Editoriale Congo Attualità n. 221 – a cura della Rete Pace per il Congo
La questione dei gruppi armati, nazionali e stranieri, nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo) è una questione ancora tutta aperta. Il programma di disarmo e di reinserimento sociale (per i gruppi armati nazionali) o di rimpatrio (per i gruppi armati stranieri) procede a passi di tartaruga, prolungando così la sofferenza della popolazione locale, vittima delle loro angherie.
Per quanto riguarda le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), di origine ruandese, se è vero che, negli ultimi mesi, quasi 200 dei loro combattenti si sono arresi, nel Nord-Kivu e nel Sud-Kivu, per aderire al programma di disarmo volontario e di rimpatrio, è anche vero che, secondo l’ultimo rapporto intermedio del gruppo degli esperti dell’Onu, il gruppo ha continuato a reclutare nuovi membri e che certi loro comandanti continuano a ribadire che il loro obiettivo è quello di attaccare il Ruanda. Inoltre, per costringere il governo ruandese a negoziare, le FDLR hanno progressivamente stabilito dei legami formali con dei partiti di opposizione ruandesi con sede in Belgio e in Ruanda, come il Partito Sociale Imberakuri (PS Imberakuri) e il RDI-Rwiza Ruanda (Iniziativa del sogno ruandese). Secondo recenti informazioni, per quanto riguarda quelli che si arrendono e depongono le armi, il governo congolese ha deciso di trasferirli temporaneamente dapprima a Kisangani (Provincia Orientale) e poi a Irebu (provincia dell’Équateur), lontano dalla frontiera ruandese, per poter procedere alla loro identificazione, al rimpatrio di quelli che desiderano ritornare in Ruanda, o al trasferimento degli altri in paesi terzi disposti ad accoglierli. Il 19 luglio, il governo congolese aveva addirittura noleggiato un Boeing 727 per il trasporto degli 83 combattenti FDLR e dei loro 230 familiari dal loro attuale centro di accoglienza di Walungu, nel Sud Kivu, a quello di Kisangani. Tuttavia, le FDLR hanno fatto sapere al governo congolese che non lasceranno il sito di Walungu senza il permesso della loro gerarchia e hanno chiesto di inviare dapprima una loro delegazione a Kisangani, per visitare il loro nuovo luogo di delocalizzazione e verificarne le condizioni.
Nel suo precedente rapporto, il gruppo di esperti dell’Onu aveva apportato le prove d’una collaborazione, a livello locale, tra le FDLR e certi militari delle FARDC, in particolare per quanto riguarda le operazioni militari contro il M23 e la fornitura, da parte delle FARDC, di munizioni alle FDLR. Anche nell’ultimo rapporto, il gruppo riferisce di essere stato informato sul fatto che dei soldati delle FARDC hanno continuato a svolgere attività di commercio o di baratto di materiali militari, tra cui armi, munizioni e uniformi, con le FDLR.
Il reclutamento di nuove leve, le recenti alleanze con partiti di opposizione e il rifiuto di essere trasferiti lontano dalla frontiera possono essere segni indicatori di una contraddizione tra le dichiarazioni di adesione al programma di disarmo e di rimpatrio e la reale volontà di metterle in atto. Un eventuale stagnamento della situazione non andrebbe che a vantaggio del regime ruandese che potrebbe continuare a sfruttare l’alibi della presenza delle FDLR sul suolo congolese per poter continuare ad intervenire militarmente, politicamente ed economicamente nell’est della RDCongo.
Per quanto riguarda i membri dell’ex Movimento del 23 marzo (M23), che si trovano in Ruanda e in Uganda, solo un centinaio di loro sono stati amnistiati. René Abandi, membro del M23 e responsabile del comitato di controllo sull’attuazione della dichiarazione di Nairobi, afferma che il governo congolese non sta rispettando che l’1 % degli impegni assunti, e continua: «In primo luogo, l’amnistia non era sottoposta a condizioni, ora la concedono come e quando vogliono. In linea di principio,il governo avrebbe dovuto concedere l’amnistia affinché i membri del M23 potessero rientrare in RDCongo e cominciare a risolvere il conflitto. Si tratta della pace a breve e a lungo termine. Il M23 doveva essere trasformato in partito politico con il diritto di cambiare eventualmente nome. Poi si sarebbe dovuto istituire alcune commissioni per risolvere una serie di questioni: una commissione di riconciliazione, una commissione per il ritorno dei rifugiati, una commissione d’inchiesta sulle stragi commesse, una commissione per la restituzione dei beni saccheggiati. Ora, sette mesi dopo, nulla di tutto ciò è stato fatto».
A queste “frustrazioni” del M23, si aggiungono altre incognite.
Secondo il rapporto intermedio del gruppo degli esperti dell’Onu, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, almeno 48 ex-combattenti del M23 sono fuggiti dal campo di accoglienza di Ngoma, in Ruanda. Secondo altre fonti, il 18 luglio, in questo stesso campo, sono stati identificati 373 ex ribelli del M23, una cifra nettamente inferiore a quella finora annunciata dal Ruanda che riferiva di quasi 700 ex ribelli rifugiati in questo stesso campo. Per quanto riguarda quelli che si sono riparati in Uganda, secondo il rapporto del gruppo degli esperti, il loro numero varia secondo le fonti: da 1.445 a 1.302.
Queste frustrazioni e contraddizioni potrebbero minare il processo di pace e originare una nuova cosiddetta “ribellione” fomentata dal Ruanda e dall’Uganda, sotto l’etichetta di un nuovo nome.
Per quanto riguarda le Forze Democratiche Alleate (ADF), di origine ugandese, il gruppo degli esperti dell’Onu ha potuto constatare che sono pochissimi i membri delle ADF fatti prigionieri dalle FARDC, poche le tombe dove sarebbero stati sepolti i miliziani ADF uccisi negli scontri con le FARDC, poche le liberazioni di ostaggi sequestrati dalle ADF e quasi nulle le tracce di combattenti ADF feriti. Inoltre, il gruppo ritiene che, nonostante le operazioni militari condotte contro le ADF dalle FARDC, la catena di comando e di controllo delle ADF rimanga ancora intatta e che potrebbe quindi riorganizzarsi.
Per quanto riguarda le diverse fazioni dei Maï-Maï, gruppi armati nazionali, esse continuano a perpetrare violenze sulle popolazioni civili. Ancora pochi sono i miliziani che si arrendono per aderire al programma di disarmo volontario e di reinserimento sociale. Sembra che i capi dei gruppi armati usino la violenza come mezzo per essere presi in considerazione dal governo, affinché proceda alla loro integrazione nell’esercito nazionale e al riconoscimento del loro grado militare acquisito durante la guerriglia o conceda loro un riconoscimento politico.
Per avanzare nella realizzazione del programma di disarmo, reinserimento sociale o rimpatrio, sarebbe necessario:
• Mettere fine ad ogni eventuale collaborazione delle FARDC con i gruppi armati.
• Rompere ogni eventuale legame di certi membri delle FARDC con i gruppi armati.
• Combattere la presenza dei gruppi armati nelle vicinanze dei siti minerari e dei centri commerciali.
• Incentivare il lavoro di investigazione dei servizi segreti (ANR).
• Consegnare alla giustizia le personalità militari, politiche e amministrative che appoggino in qualche modo un gruppo armato.
• Intraprendere delle procedure giudiziarie nei confronti dei membri dei gruppi armati che potrebbero aver commesso delle violazioni dei diritti umani.
• Prevenire eventuali incidenti e intervenire tempestivamente qualora non si fosse riusciti ad evitarli.
• Vigilare su una corretta interpretazione ed applicazione della legge relativa all’amnistia.
• Escludere ogni tipo di reintegrazione nelle FARDC dei membri dei gruppi armati che si arrendono e favorire, invece, il loro reinserimento sociale.
• Intensificare la pressione sui Paesi (Ruanda, Uganda e Burundi) da cui provengono i gruppi armati stranieri (FDLR, ADL, FNL) affinché, attraverso il dialogo e la negoziazione, creino le condizioni che facilitino il loro rimpatrio.