Editoriale Congo Attualità n. 206– a cura della Rete Pace per il Congo
Il 12 dicembre, a Nairobi (Kenya), il governo congolese e il Movimento del 23 marzo (M23) hanno concluso i negoziati di Kampala (Uganda). L’M23 è un gruppo armato ultimamente sconfitto dall’esercito regolare nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo) e, fino all’ultimo momento, appoggiato militarmente e politicamente dal Ruanda e dall’Uganda.
Le due parti hanno firmato separatamente, ciascuna da parte sua, due dichiarazioni finali.
L’inganno di due “dichiarazioni”
Ufficialmente, non si tratta di un accordo, in quanto non si tratta di un unico documento firmato da entrambi le parti, ma di due testi indipendenti entrambi intitolati “dichiarazione”, senza mai fare allusione al termine accordo. Questa formulazione non deve, però, trarre in inganno.
Infatti, le cosiddette due “dichiarazioni” sono il risultato di un semplice smembramento, in due parti, del testo di accordo che il governo congolese aveva rifiutato di firmare l’11 novembre: una parte è confluita nella dichiarazione dell’M23 e l’altra costituisce la dichiarazione del Governo. Inoltre, il termine “accordo”, che appariva nel testo anteriore, è stato semplicemente sostituito dal termine “dichiarazione”, ma il contenuto è rimasto sempre lo stesso.
Senza alcun dubbio, si è fatto ricorso a questa strategia per cercare di evitare le giuste ed inevitabili contestazioni di un popolo decisamente contrario ad ogni tipo di accordo con un gruppo armato responsabile di molti crimini contro l’umanità e di innumerevoli violazioni dei diritti umani.
Le due dichiarazioni espongono gli impegni presi da entrambe le parti circa una serie di questioni, tra cui la rinuncia dell’M23 alla ribellione e la sua trasformazione in partito politico; l’approvazione di una legge sull’amnistia per atti di guerra e atti d’insurrezione, escludendone ogni persona accusata di crimini di guerra, atti di genocidio e crimini contro l’umanità, compresi le violenze sessuali e l’arruolamento di bambini soldato; la liberazione dei prigionieri; il disarmo, la smobilitazione e il reinserimento sociale degli ex combattenti; il ritorno dei rifugiati e degli sfollati; la riconciliazione nazionale e la giustizia; le riforme socio-economiche e, infine, le conclusioni della valutazione dell’attuazione dell’accordo del 23 marzo 2009, tra il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) e il governo congolese.
Pochi aspetti positivi e molti quelli controversi
Tra i pochi aspetti positivi, va ricordato che l’amnistia non sarà concessa in forma generale e collettiva, ma individualmente, escludendone gli autori di crimini di guerra, atti di genocidio e crimini contro l’umanità e che, in nessuna parte delle due dichiarazioni, si parla di reintegrazione degli ex combattenti dell’M23 nell’esercito nazionale, ma solo del reinserimento sociale di quelli che potranno usufruire dell’amnistia.
Molti, invece, sembrano essere gli aspetti controversi.
Si ha l’impressione che tutti gli oneri siano caduti sulle spalle del governo e che l’M23 abbia quasi solo dei diritti. Gli esempi sono molti.
Dopo la sconfitta militare dell’M23, ci si aspettava delle sanzioni nei suoi confronti: il risarcimento allo Stato per le armi sottratte all’esercito nazionale in occasione dell’occupazione della città di Goma, in novembre 2012 e per i veicoli dell’amministrazione provinciale sequestrati in quell’occasione. Ci si aspettava che i dignitari dell’M23 dovessero versare alle casse dello Stato i circa 625 milioni di franchi congolesi (più di 679.000 US $) che hanno incassato ogni mese gestendo, per oltre un anno, la dogana di Bunagana, alla frontiera con l’Uganda. Ci si aspettava, infine, che l’M23 dovesse restituire i beni saccheggiati nelle case dei privati.
Invece, è il governo che, in collaborazione con la Monusco e altri partner internazionali, deve farsi carico della logistica e del finanziamento del processo della smobilitazione e del reinserimento sociale degli ex combattenti dell’M23 e, presumibilmente, anche dei loro familiari, fornendo loro “i mezzi necessari”. L’M23 ne sarebbe solo il beneficiario.
È il governo che deve istituire una commissione per i beni espropriati, estorti, rubati, saccheggiati e distrutti, … al fine di ripristinare i legittimi proprietari nei loro diritti. Non è affatto chiaro chi siano questi “legittimi proprietari”. Forse saranno i famosi falsi “rifugiati congolesi” di dubbia nazionalità che dovranno rientrare dal Ruanda.
La contraddizione raggiunge il culmine quando il governo si impegna “portare a termine l’attuazione degli impegni presi nell’accordo del 23 marzo 2009 firmato con il CNDP”.
Il governo congolese sembra dimenticare che l’M23 è nato come conseguenza di quell’accordo, da cui prende peraltro il nome. Ritornare su quell’accordo vuol dire, quindi, legittimare l’M23 e dargli continuità. Lo dimostra il fatto che dei rappresentanti dell’M23 saranno inclusi nella struttura nazionale competente per le questioni dei rifugiati, nella commissione nazionale di riconciliazione e nella commissione nazionale per i beni espropriati, estorti, derubati, saccheggiati e distrutti. Quell’accordo stipulava l’integrazione delle truppe del CNDP nell’esercito regolare e l’impegno, da parte del governo, di portarlo a termine potrebbe rivelarsi come una scappatoia per reintegrare nell’esercito nazionale i membri dell’M23 che potranno usufruire dell’amnistia, anche se nelle due dichiarazioni non vi si fa alcuna allusione.
L’M23 si riserva addirittura il diritto di cambiare nome e di costituirsi in partito politico. È in questa prospettiva che, già attraverso le due dichiarazioni di Nairobi, l’M23 dimostra la sua pretesa di dettare al governo l’agenda della politica nazionale circa le riforme strutturali e istituzionali: la riforma dei settori della sicurezza, della pubblica amministrazione, della finanza pubblica, della giustizia e della gestione delle risorse naturali, senza dimenticare le questioni relative al decentramento e all’attribuzione alle province del 40 % delle entrate di carattere nazionale.
Situazione capovolta: perché?
Da quanto precede, si può concludere che le due dichiarazioni di Nairobi hanno semplicemente capovolto la situazione: militarmente sconfitto, l’M23 è uscito dai negoziati di Kampala politicamente vincitore e, viceversa, il governo congolese che, attraverso l’esercito, aveva liberato le zone occupate dall’M23, ne è uscito politicamente sconfitto. Ci si può chiedere perché ciò sia stato possibile e quali potrebbero esserne le cause. Una di esse è certamente una certa forma di appoggio che l’M23 continua a ricevere dalla Comunità Internazionale, nonostante essa tenti di dissimularlo.
Come gli altri movimenti che l’hanno preceduto (l’AFDL, l’RCD e il CNDP), anche l’M23 si presenta come un movimento di lotta contro la discriminazione etnica e per la difesa di una minoranza etnica (tutsi) minacciata da “genocidari” (hutu) ed etichettata di “ruandese” dalle popolazioni autoctone congolesi perché, pur rivendicando la sua identità congolese, in realtà difende gli interessi del suo Paese di origine.
È questo ritornello che, mille volte ripetuto, condiziona certi esponenti della Comunità Internazionale, tra cui l’inviato speciale degli Stati Uniti per la regione dei Grandi Laghi, Russ Feingold che, in un’intervista a Jeune Afrique, ha affermato che, secondo degli esperti della Regione dei Grandi Laghi, «alcuni gruppi etnici non si sentono a proprio agio nell’est della RDCongo. Ci si pone la questione di un’eventuale discriminazione etnica». Senza citarlo espressamente, Russ Feingold può aver fatto riferimento al gruppo etnico tutsi, divenendone come il portavoce. In realtà, l’ostentato vittimismo dell’etnia tutsi è un meccanismo di difesa per celare un evidente complesso di superiorità che è una delle “cause profonde” del conflitto nell’est della RDCongo e nella Regione dei Grandi Laghi.
Se la Comunità Internazionale vuole davvero la pace, dovrà cominciare a trattare l’etnia tutsi alla stessa stregua di tutte le altre etnie, senza cedere alle pressioni delle sue lobby, né concederle privilegi ma chiedendole, invece, di impegnarsi per una convivenza pacifica con tutte le altre etnie, nel dialogo e nella tolleranza, nel rispetto delle diversità culturali e delle leggi dello Stato.