INDICE
EDITORIALE: Gruppi armati, una questione ancora tutta aperta
1. VERSO LA RELOCALIZZAZIONE DELLE FDLR
2. L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE SULL’AMNISTIA
3. GRUPPI ARMATI ANCORA IN ATTIVITÀ
4. IL RAPPORTO INTERMEDIO DEL GRUPPO DEGLI ESPERTI DELL’ONU
a. Gruppi armati: Le Forze Democratiche Alleate (ADF), le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), il Movimento del 23 marzo (M23)
b. La questione delle risorse naturali
1. VERSO LA RELOCALIZZAZIONE DELLE FDLR
Il 15 luglio, il Vice Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite e incaricato delle operazioni militari nell’est della RDCongo, il generale Wafy Abdallah, ha affermato che «il governo congolese ha deciso di utilizzare un vecchio campo militare, il Centro Tecnico Battaglioni (CTB) di Kisangani, come centro di delocalizzazione temporanea di tutti i combattenti delle FDLR e dei loro familiari provenienti dal Nord Kivu e dal Sud Kivu». Egli ha precisato che «il governo congolese considera Kisangani come luogo di transito e non come una destinazione finale delle FDLR. Kisangani non sarà una destinazione finale, ma una destinazione provvisoria, in attesa del loro rimpatrio in Ruanda o del loro trasferimento in altri paesi terzi disposti ad accoglierli».
In un primo momento, il governo congolese aveva annunciato la delocalizzazione provvisoria dei combattenti delle FDLR a Irebu, nella provincia dell’Equateur, ma i deputati di questa provincia vi si sono opposti. D’altra parte, anche i deputati nazionali della Provincia Orientale, di cui Kisangani è capoluogo, si stanno opponendo alla delocalizzazione dei membri delle FDLR nella loro zona. In una dichiarazione del 14 luglio divulgata a Kinshasa, essi accennano a “ragioni di sicurezza” per giustificare la loro opposizione. I deputati della Provincia Orientale chiedono al governo e alla comunità internazionale di rimpatriarli direttamente nel loro paese, il Ruanda.[1]
Il 19 luglio, il governo congolese ha noleggiato un Boeing 727 per il trasporto dei ribelli ruandesi delle FDLR dal loro attuale centro di acquartieramento di Walungu, nel Sud Kivu, a quello di Kisangani, nella Provincia Orientale. All’aeroporto di Kavumu, a Bukavu, il Boeing 727 noleggiato dal governo congolese e rifornito di carburante dalla Monusco era in attesa sin dal mattino. La Monusco aveva inviato dei camion a Walungu, per trasportarli all’aeroporto, a 80 km circa di distanza. Tuttavia, i combattenti FDLR hanno fatto sapere che non lasceranno il sito di Walungu senza il permesso della loro gerarchia e hanno chiesto di inviare dapprima una loro delegazione sul luogo di delocalizzazione a Kisangani per verificarne le condizioni. Una delegazione del governo provinciale è stata inviata a Walungu per trovare un punto d’intesa ma, nel primo pomeriggio, non era ancora stata trovata nessuna soluzione. Secondo fonti attendibili, il trasferimento da Walungu a Kisangani degli 83 combattenti FDLR e dei loro 230 familiari doveva effettuarsi in due rotazioni aeree, ciascuna di 150 persone circa.[2]
Il 21 luglio, una commissione congiunta composta da delegati della Monusco, del governo congolese e delle FDLR dovrebbe recarsi a Kisangani (Provincia Orientale) per visitare il sito in cui saranno ospitati gli ex ribelli ruandesi che hanno volontariamente deposto le armi. La decisione è stata presa il 19 luglio, in una riunione che si è tenuta a Bukavu e cui hanno partecipato i rappresentanti di tutte le organizzazioni coinvolte in questo processo.[3]
2. L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE SULL’AMNISTIA
Il 9 luglio, nel corso di una conferenza stampa a Kinshasa, il portavoce del governo congolese, Lambert Mende, ha rivelato i nomi di 315 nuovi beneficiari della legge sull’amnistia. Essi appartengono a otto gruppi, tra cui quello che ha attaccato la città di Kinshasa il 27 febbraio 2011, l’ARP di Faustin Munene e le Pecore di Gerico d’Honoré Ngbanda. Tra gli amnistiati, anche sessantotto ex combattenti del Movimento del 23 marzo (M23) che si trovano in un campo profughi in Uganda, e 154 combattenti Bakata Katanga.
Le autorità delle prigioni di Makala e di Ndolo, a Kinshasa, hanno confermato che oltre un centinaio di persone che hanno beneficiato dell’amnistia sono state rilasciate.
Questa è la quarta ondata di persone amnistiate, dopo la promulgazione della legge sull’amnistia nel mese di febbraio scorso. L’amnistia copre atti di insurrezione, atti di guerra e infrazioni politiche e riguarda il periodo compreso dal 18 febbraio 2006 al 20 dicembre 2013.
L’emanazione di questa legge è uno degli impegni che il governo aveva assunto al momento della firma della Dichiarazione che aveva marcato la fine dei colloqui di Kampala con i ribelli del M23.[4]
Tra i 315 nuovi amnistiati, 68 sono membri dell’ex M23. Questo porta a un centinaio il numero di ex-ribelli del M23 amnistiati dopo la promulgazione della legge sull’amnistia nel mese di febbraio, ma per il M23 ciò non è sufficiente. Per l’ex movimento ribelle, Kinshasa non sta rispettando che l’1 % degli impegni assunti nella dichiarazione di Nairobi che ha posto fine al conflitto tra l’esercito e i ribelli lo scorso dicembre.
René Abandi, membro del M23 e responsabile del comitato di controllo sull’attuazione della dichiarazione di Nairobi, afferma: «In primo luogo, l’amnistia non era sottoposta a condizioni, ora la concedono come e quando vogliono. In linea di principio, l’amnistia dovrebbe essere concessa per poter rientrare in RDCongo e cominciare a risolvere il conflitto. Si tratta della pace a breve e a lungo termine. Il M23 doveva essere trasformato in un partito politico con il diritto di cambiare eventualmente nome. Poi si sarebbe dovuto istituire alcune commissioni per risolvere una serie di questioni: una commissione di riconciliazione, una commissione per il ritorno dei rifugiati, una commissione d’inchiesta sulle stragi commesse, una commissione per la restituzione dei beni saccheggiati. Ora, sette mesi dopo, si dovrebbe valutare quanto è stato fatto. Ma nulla di tutto ciò è stato fatto».
Il suo “omologo” per il governo riconosce che un centinaio di ex combattenti amnistiati su alcune migliaia, è poco. Ma per lui, è normale che questa processo di concessione dell’amnistia richieda del tempo. François Mwamba, membro della delegazione del governo congolese nelle discussioni con il M23, ha dichiarato: «La maggior parte degli ex-combattenti del M23 non si trova in Congo, ma all’estero. C’è voluto del tempo per avviare le discussioni con l’Uganda e il Ruanda, affinché il governo potesse accedere a questi ex combattenti, per consentire loro di poter inoltrare personalmente la richiesta di amnistia, dal momento che tale richiesta è individuale. È stato fatto per l’Uganda. In un primo momento, con il Ruanda ci sono state alcune difficoltà, ma lo si farà nei prossimi giorni».[5]
Dal 17 luglio, una ventina di esperti della RDCongo e dell’Onu si trovano in Ruanda per incontrare le autorità ruandesi e iniziare l’identificazione degli ex ribelli congolesi del M23, rifugiati in due accampamenti vicino a Kigali. Obiettivo: organizzare il loro ritorno nella RDCongo e la loro possibile amnistia. Dopo un primo viaggio fallito lo scorso giugno, questa volta sembra che le cose stiano andando meglio.
Il 18 luglio, 373 ex ribelli del M23 sono stati identificati nel campo di Ngoma, non lontano da Kigali. Questa cifra è nettamente inferiore a quella finora annunciata dal Ruanda che riferiva di quasi 700 ex ribelli rifugiati in questo solo campo. Tutti hanno firmato un documento ufficiale in cui si impegnano a non riprendere le armi. Questo è il primo passo per poter usufruire dell’amnistia offerta dalle autorità congolesi a coloro che non sono oggetto di sanzioni internazionali e che non si sono resi colpevoli di crimini contro l’umanità.
Il 19 luglio, la delegazione, composta da esperti dei servizi segreti, della polizia, dell’esercito e dell’ONU dovrebbe recarsi in un secondo campo in cui si troverebbero altri 90 ex ribelli del M23.
Dopo l’identificazione seguirà la tappa della verifica per poter decidere chi di questi ex ribelli potrà usufruire dell’amnistia o meno. Infine, il governo congolese non prevede alcuna loro integrazione nell’esercito. Tutto ciò potrebbe causare la defezione di alcuni ex ribelli. Infatti, alcuni elementi oggetto di sanzioni internazionali hanno già tentato di incitare i loro colleghi a non chiedere l’amnistia.[6]
3. GRUPPI ARMATI ANCORA IN ATTIVITÀ
Il 6 luglio, il presidente della società civile di Kalehe, Desiré Majagi, ha denunciato l’esistenza di quattro gruppi armati in due raggruppamenti di questo territorio del Sud Kivu. Desiré Majagi ha affermato che, nel raggruppamento di Kalonge, ci sono tre gruppi armati operativi, tra cui i Raïa Mutomboki, l’Esercito Rosso e i Maï-Maï Ntakaba. Un quarto gruppo armato, i Raïa Atashinda, si starebbe formando nel raggruppamento di Bunyakiri, guidato da un colonnello non ben identificato.
Secondo Désiré Majagi tutti questi gruppi armati non cercano che di essere riconosciuti dal governo congolese. La società civile chiede al governo di rafforzare le proprie truppe sul territorio.[7]
Nella notte tra il 7 e l’8 luglio, due persone sono state uccise e altre quattro ferite durante gli scontri tra i Maï-Maï Raïa Mutomboki e le FARDC nella località di Chifunzi, nel raggruppamento di Kalonge (Sud Kivu). Secondo il presidente della società civile di Kalehe, Desiré Majagi, più di 500 famiglie hanno abbandonato le loro case. Alcune sono alloggiate presso delle famiglie ospitanti di Rambo e di Chiminunu, altre sono state accolte in alcune località del territorio di Kabare. Il capo del raggruppamento di Kalonge, Joseph Sharangabo, ha dichiarato che la maggior parte degli sfollati si sono installati nelle aule delle scuole e nelle chiese locali, stendendo i loro materassi di paglia sul suolo. Alcuni di loro trascorrono la notte in depositi abbandonati.[8]
Durante la prima settimana di luglio, a Hombo nord, a sud del territorio di Walikale (Nord Kivu), sono stati identificati almeno 15.000 sfollati. Le autorità locali spiegano che queste persone hanno abbandonato i loro villaggi per il timore di possibili scontri tra due fazioni rivali della milizia Raïa Mutomboki. Il primo gruppo, di “Musenge”, è favorevole al processo di disarmo proposto dal governo congolese. L’altra fazione, di “Isangi”, vi è ostile. Quest’ultimo gruppo avrebbe occupato, per una settimana, la strada Musenge-Otobora. Entrambi i gruppi stanno commettendo gravi atrocità contro i civili. È per sfuggire a questi soprusi che gli abitanti del raggruppamento di Bakano hanno dovuto abbandonare i loro villaggi, per rifugiarsi a Hombo, dove ci sono le FARDC.[9]
Il 12 luglio, degli attivisti per la difesa dei diritti umani hanno dichiarato che i Maï-Maï Raia Mukombozi, guidati da un certo Maheshe, si stanno riorganizzando in sei località del raggruppamento di Mulamba, nel territorio di Walungu (Sud Kivu). Questo gruppo armato saccheggia i villaggi e sequestra delle persone. Le località in cui il gruppo si sta riorganizzando sono: Kabogoza, Lukigi, Ibanga, Kisungi, Chinda, Lubimbe e Mugoma. Maheshe Kahasha, capo della milizia Maï-Maï Raïa Mukombozi, si è arreso lo scorso 18 aprile alle FARDC. Si era arreso con quaranta dei suoi combattenti nella località di Nzibira, in territorio di Walungu). Il gruppo armato dei Raïa Mukombozi è nato in seguito a un dissenso tra i capi della milizia Maï-Maï Raïa Mutomboki nel 2012. I due gruppi si contendono il controllo di siti minerari del territorio di Shabunda.[10]
Nella notte tra il 14 e il 15 luglio, due persone sono state uccise e molte altre gravemente ferite in uno scontro tra le milizie Maï-Maï Raia Mutomboki e Maï-Maï Kirikicho, a Ziralo, a più di 80 km a sud ovest di Minova, nel Sud Kivu. Secondo il capo del raggruppamento di Ziralo, Christophe Tchandav Maunga, i Maï-Maï Kirikicho e i Maï-Maï Raia Mutomboki si scontrano frequentemente, spesso all’arma bianca. I primi attaccano il raggruppamento di Ziralo, ma sono regolarmente respinti dai secondi, originari del raggruppamento stesso.[11]
Dal 15 luglio, circa 1.200 persone sono fuggite dai frequenti scontri tra i Maï-Maï Raia Mutomboki e Kirikicho, nelle località di Bushugulu, Matutira, Bunyangungu e Charamba, nel raggruppamento di Ziralo (Sud Kivu). Secondo il presidente della società civile locale, Cikuru Butumike, queste persone si sono rifugiate nelle località di Bunje, Mianda e Tushunguti, non ancora colpite dal conflitto armato. Altre preferiscono nascondersi nella foresta, per paura di nuovi attacchi alle località che li avrebbero ospitate. Il capo del raggruppamento di Ziralo, Christophe Maunga Chanda, ha fatto notare che alcuni sfollati dormono su stuoie stese sul bordo della strada, del tutto esposti alle intemperie. Essi non hanno accesso all’acqua potabile. Per sopravvivere, mangiano manioca cruda e frutti raccolti nei campi lungo la strada. Il capo della località di Mianda, Justin Mirindulo Mihono, del raggruppamento di Ziralo, ha affermato che l’insicurezza creata dai gruppi armati Maï-Maï è conseguente alla mancanza, da tre anni, delle FARDC, della polizia, dei servizi dell’Agenzia Nazionale d’Intelligence (ANR) e di altre autorità locali. Egli ha inoltre detto che i Maï-Maï hanno ucciso otto persone in sette mesi e provocato la fuga di oltre 6.500 persone. Per questo, ha chiesto il dispiegamento delle FARDC anche in questa zona.[12]
Il 20 luglio, l’esercito congolese si sarebbe scontrato con dei miliziani Maï-Maï Yakutumba nelle località di Lusombe e Kasaka, nel territorio di Fizi (Sud Kivu). Fonti locali indicano che, in seguito ai combattimenti, la milizia avrebbe preso il controllo di due posizioni delle FARDC situate in queste due località sul Lago Tanganica. Fonti locali hanno riferito che i combattenti Maï-Maï hanno lanciato l’attacco da sette piroghe a motore munite di mitragliatrici. Altre fonti indicano che i soldati congolesi mancano di mezzi adeguate per far fronte ai ripetuti attacchi della milizia.
Da parte loro, fonti militari locali affermano che, nei giorni precedenti, nessun combattimento ha avuto luogo nelle località di Lusombe e Kasaka. Il comandante della 10ª regione militare, il Generale Pacifique Masunzu, aggiunge che dei Maï-Maï Yakutumba sono invece fuggiti, in seguito all’avanzamento delle FARDC in questa parte del territorio di Fizi. Egli ha anche affermato che un miliziano di questo gruppo armato è stato recentemente catturato.[13]
4. IL RAPPORTO INTERMEDIO DEL GRUPPO DEGLI ESPERTI DELL’ONU
È stato reso pubblico il rapporto intermedio del nuovo gruppo di esperti delle Nazioni Unite, il cui mandato è stato rinnovato nel mese di marzo. Questo rapporto si concentra su tre gruppi armati, i ribelli ugandesi delle Forze Democratiche Alleate (ADF-Nalu), i ribelli hutu ruandesi delle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR) e il Movimento del 23 marzo (M23), i cui membri sono fuggiti in Ruanda e in Uganda. Un quarto capitolo è dedicato alle risorse naturali.
Le Forze Democratiche Alleate (ADF)
Il gruppo degli esperti ha visitato i campi base delle ADF-Nalu ripresi dall’esercito congolese fin dall’inizio della sua offensiva nel mese di gennaio 2014. Ha raccolto centinaia di pagine di documenti e di registrazione audio. Due conclusioni: in primo luogo, contrariamente a quanto è stato detto dai loro predecessori, i nuovi esperti delle Nazioni Unite non hanno trovato alcun legame tra le ADF-Nalu e al-Qaeda o i Shebab, né alcuna traccia di un loro eventuale appoggio. Il gruppo ritiene che, nonostante le operazioni militari condotto contro di loro dalle FARDC, la catena di comando e di controllo delle ADF rimane ancora intatta. Essa potrebbe quindi riorganizzarsi, come è avvenuto dopo le operazioni precedenti, nel 2010. Eppure, secondo l’esercito congolese, ci sono stati dei violenti combattimenti. Secondo fonti militari, tra gennaio e maggio 2014, 217 soldati congolesi sono stati uccisi e 416 feriti. Dal lato delle ADF, nello stesso periodo, ne sarebbero stati uccisi 531. Il gruppo ha trovato prove di combattimenti nelle ex posizioni delle ADF, ma non ha visto che quaranta tombe di presunti combattenti ADF. Questa constatazione differisce dalle dichiarazioni del generale Bahuma, comandante dell’8ª regione militare delle FARDC, che parla di 300 combattenti ADF uccisi unicamente durante l’assalto al campo di Madina.
Inoltre, il gruppo ha potuto constatare che sono pochissimi i membri delle ADF fatti prigionieri dalle FARDC, poche le liberazioni di ostaggi sequestrati dalle ADF e quasi nulle le tracce di feriti.
Da quando è iniziata l’operazione Sukola I, in gennaio 2014, il numero di persone che sono state sequestrate dalle ADF è notevolmente aumentato. Il numero complessivo delle persone sequestrate sarebbe compreso tra le 600 e le 1.000. Il gruppo non ha potuto ottenere documenti comprovanti queste cifre. Ha ottenuto solo due documenti redatti da organizzazioni locali e contenenti le liste delle persone che sono stati rapite dalle ADF: una lista di 350 nomi, un’altra di 102. Il Gruppo ha potuto vedere la carta d’identità di un membro di Medici Senza Frontiere (MSF), rapito nel luglio 2013 a Kamango. Le FARDC hanno riferito al gruppo che la carta d’identità era stata ritrovata nel campo di Madina, sede di Jamil Mukulu, capo militare delle ADF.
Secondo il gruppo di esperti, nessuno ha tentato di verificare la veracità dei presunti sequestri, né il numero delle vittime, di coloro che sarebbero ritornati a casa o di coloro che avrebbero aderito alle ADF. Come indicato in precedenza, il numero dei sequestri segnalati è 2-3 volte maggiore del numero delle persone elencate sulle liste delle presunte vittime.
Sugli ordigni esplosivi ritrovati nei campi delle ADF, il gruppo osserva che essi sono poco sofisticati, il che non conferma l’ipotesi di un trasferimento di competenze e di tecniche da altri gruppi come al-Qaeda o il Shebab alle ADF/Nalu.
L’immagine generale delle ADF che emerge dagli elementi fino ad oggi ritrovati è quella di uno Stato islamico multilingue all’interno dello Stato che, localizzato nelle foreste del territorio Beni, cerca più di preservare la sua esistenza che di estendere il suo potere oltre una zona geografica relativamente limitata. Le ADF gestivano diversi campi, che non erano altro che villaggi collegati tra loro da una rete di sentieri. Secondo il gruppo, il campo di Madina avrebbe ospitato 500-700 persone prima dell’inizio delle operazioni militari, mentre nel campo AKBG vivevano forse meno di 100 persone.
L’ispezione effettuata dal gruppo di esperti negli ex campi delle ADF e l’analisi dei documenti ritrovati hanno permesso di mettere in evidenza una struttura organizzata in dipartimenti. Le ADF assicuravano il funzionamento di tre centri sanitari (dispensari), disponevano di un loro apparato giudiziario e carcerario e gestivano delle scuole in cui si davano corsi per i ragazzi, i giovani e gli adulti. Anche se alcuni documenti contengono istruzioni o direttive militari, il gruppo di esperti non ha identificato documenti relativi alla fabbricazione o all’uso di ordigni esplosivi o a legami con gruppi terroristici stranieri, come al-Qaeda o i Shebab.
Infine, crimini o attacchi i cui autori non sono potuti essere identificati sono, a volte, attribuiti alle ADF. È successo quando le ADF sono state accusate dell’assassinio del colonnello congolese delle FARDC, Mamadou Ndala, ucciso il 2 gennaio 2014 in un agguato nei pressi di Beni. Successivamente, gli ufficiali delle FARDC e le autorità locali hanno ammesso che tale assassinio era stato commesso da altre persone, tra cui, forse, alcuni militari dello stesso esercito.
Il gruppo di esperti ritiene che le accuse portate contro le ADF non sono attualmente oggetto di analisi critica e indipendente e che, in queste circostanze, dichiarazioni infondate o non verificate fatte sui loro alleati, sulle loro attività, sulla loro capacità o sui loro progetti, potrebbero portare a delle decisioni inefficaci e sbagliate sul piano strategico e operativo.
Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR)
Secondo il rapporto, nonostante che la Monusco sia pronta ad intraprendere un’operazione militare contro le FDLR, il governo congolese non ha ancora autorizzato un’operazione su vasta scala.
Nei primi mesi del 2014, sono continuate le diserzioni, ma anche il reclutamento di nuovi membri.
Da gennaio ad aprile 2014, 165 combattenti delle FDLR, tra cui 89 stranieri e 76 congolesi, hanno partecipato al programma di disarmo, smobilitazione, rimpatrio, riabilitazione e reintegrazione della Monusco.
Tuttavia, sei ex combattenti delle FDLR e fonti della Monusco hanno riferito al gruppo che, nello stesso periodo, le FDLR avevano continuato a reclutare nuovi combattenti, compresi dei bambini. Il gruppo di esperti ritiene che i combattenti delle FDLR siano ancora 1.500 circa.
Nei primi mesi del 2014, le FDLR hanno reintegrato nelle loro fila anche due loro alti ufficiali che avevano occupato un posto importante nella gerarchia del gruppo. Il primo, il “tenente colonnello” Ferdinand Nsengiyumva, capo delle operazioni militari delle FDLR nel Sud Kivu, di cui il rapporto finale dell’equipe precedente aveva annunciato l’arresto da parte delle FARDC nel settembre 2013, è evaso dal carcere all’inizio di marzo. Il secondo, il “colonnello” Hamada Habimana, comandante del settore del Sud Kivu, di cui il rapporto precedente aveva menzionato la diserzione nel novembre 2013, è rientrato nelle FDLR nel mese di marzo.
Il gruppo di esperti si è incontrato con sette ex combattenti delle FDLR che hanno insistito sul fatto che i loro comandanti continuavano a dire che l’obiettivo delle FDLR era quello di attaccare il Ruanda. Solo uno dei sette disertori intervistati dal Gruppo sapeva che le FDLR avevano intenzione di negoziare con il governo del Ruanda.
Le FDLR possono affermare la loro volontà di deporre le armi, ma i loro capi rifiutano di partecipare al programma di disarmo, smobilitazione, rimpatrio, riabilitazione e reinserimento o di consegnare le loro armi alla Monusco. Il gruppo di esperti ha ottenuto una e-mail di Victor Byiringiro, datata del 23 febbraio 2014, in cui si affermava che le FDLR avevano rifiutato di mettersi in contatto con la Monusco per consegnare le armi ed acquartierare i loro
combattenti, come aveva chiesto il governo congolese. Secondo questa e-mail, le FDLR consegnerebbero le armi solo se il governo ruandese accettasse di impegnarsi in un dialogo politico con loro.
Per mobilitare il sostegno internazionale e costringere così il governo ruandese a negoziare con loro, le FDLR hanno progressivamente stabilito dei legami formali con i partiti di opposizione ruandesi con sede in Belgio e in Ruanda.
Il 1° luglio 2012, le FDLR e il Partito Social Imberakuri (PS Imberakuri), che fa parte dell’opposizione ruandese, hanno formato un’alleanza denominata “FCLR-Ubumwe” (Fronte comune per la Liberazione del Ruanda e dei Ruandesi).
Secondo un comunicato stampa congiunto emesso il 12 gennaio 2014, il Presidente del FCLR-Ubumwe è Victor Byiringiro e il Vice Presidente è Alexis Bakunzibake, che è il vice presidente senior del PS Imberakuri. Se l’obiettivo dichiarato è quello di ottenere un cambiamento pacifico del potere in Ruanda, il comunicato precisa che la mancanza di reazione da parte della comunità internazionale di fronte alla tragica situazione del Paese, l’alleanza non avrà altra scelta che utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione.
L’8 Novembre 2013, il PS Imberakuri e il RDI-Rwiza Ruanda (Initiativa del sogno ruandese), un partito di opposizione guidato dall’ex primo ministro ruandese, Faustin Twagiramungu, ha rilasciato una dichiarazione congiunta a sostegno delle FDLR, in cui esprimevano la loro preoccupazione per le operazioni militari che si stavano preparando contro le FDLR, ribadivano la legittimità della lotta delle FDLR e di altre forze politiche ruandesi, a favore del ritorno di tutti i ruandesi in esilio nel loro paese, in condizioni accettabili, compresa l’apertura di uno spazio politico pluralistico sotto il segno della libertà di espressione e del rispetto dei diritti umani, e chiedevano di cercare immediatamente una soluzione al problema dei rifugiati ruandesi nella RDCongo.
Una serie di consultazioni organizzate nei primi mesi del 2014 a Bruxelles si è conclusa, il 1° marzo, con la creazione di una “Coalizione dei partiti politici ruandesi per il cambiamento”. Questa alleanza tra la RDI-Rwanda Rwiza, il FCLR-Ubumwe e l’Unione Democratica Ruandese (UDR-RDU), ha come obiettivo dichiarato di fare pressione sul governo ruandese, affinché accetti di negoziare sulla questione dei rifugiati ruandesi residenti nella RDCongo. Secondo un comunicato stampa, l’idea di unire tutti i partiti ruandesi dell’opposizione in una stessa coalizione è un’iniziativa promossa dall’UDR-RDU, partito creato il 14 febbraio 2014 da Paulin Murayi, ex direttore dell’antenna belga del Congresso Nazionale del Ruanda, e di sua moglie Winnie Kabuga, figlia di Félicien Kabuga. Il comunicato stampa è stato firmato da Victor Byiringiro per le FDLR, da Faustin Twagiramungu per il RDI-Rwiza Ruanda e da Paulin Murayi per l’UDR-RDU. Presidente della coalizione è Faustin Twagiramungu e vice presidente è un membro del FCLR-Ubumwe.
Nel suo rapporto, il precedente gruppo di esperti aveva apportato le prove d’una collaborazione, a livello locale, tra le FDLR e certi militari delle FARDC, in particolare per quanto riguarda le operazioni militari contro il M23 e la fornitura, da parte delle FARDC, di munizioni alle FDLR. In aprile e maggio 2014, sette ex combattenti delle FDLR precedentemente attivi nel Nord Kivu e nel Sud Kivu, hanno riferito al gruppo di esperti che i soldati delle FARDC hanno continuato a svolgere attività di commercio o di baratto di materiali militari, tra cui munizioni, armi e uniformi, con le FDLR. Due ex combattenti delle FDLR e due parlamentari locali hanno affermato che alcuni elementi delle FARDC cooperavano con le FDLR nella zona di Tongo. Dopo gli scontri del 9 marzo 2014 a Tongo, tra le FARDC e le FDLR, le autorità ruandesi hanno sostenuto che le FDLR erano state previamente avvertite dell’operazione da elementi delle FARDC. Tale informazione è stata confermata da un ex combattente delle FDLR di Tongo. Il gruppo di esperti continuerà a indagare sul rapporto tra le FDLR e le FARDC.
Il Movimento del 23 marzo (M23)
Nel suo rapporto intermedio, il gruppo di esperti dell’Onu sulla RDCongo si è detto preoccupato della lentezza dei pochi progressi fatti nell’affrontare il problema dell’ex Movimento del 23 marzo (ex M23), i cui membri, dopo la sconfitta, erano fuggiti in Ruanda (marzo 2013) e in Uganda (novembre 2013). Molti sono i ritardi accumulati nell’attuazione delle dichiarazioni di Nairobi firmate dal M23 e dal governo congolese il 12 dicembre 2013. Infatti, il processo di identificazione di disarmo e di rimpatrio degli ex combattenti dell’ex M23, che doveva iniziare in aprile, è ancora in fase di stallo. Questi ritardi rischiano di rinviare ulteriormente il rimpatrio degli ex M23 in RDCongo e ciò preoccupa le Nazioni Uniti. Infatti, il gruppo di esperti teme, che in tale situazione, l’ex ribellione possa avere il tempo per riorganizzarsi all’estero.
L’Onu si dice preoccupata anche per altri motivi, tra cui la fuga di alcuni membri dell’ex M23 dal campo di accoglienza di Ngoma in Ruanda. Il gruppo di esperti ritiene che almeno 48 ex-combattenti del M23 siano fuggiti dal campo entro fine 2013 e inizio 2014.
L’ONU non sa nemmeno il numero esatto degli ex M23, né in Ruanda, né in Uganda.
Per quanto riguarda quelli dell’Uganda, secondo il rapporto, il loro numero è fluttuante. Alla fine di novembre 2013, il governo ugandese aveva segnalato la presenza di 1.445 ex ribelli sul suo suolo. Ma, secondo un rapporto del meccanismo congiunto di verifica, il 20 novembre 2013 le forze armate ugandesi avevano dichiarato di ospitarne 1.375, tra cui 52 bambini. I bambini sono stati poi separati dagli adulti, riducendo ulteriormente il numero degli ex combattenti a 1.323, senza contare il “generale” Sultani Makenga e il “Colonnello” Innocent Kaina. Infine, il conteggio fatto in dicembre dal meccanismo congiunto di verifica aveva registrato 1.302 ex combattenti, tra cui 17 donne.
L’incertezza circa gli attuali effettivi del M23 è in parte spiegata dal fatto che i capi del M23 sono stati autorizzati a redigere loro stessi le liste. Il Gruppo ha ottenuto due liste d’appello del M23: una, redatta prima del 3 febbraio 2014 e un’altra, annunciata nel mese di aprile dalle forze armate ugandesi. Queste ultime hanno informato il gruppo che le due liste sono state redatte dallo stesso M23 ma che, in entrambi i casi, l’appello era stato fatto alla presenza di ufficiali ugandesi. In entrambi gli elenchi, il M23 ha affermato di essere costituito da tre battaglioni e da un’unità di stato maggiore.
Tuttavia, il gruppo di esperti ha notato alcune differenze notevoli tra la lista di febbraio rispetto a quella del mese di aprile. In primo luogo, l’elenco di febbraio conteneva 1.325 nomi, mentre quello d’aprile ne conteneva 1.343. Tra i nuovi nomi entranti nella lista d’aprile, ci sono quattro “Luogotenenti Colonnelli”: Mugabo Damassène, Shaba Ndombi Georges, Ibrahim Rwagati e Kikuni Butembezi.
In secondo luogo, anche se si potrebbe pensare che alla lista siano state aggiunte solo 18 persone, in realtà, la cifra addizionale è superiore perché, da febbraio ad aprile, alcune persone sono sparite dalla lista. Il gruppo ha constatato che 23 dei 157 nomi che figuravano sulla lista dell’unità di stato maggiore di febbraio, non apparivano più sulla lista del mese di aprile. È stato inoltre accertato che, all’unità di stato maggiore, sono stati aggiunti 39 nomi, portando così a 173 il numero dei nomi iscritti sulla lista del mese di aprile, e che 30 dei 39 nomi aggiunti non apparivano sulla lista di febbraio. Gli altri 9 nomi apparivano già sulla lista di febbraio, ma in altri battaglioni
Il Gruppo ha rilevato altre anomalie nelle liste di febbraio e aprile. Il “Colonnello” Antoine Manzi, capo dei servizi segreti del M23, appare su entrambe le liste come ufficiale, ma è iscritto, senza menzione di categoria, anche sulla lista dei capi politici del Movimento a Kampala. Il gruppo di esperti ha pure constatato, non senza preoccupazione, che anche due ufficiali di rilievo, il “maggiore” Fred Ngenzi Kagorora e il “tenente colonnello” Castro Mberagabo Mbera non compaiano su nessuna delle due liste.
Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, il M23 ha riorganizzato la sua struttura e spostato alcuni dei suoi soldati e ufficiali, soprattutto a livello dello stato maggiore. L’Onu si chiede chi ha dato gli ordini e qual era lo scopo di una tale riorganizzazione, nel contesto di un imminente ritorno dell’ex M23 in RDCongo.
Fine di dicembre 2013, le autorità ugandesi hanno trasferito gli ex combattenti M23 in un centro di formazione per le forze armate ugandesi situato a Bihanga, ma, su questo sito, possono muoversi liberamente, dentro e fuori dal campo.
Se la maggior parte degli ex-combattenti del M23 sono ormai a Bihanga e alcuni in un ospedale militare di Bombo, certi ufficiali e responsabili politici del M23 resiedono a Kampala. Secondo le autorità ugandesi, gli individui soggetti a sanzioni, come Sultani Makenga e Innocent Kaina, vivono a Kampala. Secondo il rapporto redatto nel dicembre 2013 dal Meccanismo congiunto di verifica, le autorità ugandesi hanno voluto allontanare Sultani Makenga dalle sue truppe, per privarlo del comando e del controllo sui suoi soldati e ufficiali. Anche se le autorità ugandesi hanno informato il gruppo che Sultani Makenga e Innocent Kaina sono stati privati della loro libertà di movimento, degli ufficiali vicini a Makenga, come Mberagabo Mbera Castro, per esempio, si possono muovere liberamente.
Il gruppo di esperti si dice preoccupato per la libertà di movimento di cui attualmente godono i membri del M23 in Uganda, tenendo conto dei cambiamenti apportati agli effettivi e alla composizione delle diverse unità.
La questione delle risorse naturali
Il Meccanismo regionale di certificazione istituito dalla Conferenza Internazionale per la Regione dei Grandi Laghi (CIRGL) intende incentivare, tra i diversi Paesi della regione, una concezione comune del dovere di diligenza da applicare alla catena di approvvigionamento della cassiterite, dell’oro, del coltan e della wolframite. Il Meccanismo regionale di certificazione obbliga gli Stati ad effettuare delle ispezioni nelle miniere, a garantire che la catena di tracciabilità sia correttamente gestita, a certificare il contenuto delle spedizioni di minerale destinati all’esportazione e a comunicare al segretariato della Conferenza le informazioni di cui dispone.
La RDCongo ha avviato il suo programma di certificazione il 20 gennaio 2014. Il Ruanda ha rilasciato il primo certificato il 5 novembre 2013. Nella RDCongo, il certificato rilasciato dalla Conferenza sostituisce ora i vecchi “certificati di origine”. Da febbraio fino a metà maggio 2014, nella provincia del Sud Kivu, sono stati emessi quattro certificati per le esportazioni di cassiterite dalla miniera di Kalimbi.
Questi certificati sono stati rilasciati a due società: la Willem Minerals Company (precedentemente conosciuta sotto il nome di World Mining Company), che ha esportato tre carichi verso il Lussemburgo, e la Bakulikira Nguma, che ha esportato un carico verso la Malesia. Nel Nord Kivu, il Governo ha emesso due certificati alla Mwangachuchu Hizi Internazional, entrambi per l’esportazione di 24.750 kg di coltan da Rubaya a Hong Kong. Il 20 maggio 2014, il governo ruandese ha informato il gruppo che, dal novembre 2013, aveva rilasciato 15 certificati.
In generale, nonostante i progressi compiuti nell’emissione di certificati, l’attuazione dell’Iniziativa regionale sulle risorse naturali procede molto lentamente.
Nel mese di aprile, il gruppo ha visitato la segreteria della Conferenza Internazionale per la Regione dei Grandi Laghi a Bujumbura, e lì ha appreso che la base regionale dei dati sul flusso dei minerali non stava rispettando il suo ruolo di monitorare e di controllare la produzione, l’acquisto e le esportazioni effettuate dagli esportatori. Il gruppo di esperti ha inoltre potuto constatare che l’ispettore accreditato dalla Conferenza non aveva ancora ispezionato le amministrazioni minerarie nazionali della RDCongo e del Ruanda.
Il gruppo di esperti ha quindi concluso che, in assenza di una verifica da parte di terzi, la segreteria della Conferenza non è in grado di affermare che i certificati rilasciati nei due paesi, la RDCono e il Ruanda, soddisfino tutti i criteri di certificazione.
Il gruppo di esperti afferma che la mancanza di progressi è dovuta sia alla debolezza strutturale della segreteria della Conferenza, sia alla mancanza di volontà politica di alcuni Stati membri e che potrebbe permettere ai contrabbandieri di continuare i loro scambi commerciali con i paesi vicini.
Per quanto riguarda l’omologazione dei siti minerari, il governo della RDCongo utilizza il sistema di classificazione per colore, definito nei documenti d’orientazione dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e del meccanismo regionale di certificazione. Questo sistema prevede che solo alle miniere “verdi”, che ottemperano all’insieme delle norme internazionali, comprese quelle che vietano la presenza di gruppi armati, il lavoro minorile e il lavoro delle donne in gravidanza, può essere rilasciato un certificato che le autorizza ad esportare i
minerali estratti. Qualora vengano constatate delle infrazioni, la miniera viene catalogata come “gialla”. Le miniere “gialli” possono ancora esportare dei minerali certificati, ma devono porre rimedio alle infrazioni entro sei mesi. Le miniere “rosse”, in cui sono state individuate gravi infrazioni, non sono autorizzate ad esportare i loro minerali. Finora, nelle due province del Kivu, il governo congolese ha omologato 39 siti di estrazione di cassiterite, wolframite, coltan e oro. Tra queste 39 miniere, 25 hanno ottenuto la catalogazione Verde, 2 la catalogazione gialla, 10 la catalogazione rossa, e 2 sono ancora in attesa di catalogazione.
L’omologazione non è che una delle condizioni per ottenere l’autorizzazione ufficiale di esportazione dei minerale e dell’oro. Un altro requisito è l’esistenza di un sistema di gestione della catena di approvvigionamento.
Tuttavia, il Kivu e altre province non dispongono di questo genere di sistemi per il settore orafo. Il Gruppo ha, per esempio, constatato che, da quando sono diventati obbligatori i certificati della CIRGL, i due centri ufficiali di esportazione dell’oro del distretto dell’Ituri, “Métaux Précieux” e “Cut Congo Mining and Exploration SPRL”, non avevano potuto effettuare alcuna esportazione ufficiale, perché nessuna delle miniere artigianali d’oro della Provincia Orientale, in cui si trova il distretto dell’Ituri, non era ancora stata omologata.
Senza l’omologazione, il Centro di Valutazione, Verifica e Certificazione di sostanze preziose e semi-preziose (CEEC) non può rilasciare alcun certificato che autorizzi i centri di esportazione di esportare oro. Per i centri di esportazione, questa situazione è insostenibile e non fa che incrementare maggiormente il contrabbando verso l’Uganda.
Per gli altri minerali, come lo stagno, la cassiterite e il coltan, l’unico sistema utilizzato è il sistema di imballaggio e di etichettatura utilizzato dall’Istituto Internazionale di Ricerca sullo stagno.
Conosciuto sotto il nome di Iniziativa della catena di offerta di stagno, questo sistema ha tre componenti: l’identificazione di una catena di tracciabilità, la valutazione dei rischi e l’ispezione da parte di terzi indipendenti.
Il gruppo di esperti ha constatato che essendo questo sistema il solo a essere messo in atto, gli acquirenti non hanno altra scelta che comprare dei minerali provenienti da siti d’estrazione certificati da questa iniziativa. Le autorità del settore minerario e i rappresentanti delle società minerarie hanno fatto sapere al gruppo che vorrebbero poter scegliere tra diversi sistemi.
Quando si è recato a Rubaya, in maggio, il Gruppo non ha rilevato alcuna prova della presenza di gruppi armati e delle FARDC nei pressi dei siti minerari. I minatori e i commercianti si sono detti soddisfatti di lavorare su un sito minerario ufficiale, da cui il coltan possa essere legalmente esportato. Il volume delle esportazioni si aggirava intorno alle 9 tonnellate nel mese di febbraio ma, in marzo, quando si è avviata la procedura dell’etichettatura, è salito a 59 tonnellate ed è più che raddoppiato nel mese di aprile, raggiungendo le 129 tonnellate.
Nonostante i progressi constatati a Rubaya, il Gruppo di esperti ha individuato alcuni problemi persistenti.
Secondo il sistema di tracciabilità, su ciascun sacco di minerale si devono porre due etichette, una della miniera e una del commerciante. L’etichetta della miniera è posta sul sacco direttamente sul posto. Tuttavia, il gruppo di esperti ha osservato che dei minerali estratti nella vicina miniera di Luwowo non venivano etichettati a Luwowo, ma a Rubaya o nelle vicinanze. È quindi possibile che dei minerali provenienti da altri siti vengano mescolati con quelli prodotti a Rubaya prima dell’etichettatura. Un altro problema è che l’etichetta del commerciante è posta sul sacco non a Rubaya, ma a Goma, presso l’ufficio della Cooperamma. Anche in questo caso, è possibile che dei minerali prodotti altrove siano immessi nel lotto prima dell’etichettatura.
Il gruppo raccomanda agli Stati membri della CIRGL di presentare, mensilmente, una lista completa delle importazioni, della produzione e delle esportazioni di cassiterite, wolframite, coltan e oro alla segreteria della Conferenza, per inserirla nel suo database regionale.[14]
[1] Cf Radio Okapi, 15.07.’14
[2] Cf Radio Okapi, 19.07.’14
[3] Cf Radio Okapi, 20.07.’14
[4] Cf Radio Okapi, 09.07.’14
[5] Cf Sonia Rolley – RFI, 11.07.’14
[6] Cf Kenny Katombe – Reuters / RFI – Kinshasa, 19/07/2014 (via mediacongo.net)
[7] Cf Radio Okapi, 07.07.’14
[8] Cf Radio Okapi, 09.07.’14
[9] Cf Radio Okapi, 09.07.’14
[10] Cf Radio Okapi, 12.07.’14
[11] Cf Radio Okapi, 15.07.’14
[12] Cf Radio Okapi, 15 e 21.07.’14
[13] Cf Radio Okapi, 21.07.’14
[14] Cf http://www.un.org/french/documents/view_doc.asp?symbol=S/2014/428