Elezioni possibili solo con un rinnovato impegno

Editoriale Congo Attualità n. 264– a cura della Rete Pace per il Congo

I Vescovi hanno annullato la marcia del 16 febbraio.

Il 12 gennaio, in una lettera indirizzata a tutti i vescovi del Paese, la Conferenza Episcopale Nazionale del Congo (Cenco) ha annunciato di aver deciso di annullare le marce che aveva previsto di organizzare in ogni diocesi, per il “consolidamento della democrazia”, il 16 febbraio 2016, giorno anniversario della “marcia dei cristiani” organizzata a Kinshasa nel 1992, per chiedere la riapertura della Conferenza Nazionale Sovrana (CNS), ma repressa nel sangue dal regime del dittatore Mobutu Sese Seko. Vari osservatori si interrogano su quali possono essere state le cause che hanno costretto i vescovi ad annullare le manifestazioni previste per il 16 febbraio.

Varie cause

Nella lettera, il presidente stesso della Cenco, Nicolas Djomo, dà una risposta: «L’ iniziativa ha suscitato delle aspettative opposte e sproporzionate. Alcuni vi hanno visto un’azione cittadina a fini politici. Altri hanno organizzato una contro marcia proprio nello stesso giorno e la Santa Sede ha raccomandato fortemente di sospendere le iniziative che possono essere manipolate a fini politici», aggiungendo: «Consapevoli del rischio di recupero politico della nostra iniziativa e dei possibili scontri tra i manifestanti, ci è sembrato ragionevole annullare questa marcia».

Tuttavia, secondo una fonte diplomatica, questa decisione sarebbe la conseguenza di «un probabile compromesso tra il presidente Kabila e i vescovi», raggiunto nel loro ultimo incontro del 30 dicembre. Secondo la stessa fonte, infatti, negli ambienti della Cenco c’è chi, sottovoce, dice che «l’organizzazione delle elezioni dopo il dialogo politico nazionale voluto dal presidente Kabila, seguito da un breve periodo di transizione, sarebbe un compromesso accettabile, per cercare di evitare un ennesimo e drammatico spargimento di sangue».

Se ciò che si sussurra nei corridoi della Cenco fosse vero, confermerebbe la tesi dell’opposizione secondo cui il dialogo politico nazionale non sarebbe che una strategia della Maggioranza e del Presidente della Repubblica per ottenere il rinvio delle elezioni e mantenersi al potere oltre le scadenze costituzionali, mediante l’istituzione di un periodo di transizione.

Secondo alcuni osservatori, l’ipotesi di questo probabile compromesso non è affatto da scartare, poiché potrebbe essere già implicita nel comunicato del 4 gennaio, in cui i Vescovi della Cenco lanciavano un «appello per un dialogo che risponda alle aspirazioni di tutti, nell’interesse superiore del Paese», senza insistere più sull’organizzazione delle elezioni presidenziali entro i tempi previsti dalla costituzione e senza fissare i limiti di questo dialogo, come invece avevano fatto a fine novembre, quando avevano affermato che la stabilità del paese dipende dal rispetto assoluto della Costituzione e che il dialogo non dovrebbe condurre a un nuovo ordine politico istituzionale.

Secondo altri osservatori, lo spargimento di sangue, cui si accenna, probabilmente non sarebbe stato provocato tanto dai “possibili scontri tra i manifestanti“, ma soprattutto dall’intervento violento e sproporzionato delle forze dell’ordine che sarebbero state dispiegate per reprimere le manifestazioni stesse, cui avevano aderito anche membri dell’opposizione.

Se questa ipotesi corrispondesse alla realtà, essa confermerebbe ciò che il G7, una coalizione di sette partiti recentemente espulsi dalla Maggioranza presidenziale e , quindi, passati nel campo dell’opposizione, ha denunciato in una sua dichiarazione resa pubblica il 14 gennaio:

«L’attuale politica seguita dalla maggioranza presidenziale e dal governo, consiste nel confiscare illegalmente i mezzi pubblici di comunicazione e i beni privati, nel limitare le libertà individuali e collettive, nel ricorrere alle violazioni dei diritti umani, nell’intimidire e nel silenziare le voci dissenzienti, nell’attribuirsi il monopolio sull’organizzazione delle manifestazioni politiche e nell’agitare lo spettro di una guerra civile».

Una svolta nell’atteggiamento dei Vescovi

Il comunicato del 4 gennaio è stato pubblicato dai vescovi membri della Cenco dopo aver consultato gli esponenti dell’opposizione, della maggioranza e della società civile sulle questioni relative all’organizzazione del processo elettorale e del dialogo politico e dopo essere stati ricevuti dal Presidente della Repubblica, Joseph Kabila. Si tratta di un comunicato che segna una svolta decisiva nell’atteggiamento dei Vescovi, che sembrano allontanarsi da quel linguaggio franco e radicale che avevano usato fino a un mese prima.

Basta citare il comunicato del 12 novembre, in cui esprimevano il loro punto di vista sul dialogo. Essi scrivevano: «Il dialogo è la via fondamentale e pacifica di uscita dalla crisi. È un elemento costruttivo di ogni sistema democratico. Il dialogo dovrebbe svolgersi nel pieno rispetto del quadro costituzionale e istituzionale vigente. Tutto ciò implica che:

  1. Tutte le parti si impegnino a rispettare la Costituzione e le istituzioni della Repubblica;
  2. Non si istituisca alcun periodo di transizione, perché contrario alla Costituzione;
  3. Non si crei alcuna istituzione straordinaria;
  4. Siano rispettate le scadenze costituzionali per l’organizzazione delle elezioni».

Il 24 novembre, nel loro messaggio per il buon esito del processo elettorale, i vescovi della CENCO ricordavano che «le molte sofferenze del popolo sono dovute a un certo modo di accedere al potere con la forza e di esercitarlo a scapito del bene comune … il futuro della RDCongo dipende essenzialmente dalla salvaguardia dell’integrità territoriale della nazione, dal rispetto della Costituzione e dallo svolgimento di elezioni libere e trasparenti entro i termini costituzionali».

In quell’occasione, i vescovi chiedevano addirittura al popolo congolese di essere vigile, nello spirito dell’articolo 64 della Costituzione, secondo cui “Tutti i Congolesi hanno il dovere di lottare contro qualsiasi individuo o gruppo di individui che voglia prendere il potere con la forza o che lo eserciti in violazione delle disposizioni della Costituzione“.

Quest’ultimo appello aveva provocato una forte reazione da parte di alcuni vertici delle istituzioni e della maggioranza presidenziale che li sospettavano di collusione con l’opposizione e li accusavano di incitamento della popolazione alla rivolta.

Il 3 dicembre, senza alcuna esitazione, la Cenco aveva loro risposto: «i membri del Comitato permanente della CENCO non sono dei ribelli, ma dei pastori preoccupati della sorte del loro paese e del funzionamento delle Istituzioni della Repubblica … In un Paese che si definisce democratico, nessuno ha il diritto di imporre il silenzio a chi vuole esprimersi o prendere la parola … Il Paese non è proprietà di coloro che detengono il potere … La democrazia non significa assenza di dibattito … L’interpretazione dell’articolo 64 pone il cittadino di fronte alle sue responsabilità. Nessuno dei vescovi vuole rovesciare l’attuale regime. I Vescovi chiedono solo il rispetto della costituzione per quanto riguarda le scadenze elettorali. Il che non può essere visto come un’incitazione del popolo alla rivolta contro il regime».

L’urgenza di un rinnovato impegno

Se i vescovi della Cenco hanno ritenuto ragionevole e opportuno annullare la marcia del 16 febbraio, è una decisione degna di rispetto, soprattutto perché è stata presa per evitare un ulteriore versamento di sangue innocente. Tuttavia, sarà necessario continuare a lavorare per l’educazione civica, sociale e politica della popolazione e a esercitare una forma di controllo e di pressione sulle Istituzioni della Repubblica: Forze dell’ordine, Autorità locali, provinciali e nazionali (tra cui il Parlamento, il Governo e la Presidenza della Repubblica), nella convinzione che:

– le libertà di parola, di espressione, di riunione e di manifestazione sono dei diritti umani irrinunciabili e tutelati dalla Costituzione e gli atti che ne conseguono non possono essere considerati, a priori, come atti di sovvertimento dell’ordine pubblico o delle Istituzioni;

– l’organizzazione regolare di elezioni democratiche, trasparenti e credibili è un impegno costituzionale, come lo sono la difesa nazionale, la sicurezza delle persone e dei beni, la giustizia, l’amministrazione del territorio nazionale, la prosperità economica del paese e il benessere sociale della popolazione, come affermato dal G7, nella sua dichiarazione del 14 gennaio.