PLURALISMO ETNICO – DAL CONFLITTO ALLA COABITAZIONE

Editoriale Congo Attualità n. 288– a cura della Rete Pace per il Congo

 

I massacri di Kibirizi e Buleusa

Il 18 luglio, nella notte, otto persone sono state uccise e altre cinque ferite, durante un’incursione di uomini armati a Kibirizi, una località situata nel territorio di Rutshuru (Nord Kivu). Tra gli otto morti, 4 sono Nande e 4 Hutu. Tra le vittime, anche un bambino di un anno. L’attacco sarebbe attribuito a dei ribelli ruandesi delle FDLR alleati con dei Mai-Mai Nyatura.

Le comunità etniche autoctone accusano la comunità hutu locale di essere complice delle FDLR.

Già il 13 giugno, sei persone erano state uccise e tre ferite a Buleusa, località situata a circa 140 km a nord di Goma. Di etnia Nande, il capo del villaggio, Joseph Kamuha, aveva affermato che alcuni uomini della sua comunità, insieme a degli Hunde, avevano attaccato degli Hutu sospettati di avere sequestrato uno della loro comunità. A Buleusa, i Nande e gli Hunde si reputano come popolazioni autoctone e considerano gli Hutu, ruandofoni, come degli “stranieri”, dei “ruandesi”.

 

Chi sono gli Hutu?

Originari del Ruanda, un piccolo gruppo di Hutu era già presente nel Nord Kivu, quando gli europei vi arrivarono alla fine del XIX° secolo. Nel corso della prima metà del XX° secolo, gli Hutu continuarono ad arrivarvi per ondate successive (insieme a dei Tutsi), dapprima in seguito ad una politica di “emigrazione” voluta dai colonizzatori belgi che cercavano manodopera agricola per le piantagioni di the e caffè e, successivamente, per motivi economici o politici, secondo l’evolversi della situazione del Ruanda. Essenzialmente agricoltori e allevatori, gli Hutu (e i Tutsi) acquistarono sempre più terre. Sullo sfondo di rivalità etniche e politiche, il conflitto fondiario (relativo al problema delle terre) tra i Banyarwanda (Hutu e Tutsi, percepiti come stranieri) e le comunità autoctone (Nande, Hunde, Kobo, …) è stato inevitabile e si è accentuato nel corso degli anni. Nel 1994, dopo la presa del potere, a Kigali (Ruanda), da parte della ribellione tutsi, più di due milioni di Hutu ruandesi si sono rifugiati in Congo, destabilizzando ulteriormente un tessuto sociale già etnicamente frammentato. Attualmente, nel Nord Kivu, i rifugiati hutu ruandesi sarebbero ancora circa 200.000.

 

Il vero problema: le FDLR

Ma il vero problema è la presenza, a loro lato, di un gruppo armato, le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR), che, anch’esso di origine ruandese e composto essenzialmente di miliziani hutu ruandesi, è implicato in una lunga serie di crimini contro l’umanità commessi sulla popolazione congolese: massacri di persone, stupri, furti, sequestri di persone, imposizione di tasse illegali, prelievi arbitrari sulla produzione di minerali e di legname, incendi di villaggi, … Inoltre, le FDLR usufruiscono della collaborazione di alcuni gruppi armati congolesi, come i Mai-Mai Nyatura, costituiti soprattutto da Hutu locali del Masisi; le Forze di Protezione del Popolo (FPP), un gruppo armato prevalentemente hutu che opera nel nord-est del territorio di Rutshuru; l’Alleanza dei Patrioti per un Congo Libero e Sovrano (APCLS), del “Generale” hunde Janvier Karairi.

 

La reazione delle comunità autoctone

È in questo contesto che le comunità autoctone (Nande, Hunde, Nyanga, Kobo, …) del Nord Kivu accusano gli Hutu locali di essere complici o, addirittura, membri delle FDLR, cui si oppongono  creando e sostenendo gruppi armati locali di resistenza, come i Mai-Mai della Nduma Defense of Congo / Ristrutturato (NDC / R), sotto la guida del “Generale” Guidon Shimiray Mwissa, l’Unione per la Protezione degli Innocenti (UPDI), composta prevalentemente da membri di etnia Kobo e Nande e guidata da Marungu Magua, e i Mai-Mai Mazembe…

 

Come uscire dalla spirale della violenza

Come si può constatare, in generale i vari gruppi armati si sono creati su base etnica e con il cosiddetto obiettivo di difendere gli interessi economici e sociali di un determinato gruppo etnico. Ma spesso strumentalizzati da personalità politiche e militari, sia a livello locale che nazionale, essi sono diventati meri strumenti di arricchimento personale dei loro “ufficiali” militari e dei loro sponsor politici. È ciò che sembra confermato da alcune autorità tradizionali locali di Rutshuru e membri della Baraza la Wazee, struttura che comprende tutte le comunità etniche del Nord Kivu, secondo cui le tensioni tra i gruppi etnici locali sono spesso alimentate da certi politici in cerca di posizionamento alla vigilia delle elezioni. Deo Tusi Bikanaba, vice presidente della Baraza la Wazee, ha affermato che gran parte dei conflitti sorti nella provincia del Nord Kivu sono quasi sempre stati creati e alimentati da alcuni politici disonesti e assetati di potere e ha chiesto alla popolazione di «non prestare ascolto a questi cattivi politici» e di «dissociarsi dai gruppi armati che non fanno altro che uccidere e commettere ingiustizie».

In particolare occorrerebbe:

* Accettare il pluralismo etnico come una dimensione essenziale della società. In questa logica, è importante favorire la convivenza armoniosa tra le diverse etnie, nella convinzione di formare un unico popolo. La costituzione e i testi legislativi indicano le condizioni di appartenenza a questo unico popolo. Spesso alla radice di tensioni sociali, la distinzione tra comunità autoctone e comunità alloctone verrebbe in tal modo relativizzata e ciò contribuirebbe a limitare eventuali conflitti.

* Promuovere progetti di sviluppo comunitario in ambito agricolo, sanitario e scolastico. Ciò favorirebbe la collaborazione tra le diverse comunità, aiutandole a superare eventuali conflitti.

* Aggiornare continuamente il database dei rifugiati e degli sfollati, assicurarne l’assistenza umanitaria e monitorarne gli spostamenti. Ciò eviterebbe che siano oggetto di reclutamento da parte di gruppi armati locali o stranieri e di reti criminali.

* Assicurare il buon funzionamento delle forze di sicurezza, migliorandone la catena di comando e fornendo loro tutti i mezzi necessari, al fine di garantire la sicurezza delle persone e del territorio. Ciò limiterebbe il fenomeno del ricorso ai gruppi armati per fini di “autodifesa” e faciliterebbe le operazioni militari intraprese per la loro neutralizzazione.