso in un agguato attribuito alle ADF, con la probabile complicità di elementi del suo stesso esercito!

Inizia una sporca guerra che nessuno può vincere: l’esercito congolese è debole e diviso, opera secondo schemi classici, senza adottare strategie anti guerriglia, colpisce duro bombardando i campi base delle ADF installati nella foresta e tenta di accerchiarli. Volendo ottenere un abbassamento delle pressioni militari sulle loro basi, le ADF iniziano a colpire la periferia della città di Beni, per costringere l’esercito congolese a concentrarvi le sue truppe indebolendo, in tal modo, il fronte centrale. È stato in quel tempo che si sono intensificati i sequestri di persone e, soprattutto, i massacri che creano terrore e panico tra la popolazione che non si sente più protetta dal suo esercito.

La guerra è anche di tipo psicologico: oltre all’assassinio di Mamadou Ndala che getta molti dubbi sulla lealtà dei suoi compagni d’armi, alcune dichiarazioni rilasciate a RFI da Mbusa Nyamwisi, rifugiato in Uganda, attribuiscono i massacri di Beni all’esercito governativo! Viene messo in causa un ufficiale ritenuto molto vicino al Capo dello Stato, il generale Charles Akili Mundos.[1]

 

b. Il processo dei presunti ADF

 

Nel mese di agosto 2016 è iniziato il processo contro “presunti membri delle ADF” (Forze Democratiche Alleate), considerate dal governo congolese come un gruppo terrorista jihadista.

Questo processo rivela anche le complicità locali e l’ambiguità di alcuni elementi delle forze armate e di vari politici del posto.

Gli arresti, spesso arbitrari, si sono moltiplicati. Imam, militari, uomini d’affari, capi tradizionali e persone comuni languono nelle carceri di Beni e di Kinshasa, accusati di collusione con le ADF,  gruppo “jihadisti”. I musulmani, che finora vivevano in armonia con i cristiani (cattolici e protestanti), sono ora diventati dei bersagli. L’Imam Moussa Angwandi ha smesso di contare il numero dei suoi compagni di religione arrestati per le strade o nelle moschee di Beni e dintorni. «Se indossiamo il nostro abito tradizionale, siamo arrestati, perseguitati, trattati da jihadisti», racconta con amarezza.

Uno degli accusati, Okapi Shabani Hamadi dice di avere assiduamente frequentato la moschea di  Katindo, a Goma, dove si parla della jihad, dei moudjahhidines e dei gruppi che combattono nella foresta. Il colonnello Molisho Shabani, un ex ufficiale delle forze armate congolesi (proveniente dall’RCD-Goma, ex movimento ribelle a predominanza tutsi e alleato del Ruanda) e presentato come “testimone informato dei fatti”. Anche lui conosce la moschea di Katindo e l’Imam Suleiman e conferma che il contenuto delle prediche riguardava la guerra santa, il reclutamento di nuovi adepti e l’appoggio da portare ai combattenti nascosti nelle foreste.

Secondo il generale maggiore Timothy Mukuntu Kiyana, pubblico ministero nel processo, nella foresta e in aree di difficile accesso, i responsabili dei campi di formazione continuano a reclutare, sulla base di una militanza religiosa, dei giovani congolesi, ma anche somali, kenyani, ugandesi, ciadiani e sudanesi.[2]

 

Per quanto riguarda questi stranieri, risulta difficile pensare che si tratti di “Foreign Fighters” (combattenti stranieri) arrivati in Congo per arruolarsi in una ipotetica jihad in vista della creazione di un califfato nella Regione dei Grandi Laghi d’Africa. Si tratta piuttosto di stranieri presenti sul suolo congolese da diversi anni, se non da decenni, per motivi politici, economici o professionali.

 

Questo sembra essere il caso, ad esempio, di Moussa Bachran o “Moussa il Ciadiano”, un imputato chiamato a comparire davanti al tribunale militare di Beni nel processo dei “presunti ADF”. Egli si è presentato come cugino di Hissène Habré, il dittatore del Ciad che, alla fine degli anni 1980, aveva buoni rapporti con il presidente Mobutu. Dopo il rovesciamento di Hissène Habré nel 1990, sostituito dal cugino Idriss Deby, un centinaio di membri della sua guardia personale erano stati accolti nell’allora Zaire, dove sono stati assunti come guardie del corpo del presidente Mobutu. Secondo le sue dichiarazioni, quando, su invito del Presidente Mobutu Hissène Habré arrivò nell’allora Zaire, Moussa rimase a Goma, capoluogo del Nord Kivu, dove si sposò con una congolese e si dedicò al commercio di minerali (oro e pietre preziose). Accusato di aver ospitato a casa sua e finanziato gli studi di giovani musulmani che avrebbero dovuto raggiungere le ADF a Beni, ha affermato la sua innocenza, mentre i suoi avvocati hanno condizionato la continuazione del suo processo alla restituzione dei suoi beni rubati dai soldati dell’esercito congolese: due jeep, dei diamanti, dei soldi e degli effetti personali.[3]

 

Potrebbe essere il caso anche del colonnello Kachanzu Nzama Hangi, alto ufficiale dell’esercito congolese assegnato al reparto logistica (T4) dell’operazione SUKOLA 1, indagato nel processo dei presunti membri delle ADF. Nella requisitoria del Pubblico Ministero, il colonnello Kachanzu Hangi è formalmente accusato di partecipazione a movimento insurrezionale e di violazione delle consegne. Secondo il generale maggiore Mukuntu Kiyana Timothée, pubblico ministero in questo processo, il colonnello Kachanzu è un Ugandese, militare dell’UPDF (esercito ugandese) integrato nell’esercito congolese in occasione della sua ristrutturazione e riunificazione. All’epoca della ribellione del RCD-KML, Kachanzu era stato inviato dall’UPDF nell’allora Zaire come Assistente Istruttore dei combattenti dell’APC (esercito del popolo congolese), ramo militare del RCD-KML.

Con la riunificazione dell’esercito, Kachanzu ha avuto la possibilità di apparire nella lista dei militari e degli ufficiali del RCD-KML trasmessa al Governo. Egli ha in tal modo beneficiato, come molti altri, del riconoscimento dei suoi gradi attraverso il relativo decreto emesso dal Capo dello Stato. Dal momento che l’esercito congolese deve assumere la sua storia, il pubblico ministero (l’accusa) ha ricordato che, come tale, l’imputato Kachanzu viene processato come ufficiale dell’esercito congolese. Il generale Mukuntu ha ricordato che, per quanto riguarda l’attacco al villaggio di Eringeti il 29 novembre 2015, il rapporto del gruppo di esperti dell’ONU del 23 maggio 2016 aveva già citato il colonnello Kachanzu come ufficiale dell’esercito congolese che aveva trasmesso alle ADF delle informazioni sulle posizioni, l’armamento e la logistica dell’esercito stesso, facilitando in tal modo il nemico nelle sue operazioni di attacco. Il Pubblico Ministero Generale Mukuntu ha affermato che i Servizi di intelligence ugandesi aveva avvertito le autorità congolesi sulla presenza, in territorio congolese, di un fornitore (in viveri, armi e munizioni) delle ADF, operante sotto copertura di un ufficiale dell’esercito congolese, il Colonnello Kachanzu.[4]

 

Tra i capi tradizionali interrogati, c’è Mwami Désiré Boroso Bin Bendera II, 48 anni, sposato e padre di 10 figli, è il capo della località di Baungatsu-Luna, residente a Eringeti, un villaggio del raggruppamento Bambuba-Kisiki del settore di Beni-Mbau, a nord del territorio di Beni. Egli è accusato di essere in contatto con le ADF.

L’imputato Kakule Baraka (ex calciatore nella squadra di Eringeti) ha affermato di aver visto, nel 2014, 12 combattenti ADF presso la residenza di Mwami Boroso. Essendo arrivati ad Eringheti per acquisti vari, avevano alloggiato a casa sua e stavano per ritornare in foresta. Nel tentativo di comprare il suo silenzio, Mwami Boroso avrebbe dato a Kakule Baraka 40 $, minacciandolo di morte se egli avesse parlato di ciò che aveva visto.

Un altro imputato, Okabo Mabruki, ha affermato che Boroso non poteva negare i suoi legami con le ADF. La prova, ha detto, è che durante una perquisizione eseguita in passato dalla Polizia in casa sua, sono state trovate 12 paia di stivali e delle uniformi dei combattenti ADF. Avrebbe poi corrotto la polizia di Oicha per essere rimesso in libertà. Mwami Boroso ha smentito in blocco le dichiarazioni di Mabruki e ha chiesto che l’agente di polizia, il Commissario Papy, residente a Oicha, che aveva proceduto alla perquisizione della sua casa, sia citato come persona informata dei fatti.

Un testimone chiamato a deporre come persona informata dei fatti, Fatavizuri Moterne, ex comandante della Polizia ad Eringeti, ha dichiarato di aver comprato una moto da un taxi man di Eringeti. Pochi giorni dopo, per l’acquisto di quella moto, le ADF gli hanno esigito una somma di 600 $, minacciando di attaccare il villaggio di Eringheti se non avesse pagato. Tale richiesta di denaro gli era stata  notificata dallo stesso Mwami Boroso, accompagnato da un giovane da lui stesso presentato come messaggero delle ADF. Il denaro richiesto doveva essere consegnato a Boroso che lo avrebbe fatto pervenire alle ADF. A questo proposito, Boroso ha dichiarato di avere agito come capo villaggio e non come collaboratore delle ADF. Egli ha sostenuto che è per risparmiare la vita degli abitanti del villaggio che si è sentito obbligato a soddisfare la richiesta delle ADF. Egli ha aggiunto che, se è vero che ha preso i soldi del comandante Fatavizuri Moterne, come richiesto dalle ADF, egli li ha però fatti pervenire a destinazione attraverso un intermediario. Considerando l’evoluzione delle diverse udienze della Corte militare operativa di BEeni, la questione rimane sempre la stessa: “esisterebbero le ADF senza le complicità locali?”.[5]

 

Il tribunale militare del Nord Kivu ha interrogato, il 16 febbraio, il sindaco di Beni, Nyonyi Bwabakawa, come testimone a conoscenza dei fatti nel processo dei presunti ADF.

Un imputato presunto ADF, Suleyman Amuli Banza, un musulmano di nazionalità congolese accusato di essere membro delle ADF, l’aveva citato come collaboratore del gruppo armato, affermando che Bwanakawa avrebbe contattato uno dei capi delle ADF per negoziare la cessazione dei massacri di civili a Beni. «Se si vuol sapere chi è che uccide la gente, occorrerà chiederlo al sindaco di Beni, Masumbuko Nyondi e al General Muhindo Akili Mundos, comandante della 31ª Brigata dell’Esercito congolese. Sono loro che appoggiano le ADF», aveva egli dichiarato nel corso dell’audizione pubblica del 10 febbraio.

Nella sua dichiarazione, il sindaco di Beni ha ammesso di aver ricevuto un messaggio telefonico da presunti ADF che gli chiedevano un incontro, in foresta, in vista di una trattativa e  di averne presentato un rapporto ai suoi superiori e ai servizi di sicurezza.

Da parte sua, l’accusa ha assicurato che Nyonyi Bwanakawa aveva agito nell’ambito di una missione di infiltrazione tra presunti ADF, con cui era in contatto per distinguere i “veri” dai “falsi” ADF. Secondo lui, l’azione del sindaco avrebbe permesso l’arresto di vari membri delle ADF.[6]

 

c. “Veri”, “falsi” e “presunti” ADF

 

Il gruppo delle Forze Democratiche Alleate è ormai connotato come “veri”, “falsi” e “presunti” ADF. «I “veri” ADF erano gentili, ci rispettavano, venivano a lavorare nei nostri campi, acquistavano i nostri polli, si rifornivano di viveri al mercato e ci aiutavano nei nostri lavori. Gli assassini di oggi non sono i nostri amici di ieri, ve lo assicuro», ricorda un vecchio contadino di Eringeti, un villaggio situato a 80 km. A nord di Beni. Nel cuore del “triangolo della morte”, gli abitanti di Eringheti, non capiscono più nulla e si chiedono come mai questi miliziani, alcuni dei quali si sono sposati con donne della zona, altri hanno stretto alleanza e collaborato con dei gruppi politico-militari locali, abbiano potuto trasformarsi in assassini di donne incinte, bambini, personale religioso e agenti umanitari. «I “veri ADF” dicono che non sono solo loro ad uccidere e che, quando lo hanno fatto, è stato perché la popolazione li aveva denunciati. Dall’inizio delle operazioni militari [nel 2014], hanno interrotto i contatti con la popolazione locale», dice Jacques Paluku Matswime, un contadino di 49 anni.

Nel mese di novembre 2016, Jacques Paluku Matswime era stato sequestrato mentre lavorava nel suo campo. Costretto a portare i loro bagagli, aveva camminato a piedi tutta la notte in foresta con degli ADF ugandesi, quelli “veri”, almeno così pensa. Egli li ha visti addestrarsi, combattere, pregare e discutere sulle diverse correnti dell’Islam. Durante i dieci giorni del sequestro, nei rari momenti di riposo veniva legato. «Prima di liberarmi», racconta, «mi hanno chiesto di trasmettere dei messaggi: dire all’esercito congolese di cessare gli attacchi contro le loro posizioni e dire alla MONUSCO di arrestare i bombardamenti e i monitoraggi aerei».

Il territorio di Beni è probabilmente la zona più militarizzata. Ai militari congolesi si aggiungono i caschi blu della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo (MONUSCO).

Non abbastanza sufficiente, però, per arginare i massacri. L’Onu naviga a vista per la mancanza di mezzi tecnici adeguati per raccogliere informazioni affidabili. I droni utilizzati dalla Monusco non sono in grado di perforare il tetto della foresta equatoriale. «Avremmo bisogno di una piccola CIA locale», sospira un funzionario della Monusco, «perché, in realtà, non sappiamo nulla, né delle ADF,  né dei militari che collaborano con loro, tanto meno di chi possano essere i veri responsabili ed esecutori dei massacri. Per mancanza di prove, ci si accontenta semplicemente di teorie più o meno documentate». A Beni, infatti, molte sono le diverse tesi e teorie che circolano sugli autori di queste atrocità. Ciascuno si è fatto una propria opinione. Tra le incognite si possono enumerare l’accaparramento delle terre, delle rivalità etniche, dei micro conflitti tra autorità tradizionali e il controllo del traffico di legname in una regione povera di minerali.

«L’etichetta ADF è diventata una specie di chiave passepartout, la situazione è estremamente confusa. Nei massacri sono implicati diversi attori, come le FARDC [esercito congolese] e degli ex membri di gruppi armati locali. Ma non se ne trovano i motivi», afferma Jason Stearns, ex membro del gruppo di esperti delle Nazioni Unite.[7]

 

d. La minaccia jihadista nell’est della RDCongo è una pura invenzione

 

Il ricercatore Thierry Vircoulon demolisce il mito di un movimento jihadista nella regione del Nord Kivu, tesi “inventata” e strumentalizzata da Kinshasa

Nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), nella città di Beni e dintorni, i massacri sono continuati nonostante la presenza delle forze di pace delle Nazioni Unite. Tutto è iniziato nel 2010 con dei sequestri che, quattro anni più tardi, si sono poi trasformati in massacri. Secondo la società civile, oltre un migliaio di persone hanno perso la vita, spesso sgozzate all’arma bianca, altre volte uccise a colpi di kalashnikov. Secondo Kinshasa, questi massacri sono commessi da dei combattenti membri di un misterioso gruppo armato ugandese di ispirazione islamista, le Forze Democratiche Alleate (ADF), considerati come dei “jihadisti”.

 

Domanda: Le autorità congolesi si dicono in “guerra contro il terrorismo” attivo nell’est del Paese. Si può parlare di una vera minaccia jihadista in questa parte della RDCongo? Thierry Vircoulon: Si tratta di una minaccia inventata e strumentalizzata dalle autorità congolesi e ugandesi. Il presunto volto dell’Islam radicale nella provincia del Nord Kivu, situata al confine con l’Uganda, è costituito dalle ADF. Ma le ADF non hanno alcuna caratteristica, né alcuna rivendicazione di tipo jihadista. I fatti sono veri: nel territorio di Beni si sono commessi dei massacri abominevoli. Ma la loro interpretazione, una presenza jihadista nel cuore dell’Africa, è discutibile o tendenziosa.

  1. Ciò che lei qualifica di “invenzione” fa forse parte di una strategia politica adottata da Kinshasa che, negli ultimi tempi, si trova sotto la pressione della comunità internazionale?
  2. Questa retorica di Kinshasa si propone di cavalcare l’onda globale dell’anti-terrorismo per cercare di ingraziarsi le potenze occidentali che combattono contro il jihadismo. E ciò, nella speranza di provocare delle reazioni di solidarietà. L’Islam radicale è diventato un’utile strumento nelle mani di regimi dittatoriali che hanno bisogno di giustificare la loro azione di repressione interna e di attirarsi le grazie delle potenze del Nord.

È necessario ricordare la storia di questo gruppo armato, che era composto da musulmani in lotta contro il regime ugandese e rifugiatisi, a metà degli anni 1990, presso la frontiera tra il Congo e l’Uganda. In quel tempo, il gruppo era ben visto dalle autorità zairesi [Mobutu Sese Seko era ancora al potere]. Si era alleato con un altro gruppo di ribelli ugandesi (il Nalu) e, per quasi venti anni, era un gruppo armato come le decine di altri gruppi che operavano in quella zona. È nel 2013-2014, che c’è stata svolta e le ADF hanno cominciato a prendere di mira la popolazione locale in forma ripetitiva. I massacri avvenuti nel territorio di Beni, sistematicamente attribuiti alle ADF, non sono mai stati rivendicati da alcun gruppo e rimangono inspiegabili. Le ADF restano praticamente invisibili. Non fanno comunicati, non fanno propaganda su Internet e sono assenti dalla “djihadosfera”, mentre altri gruppi jihadisti in Africa e altrove usano la violenza per ottenere fama e influenza sia dentro che fuori del movimento jihadista. La violenza religiosa è la base della propaganda jihadista, il che non è affatto il caso delle ADF.

  1. Qual’è la dottrina religiosa delle ADF?
  2. Se si tratta di salafismo, ne sarebbe una versione molto tropicalizzata. Ci sono dei video in cui si vedono i membri delle ADF danzare! In tali video, gli uomini che appaiono sembrano più dei “Mai Mai” [gruppi di autodifesa] che dei jihadisti, sia nell’abbigliamento che nell’atteggiamento. Il loro Islamismo è in definitiva molto discreto. Non indossano i simboli della jihad e non sembrano essere in una logica di difensori della “vera fede musulmana” nei confronti degli “apostati”. Essi non pretendono di voler creare un califfato nella regione dei Grandi Laghi, non attaccano specificamente l’esercito congolese, né dei leader religiosi … Sono degli indizi che lasciano pensare ad una loro islamizzazione abbastanza superficiale.
  3. Eppure, all’inizio, il loro ex leader, Jamil Mukulu, un ugandese cristiano convertitosi all’Islam, è stato influenzato da movimenti islamici radicali …
  4. Jamil Mukulu ha effettivamente abbracciato l’Islam della setta Tabligh. Egli aveva stabilito dei legami con il Sudan di Omar al-Bashir e la sua eminenza grigia di quel tempo, Hassan Al Turabi. Poi le autorità ugandesi hanno accusato le ADF di essersi alleata con Al Qaeda, hanno accusato Jamil Mukulu di essersi recato in campi di addestramento in Pakistan. Infine, secondo Kampala e Kinshasa, le ADF avrebbero stabilito contatti con i jihadisti somali di Al-Shabaab. Ma non c’è nessuna prova a sostegno di tali affermazioni. Al momento dell’arresto di Jamil Mukulu, si sono scoperte solo delle relazioni tra un suo figlio e alcune organizzazioni islamiche radicali keniane. Le ADF rimangono un gruppo misterioso e taciturno. L’arresto di Jamil Mukulu in Tanzania, nel 2015, non ha cambiato nulla.
  5. Come si spiega che un gruppo armato ugandese che ha vissuto, per decenni, nella RDCongo e in armonia con la popolazione locale passi, nel 2014, all’uso brutale della violenza, adottando la strategia delle stragi?
  6. Questo cambiamento di comportamento è uno dei misteri delle ADF. Essi non seguono una logica di reclutamento di nuovi credenti in vista dell’espansione di un califfato in Africa, ma una logica di insediamento territoriale. In loro, si può osservare una strategia di insediamento in certe zone del territorio di Beni cui la popolazione locale non poteva più accedere. Il loro discorso era semplice: “Se vi entrate, sarete ammazzati”. È ciò che hanno fatto. Ci sono una ventina di gruppi armati ancora attivi nella regione del Kivu. Le ADF si distinguono dagli altri gruppi armati per la loro mancanza di contatto con le organizzazioni internazionali. Per esempio, le ADF sono l’unico gruppo armato che non ha alcun rapporto con la Croce Rossa Internazionale. Pertanto, ci si interroga sui motivi precisi di questa operazione di isolamento. Le ADF rivendicano queste terre, affermando che sono state loro date da Mobutu Sese Seko, che li aveva accolti nel 1990. Ma non è una spiegazione sufficiente.
  7. La popolazione locale parla di “vere e false ADF”, sospetta una “mano nera di Kinshasa” e accusa la Missione delle Nazioni Unite nella RDC (MONUSCO) di collusione con gli “assassini”. Quali sono le dinamiche che guidano i massacri?
  8. La situazione non è solo opaca. È volutamente opaca. Il che è abbastanza normale nell’est della RDCongo, dove le conflittualità sono vecchie e si rinnovano, ma rimangono più o meno le stesse da diversi decenni. Da oltre vent’anni, l’est della RDCongo è una zona grigia in cui vi è un miscuglio di conflitti, la cui problematica riguarda il controllo sul territorio e le sue risorse da parte di reti mafiose dedite a traffici regionali e internazionali. A questo si aggiungono importanti implicazioni di Kinshasa, perché questa moltitudine di conflitti locali può essere strumentalizzata a fini politici a livello nazionale.

Le ADF continuano ad esistere grazie a delle complicità, probabilmente su entrambi i versanti della frontiera congolo-ugandese. Questo gruppo armato svolge senza dubbio una funzione di utilità per certi attori politici, alcuni dei quali possono in tal modo beneficiare di traffici transfrontalieri illegali. La situazione e gli attori in essa implicati rimangono molto opachi.

Vari indizi segnalano l’implicazione di ufficiali superiori dell’esercito congolese che hanno lavorato in zona. Una rete clientelare potrebbe comprendere anche certi politici e uomini d’affari.

Secondo fonti locali, le violenze constatate a Beni non sarebbero attribuibili solo alle ADF storiche, ma anche ad altri gruppi armati, comprese le cosiddette “ADF – FARDC” [Forze Armate della RDC]. Recentemente, il tribunale militare operativo di Beni ha messo in causa anche dei militari dell’esercito congolese.[8]

 

In effetti, il comportamento dell’esercito congolese di fronte all’ondata dei massacri di Beni è altamente sospetto. Sia i parlamentari congolesi che l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite nella RDCongo hanno messo in dubbio la versione ufficiale delle ADF come principali autori dei massacri e, nello stesso tempo, indicano le responsabilità e le complicità dell’esercito congolese.

Nel novembre 2014, la commissione parlamentare inviata per fare un’inchiesta sui massacri nella regione di Beni aveva fatto notare che il piano di protezione civile, preparato dal generale Champion della MONUSCO non aveva funzionato. Più preoccupante ancora, alcuni ufficiali congolesi avrebbero proibito ai loro uomini di portare soccorso alle popolazioni mentre i massacri erano in corso o avrebbero deliberatamente aspettato diverse ore dopo i fatti prima di intervenire.

Nel 2014 e nel 2015, i reggimenti 808, 809, 905 e 1006 sarebbero stati implicati nelle stragi di Tenambo-Mamiki, di Ngadi e di Mayangose.

Mentre la lotta contro le ADF dovrebbe essere una priorità per la sicurezza della regione, la mancanza di reattività da parte dell’esercito congolese si è ripetuta anche in occasione di un massacro del mese di agosto 2016. Ancora una volta, il sistema di allarme preventivo istituito dalle Nazioni Unite non ha funzionato. Delle testimonianze provenienti dalla Società civile indicano che degli ufficiali dell’esercito congolese avrebbero ordinato agli operatori civili di questo sistema di preallarme di non usarlo, nemmeno in caso di attacco. Le testimonianze raccolte mettono in risalto anche la complicità che esisterebbe tra le ADF e alcune unità delle Forze Armate della RDCongo (FARDC), l’esercito congolese, al tal punto che la Società civile locale parla delle “ADF-FARDC”.

A questo proposito, è utile ricordare che l’assassinio dell’”eroe” della lotta contro l’M23, il Colonnello Mamadou Ndala, nel gennaio 2014, è considerato come una resa dei conti tra soldati congolesi camuffata sotto l’apparenza di un’imboscata tesa dalle ADF. Il mistero delle ADF sembra iscriversi nella lunga tradizione di complicità e di strumentalizzazione dei gruppi armati attivi nell’est della RDCongo da parte del comando dell’esercito congolese.

Il governo congolese e la Monusco continuano a imputare alle ADF la responsabilità dei massacri commessi nella regione di Beni e a presentare questo gruppo come un gruppo di fanatici islamici ugandesi, ma questo tipo di lettura è sempre più messo in discussione.

Dal 2012, l’International Crisis Group ha messo in evidenza la “congolizzazione” dei combattenti ADF, ha rimesso in causa l’esistenza di una collaborazione diretta con Shabaab e ha sottolineato che “il governo ugandese ha strumentalizzato la minaccia terroristica per scopi interni ed esterni”. Nei primi mesi del 2016, il gruppo di studio sulla RDCongo della New York University ha affermato che, oltre alle ADF, anche dei membri di gruppi armati locali (tra cui l’ex Raggruppamento Congolese per la Democrazia – Kisangani / Movimento di Liberazione e ex membri del CNDP / M23) e dell’esercito regolare erano ampiamente implicati nei massacri di Beni. A queste voci di dissenso si aggiunge anche quella delle autorità locali. Secondo il sindaco di Beni, Bwanakawa Nyonyi, i massacri sono il risultato di una “nebulosa” dietro la quale si nascondono delle “mani politiche congolesi”, un’opinione condivisa da molte organizzazioni locali della Società civile.[9]

 

e. Le tuniche musulmane contribuiscono a nascondere il volto ruandese dell’occupazione

 

La tesi della responsabilità delle ADF nei massacri di Beni non è convincente. «Non possiamo confermare o smentire che le ADF siano responsabili di questi crimini», ha dichiarato il direttore della Commissione Giustizia e Pace di Butembo-Beni. Ma ha subito aggiunto: «Molti sostengono che è il governo e delle popolazioni di origine ruandese che sono i mandanti di questi crimini con l’obiettivo di balcanizzare la regione». Questo era il punto di vista anche di P. Vincent Machozi, religioso assunzionista assassinato nella notte del 20 marzo 2016. Poco prima di essere ucciso, sul suo sito web Beni-Lubero, egli aveva accusato il presidente congolese Joseph Kabila e il presidente ruandese Paul Kagame di essere i veri mandanti dei massacri. Secondo lui, i due presidenti favorirebbero un clima di terrore, al fine di costringere la popolazione locale ad abbandonare le sue terre, in una zona il cui sottosuolo è ricco di coltan. Nel suo ultimo messaggio prima di essere assassinato, Padre Machozi aveva scritto: «le tuniche musulmane contribuiscono a creare la confusione per nascondere il volto ruandese dell’occupazione, avanzando la tesi dell’Islamismo di Al-Shebab o di Boko Haram, una tesi che non ha mai convinto alcun congolese, perché il volto del Ruanda è troppo visibile agli occhi di tutti».[10]

 

Di questa opinione sembra essere anche Richard Kalule, capo di quartiere a Rwangoma, a 5 km dal centro di Beni. Il 13 agosto 2013, mentre tornava dai suoi campi insieme ad altri contadini, era stato improvvisamente fermato. Egli racconta: «gli assalitori portavano uniformi militari color kaki o “a macchie”, come quelle dell’esercito congolese. Nel loro gruppo, c’erano anche delle donne e dei bambini, tutti dotati di asce, machete e bastoni. Ci hanno buttato a terra, ci hanno legati e hanno iniziato ad ucciderci uno a uno. Io sono stato ferito e lasciato per morto. Due donne sono state violentate e poi fucilate».

Il gruppo degli aggressori sembrava provenire, a piedi, da Rutshuru, una cittadina situata a sud del parco dei Virunga, e sono ripartiti la sera stessa, lasciando 40 morti, alcuni dei quali avevano la testa aperta e spaccata con un’ascia. Dopo essere stati avvertiti dei fatti, sono arrivati quattro agenti della polizia militare che hanno sparato sul gruppo, ferendo solo qualcuno che, però, è riuscito a fuggire insieme al gruppo. Kakule assicura che tra gli assaltanti, oltre alle uniformi militari, alcuni indossavano “grandi” tuniche e avevano “la barba lunga” come i musulmani. La maggior parte parlava in Swahili, ma Kakule sostiene che, nel gruppo, c’erano anche dei ruandofoni perché, ha detto, “mescolavano la R con la L”, ciò che è tipico dei ruandesi.

Da allora, Zaituni Vangu, rimasta vedova con sei figli e la cui casa è stata bruciata, non osa più andare a coltivare i suoi campi. Nemmeno Marcelline Kafutu, che ha perso la madre e la sorella in quell’attacco, né la signora Paluku, 68 anni, colpita all’anca con un’ascia. Ben lucide, queste donne si chiedono: «quelle persone che hanno ucciso i nostri cari, avevano dei machete nuovi, ben affilati per potere colpire meglio. Davano l’impressione di aver ricevuto un ordine e, prima di ripartire, ci hanno detto che sarebbero ritornati, perché – urlavano – questa terra ci è stata data al tempo di Mobutu“». A prima vista, sia per il linguaggio che per i metodi utilizzati (uso di armi bianche, massacri di gruppo, …), questi assalitori potrebbero essere degli Hutu ruandesi scesi su Beni dal Parco dei Virunga, dove si sono stabiliti venti anni fa e che vorrebbero impossessarsi delle fertili terre dei dintorni di Beni.[11]

 

 

2. IL MOVIMENTO DEL 23 MARZO (M23)

 

a. Il tentativo di un’infiltrazione in territorio congolese a partire dall’Uganda

 

Il 18 febbraio, Erique Gasana, ex tenente dell’esercito congolese e combattente dell’ex gruppo armato Movimento del 23 marzo (M23), arrendendosi alle Forze Armate della RDC (FARDC) ha affermato che uno dei capi di questo movimento armato, Sultani Makenga, e un gruppo di combattenti si trovano attualmente nel territorio di Rutshuru, nel nord Kivu. Secondo il suo racconto, un gruppo di combattenti è stato preparato per attaccare le guardie del parco, al fine di recuperare le loro armi. Secondo Erique Gasana, i combattenti dell’ex M23 sono per lo più armati di Kalachinkov e sarebbero sotto il comando dell’ex colonnello Joseph Mboneza. A proposito di Sultani Makenga, ex capo militare dell’M23, egli afferma che attualmente si troverebbe nel parco di Sarambwe, nel territorio di Rutshuru, nei pressi delle colline Sabinyo e Mikeno, vicino alla frontiera con l’Uganda. Sarebbe accompagnato da un centinaio di combattenti reclutati presso il campo militare di Bihanga, in Uganda. Inoltre, sempre secondo Erique Gasana, almeno sessantanove combattenti ex ribelli dell’M23 si troverebbero dallo scorso fine settimana nella zona di Tongo, in territorio di Rutshuru. Secondo alcune autorità militari del Nord Kivu, una dozzina di combattenti reclutati dall’ex M23 sono attualmente detenuti presso lo Stato Maggiore di Goma.

L’M23 è un ex movimento ribelle che ha occupato diversi territori del Nord Kivu tra il 2012 e il 2013, prima di essere sconfitto dall’esercito congolese appoggiato dalle truppe della Monusco. In quell’occasione, molti combattenti erano fuggiti in Ruanda e in Uganda.[12]

 

Il 20 febbraio, si sono registrati dei combattimenti tra le forze armate congolesi e dei presunti combattenti dell’ex M23 che avevano attaccato Matebe, un villaggio situato a sei chilometri ad est di Rutshuru, capoluogo del territorio omonimo. Secondo alcune fonti, gli scontri sono durati quasi un’ora (dalle 8:30 alle 9:25) e le FARDC sono riuscite a far fuggire gli assalitori.[13]

 

Il 22 febbraio, dopo intensi combattimenti, l’esercito congolese è riuscito a cacciare dei combattenti dell’M23 da diverse colline che essi avevano occupato nella zona di Busanza, in territorio di Rutshuru (Nord Kivu), dopo essere stati respinti da Matebe. «Abbiamo combattuto tutto il giorno. La zona di combattimento comprendeva le colline Songa, Kafumbiza, Botimbo, Rutezo e Kirambo. In serata, verso le 18h00, i combattenti dell’M23 sono fuggiti in Uganda. Un totale di 73 combattenti hanno attraversato la frontiera, 16 sono stati uccisi e 4 catturati», ha dichiarato un ufficiale dell’esercito impegnato sul fronte, aggiungendo che la situazione è attualmente “sotto il controllo dell’esercito”, che sta procedendo a delle operazioni di  rastrellamento in alcune zone di Jomba e di Busanza, in cui è stata segnalata la presenza di alcuni elementi dell’ex M23. Da Kampala, Bertrand Bisimwa, presidente politico dell’M23, ha rilasciato una dichiarazione in cui ha accusato l’esercito congolese di avere usato la forza contro «degli ex-combattenti M23 disarmati ritornati al loro paese senza alcuna intenzione di ricominciare la guerra». Sempre secondo tale comunicato, «la decisione del governo di imporre la guerra agli ex combattenti dell’M23 ritornati in patria, costringendoli in tal modo a difendersi, è un brutto segno per i loro colleghi rimasti nei centri di accoglienza dell’Uganda e del Ruanda, perché intuiscono che non sarebbero ancora ben accolti nel loro paese d’origine».[14]

 

Il 27 febbraio, il coordinatore del Centro Studi per la promozione della pace, della democrazia e dei diritti umani (CEPADHO), Omar Kavota, ha chiesto al Capo dello stato di esigere che le Nazioni Unite, l’Unione Africana, la SADC e la CIRGL adottino misure vincolanti contro l’Uganda e il Ruanda che, secondo lui, destabilizzano la pace e la sicurezza della RDC attraverso l’M23. Egli ha deplorato il fatto che Kampala e Kigali continuino a servire come campi base dell’ex M23. Infatti, secondo il coordinatore del CEPADHO, alcuni ribelli dell’ex M23 catturati non esitano a dichiarare apertamente di ricevere armi e munizioni dall’Uganda e dal Ruanda.[15]

 

Il 1° marzo, il generale Léon Mushale, comandante della 3ª zona di difesa, ha dichiarato che, dall’inizio delle operazioni condotte contro l’M23 dal 27 gennaio in poi, l’esercito congolese ha ucciso venti membri dell’M23 e catturato altri venticinque, di cui quindici ruandesi e dieci congolesi. Secondo la stessa fonte, tra i catturati ci sono alcuni che si sono arresi. Dal lato dell’esercito, il generale Mushale ha presentato un bilancio di un morto, sei feriti e due elicotteri caduti.[16]

 

b. Una nuova strategia

 

Secondo alcune fonti, gli elementi M23 già infiltrati nel Territorio di Rutshuru tentano di associare i Mai-Mai Nyatura (Hutu congolesi) alla loro causa. Il pretesto loro presentato per convincerli è quello di unire le forze per proteggere gli Hutu dagli attacchi dei Mai-Mai che li perseguitano.

Questi M23 vogliono ottenere la collaborazione degli Hutu attraverso la simulazione della loro liberazione. Inoltre, gli ex-M23 sono riusciti ad ottenere la collaborazione di Bwambale Kakolele, un signore della guerra originario del Grande Nord, affinché egli ottenga l’adesione dei Nande di Beni-Lubero alla loro congiura, facendo loro credere che l’M23 è pronto a liberarli dalle ADF, responsabili dei massacri di Beni e dintorni. E per facilitare il compito di Kakolele, si è creata una nuova milizia denominata Corpo di Cristo. Quest’ultima è stata etichettata col nome Mai-Mai per favorire l’adesione dei Nande. Tuttavia, l’obiettivo di questa milizia è di collaborare con gli M23 provenienti dall’Uganda e da Rutshuru. Altre informazioni indicano che i Mai-Mai NDC/Rinnovato di Guidon (Hunde e Nyanga) hanno già accettato la collaborazione con l’M23 esca. Recentemente, l’M23 utilizza i Mai-Mai NDC/Rinnovato di Guidon (Hunde e Nyanga) e i Mai-Mai Mazembe (Nande) per operare massacri e sequestri contro gli Hutu.

La maggior parte dei combattenti Mai-Mai non sanno che è per aprire la strada all’M23 che vengono utilizzati per compiere degli attacchi e provocare tensioni etniche.

In effetti, gli M23 vorrebbero provocare la disperazione e la rabbia sia degli Hutu che dei Nande per legittimare l’inizio di un’altra loro guerra, presentandosi come liberatori per gli uno o per gli altri, ottenendo l’adesione dei gruppi armati attivi nella regione: i Nyatura e i vari gruppi Mai-Mai.

Secondo altre informazioni, l’ex M23 sarebbe riuscito a infiltrarsi anche tra le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) e sarebbe alla base di una recente scissione avvenuta all’interno delle FDLR / FOCA, che ha portato alla creazione di un nuovo ramo: le FDLR / NDRC (Consiglio Nazionale per il Rinnovamento e la Democrazia).[17]

[1] Cf Le Carnet de Colette Braeckman – Le Soir, 23.02.’17  Les longues racines de l’implantation musulmane au Nord Kivu

[2] Cf Joan Tilouine – Le Monde Afrique, 01.03.’17; Le Carnet de Colette Braeckman – Le Soir, 27.02.’17

[3] Cf Le Carnet de Colette Braeckman – Le Soir, 27.02.’17; Dunia Kongo Media (DKM), 17.02.’17

[4] Cf Bulletin d’Information-CEPADHO du 28 Février 2017

[5] Cf Bulletin d’Information-CEPADHO du 25 Février 2017

[6] Cf Radio Moto Oicha, 18.02.’17; Dunia Kongo Media, 17.02.’17

[7] Cf Joan Tilouine – Le Monde Afrique, 01.03.’17  http://www.lemonde.fr/afrique/article/2017/03/01/mathematique-macabre-a-l-est-du-congo_5087469_3212.html

[8] Cf Joan Tilouine – Le Monde, 06.03.’17  http://www.lemonde.fr/afrique/article/2017/03/06/la-menace-djihadiste-a-l-est-de-la-rdc-est-une-pure-invention_5090023_3212.html

[9] Cf T. Vircoulon et J. Battory, “L’islam radical en République Démocratique du Congo. Entre mythe et manipulation”, Notes de l’Ifri, Ifri, Février 2017.

Texte complet: https://www.ifri.org/sites/default/files/atoms/files/vircoulon_battory_islam_radical_rdc_2017.pdf

[10] Cf Laurent Larcher – La Crois, 13.03.’17  http://www.la-croix.com/Monde/Afrique/Massacres-a-Beni-la-fausse-piste-djihadiste-2017-03-12-1200831246

[11] Cf Le Carnet de Colette Braeckman – Le Soir, 27.02.’17  Les civils de Beni s’interrogent toujours sur leurs assaillants

[12] Cf Radio Okapi, 21.02.’17

[13] Cf Patrick Maki – Actualité.cd, 20.02.’17

[14] Cf Patrick Maki – Actualité.cd, 22.02.’17; Radio Okapi, 23.02.’17; AFP – Africatime, 23.02.’17

[15] Cf Radio Okapi, 27.02.’17

[16] Cf Radio Okapi, 01.03.’17; Patrick Maki – Actualité.cd, 01.03.’17

[17] Cf Bulletin d’Information et d’Analyse-CEPADHO du 20 Février 2017