Editoriale Congo Attualità n. 204– a cura della Rete Pace per il Congo
Ora che il progetto dell’accordo tra Kinshasa e l’M23 a Kampala è già sulla rete, si capisce perché l’11 novembre scorso, la delegazione governativa non ha voluto firmarlo, nonostante le forti pressioni degli inviati dell’ONU, dell’UE e dell’UA.
Questione di contenuti, non di semantica
Prima di tutto, il testo cita tre annessi il cui contenuto rimane ancora sconosciuto, il che è un dato per lo meno inquietante. Inoltre, dalla lettura di questo documento, ci si rende conto che non è assolutamente questione di semantica (sostituire il vocabolo “accordo” con “dichiarazione” o “conclusioni”), ma di contenuto.
Già l’articolo 1 del testo, sulla concessione dell’amnistia per atti di guerra e di insurrezione, rischia di consacrare l’impunità, in quanto non contempla il caso di coloro che ne hanno già usufruito altre volte nel passato. L’articolo 1 non si pronuncia nemmeno sulla sorte di coloro che ne sono esclusi per aver commesso «crimini di guerra, crimini di genocidio e crimini contro l’umanità, tra cui la violenza sessuale, il reclutamento di bambini soldato e altre gravi violazioni dei diritti umani». Molto stranamente, questa problematica è affrontata nell’articolo 8 su «riconciliazione nazionale e giustizia» e, più precisamente, nel paragrafo 8.3, nel contesto della Commissione di riconciliazione nazionale. Il messaggio è chiaro: in nome della riconciliazione, è necessario un colpo di spugna!
L’obiettivo che traspare dal testo è la sopravvivenza politica dell’M23, nonostante la sua sconfitta militare. Il testo proposto obbedisce alla logica di un contenzioso politico, militare, economico e sociale tra due parti collocate, ingiustamente, sullo stesso piano: il governo di uno Stato sovrano, la RDCongo, e l’M23, un gruppo armato etichettato come “forza negativa” e sottoposto ad un regime di sanzioni da parte dell’ONU. Espressioni come “le parti concordano”, “le parti convengono”, “le parti si impegnano” lo dimostrano abbondantemente. In tal modo, l’M23 è eretto a partner politico, sociale ed economico del governo congolese, un partner che deve essere associato a tutto quanto stipulato nel documento, per cui l’atteggiamento dell’M23 sarà sempre determinante nell’applicazione del contenuto del testo. Come esempio tra molti altri, si può citare l’articolo 2.4: «L’M23 si impegna ad acquartierare le sue truppe in siti appositamente autorizzati, scelti di comune accordo dalle parti, sulla base di un cronogramma di attività». Anzi, il testo lascia spesso l’iniziativa all’M23, per cui il governo non può che ottemperare ai suoi diktat, come appare nell’articolo 3.1: « … l’M23 si impegna a fornire una lista dei suoi membri prigionieri per fatti di guerra e di insurrezione» e nel paragrafo seguente 3.2: «Il Governo si impegna a liberare questi prigionieri …».
Inoltre, il testo concede all’M23 il diritto di intervenire non solo sulle questioni relative all’acquartieramento, disarmo, smobilitazione e reinserimento sociale dei suoi ex combattenti, ma anche su questioni più generali di competenza dello Stato, come la riforma dei settori della sicurezza (esercito e polizia), della pubblica amministrazione, della finanza pubblica, della giustizia e della gestione delle risorse naturali, l’attuazione del decentramento, il rimpatrio e il reinserimento sociale dei rifugiati congolesi ancora residenti all’estero, la polizia di prossimità, la riconciliazione nazionale e il finanziamento di progetti di sviluppo. Il testo prevede la partecipazione di rappresentanti dell’M23 anche nella struttura nazionale responsabile per le questioni dei rifugiati, nel Meccanismo Nazionale di Controllo sull’attuazione dell’accordo quadro di Addis Abeba, firmato il 24 febbraio 2013, nella commissione nazionale di riconciliazione e in quella relativa ai beni spogliati, estorti, rubati, saccheggiati e distrutti.
La stessa logica è estesa anche all’aspetto politico. Infatti, all’articolo 4.2, «l’M23 si riserva il diritto di cambiare nome e di diventare un partito politico, nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica Democratica del Congo». Secondo tale articolo, è l’M23 che detiene l’iniziativa e, all’articolo 4.3, il Governo congolese non può che sottostare a tale iniziativa e impegnarsi semplicemente a «rispondere favorevolmente a tale richiesta». Oltre a manifestare l’arroganza e la prepotenza dell’M23, tale articolo è semplicemente superfluo, perché la Costituzione garantisce a tutti i cittadini la libertà di unirsi in un determinato partito e fornisce pure le condizioni per il suo riconoscimento da parte dello Stato. L’arroganza e la prepotenza dell’M23 raggiungono il loro culmine all’articolo 4.4, quando «le parti convengono, in seguito alla fine dell’amministrazione da parte dell’M23 delle zone sotto suo controllo e al ripristino dell’autorità dello Stato in tali zone, di procedere a una valutazione congiunta della situazione», come se si trattasse del passaggio del potere tra due istituzioni legittime.
L’articolo 8.1, sull’istituzione di una Commissione nazionale di riconciliazione, affida a tale commissione il mandato di «lottare contro la discriminazione etnica e l’incitazione all’odio» e di «garantire l’educazione civica, per promuovere una coesistenza pacifica e comprendere meglio i diritti e i doveri di cittadinanza». Si tratta di un ritornello già molte volte ripetuto e che lascia trasparire l’atteggiamento di diffidenza e sospetto dell’M23 nei confronti del popolo congolese, presentato come tribalista, razzista, irrispettoso dei diritti e doveri di cittadinanza. Per un’ennesima volta, si assiste al capovolgimento dei termini: la vittima (il popolo congolese) diventa carnefice e il carnefice (l’M23) diventa la vittima.
L’articolo 10, stipulando che «il governo ribadisce il suo impegno per portare a termine l’attuazione degli impegni che erano stati presi nel quadro dell’accordo del 23 marzo 2009 firmato con il CNDP …», ridà forza a tale precedente accordo che ha dato origine allo stesso M23.
Una semplice dichiarazione finale
Gli inviati dell’ONU, dell’UE, dell’UA possono ora comprendere perché, l’11 novembre scorso, il Governo congolese non ha potuto firmare il famoso “accordo di pace” redatto dalla mediazione ugandese (parte e giudice nel conflitto) e da loro sostenuto e caldeggiato. Un tale accordo non avrebbe risolto il conflitto che in modo apparente, perché è esso stesso portatore di “germi di conflitto”. Concepito come accordo, il testo permette all’ala politica dell’M23 di poter sopravvivere come nuovo partito politico, sempre pronto ad impugnare eventuali ritardi o divergenze, per contestare e influenzare costantemente l’azione del governo ed, eventualmente, ritornare alle armi, come è già successo con il CNDP, suo progenitore. Essendo l’ala politica l’altra faccia della medaglia dell’ala militare, il loro destino non potrà che essere lo stesso.
La conclusione dei cosiddetti negoziati di pace di Kampala potrebbe essere una dichiarazione finale in cui, in seguito ad una sconfitta sul piano militare, si prende atto della fine dell’M23 non solo come gruppo armato, ma anche come movimento politico-militare e se ne traggono le conseguenze: l’identificazione dei membri dell’ex M23, il loro disarmo, il rimpatrio di quelli congolesi fuggiti in Ruanda e in Uganda, l’acquartieramento in siti appositamente allestiti, l’approvazione di una legge sull’amnistia per fatti di guerra e insurrezione e il reinserimento sociale di coloro che ne potranno usufruire.
In seguito a tale dichiarazione finale, si potranno avviare procedure giudiziarie (emissione e attuazione di mandati di arresto nazionali e internazionali) nei confronti di quanti sarebbero esclusi dall’amnistia per aver commesso crimini di guerra, crimini di genocidio e crimini contro l’umanità. La giustizia meriterebbe un’attenzione particolare, perché è proprio l’impunità che ha permesso tanta violenza contro la popolazione civile, attraverso la creazione di continue “ribellioni” e di gruppi armati.
Se si prendono in considerazione le informazioni fornite dal Generale Bauma Ambamba, comandante della regione militare del Nord Kivu, dal 20 maggio al 5 novembre, tra le file dell’M23, ci sono stati 715 morti e 543 catturati o arresi, tra cui 72 Ruandesi e 28 Ugandesi. In Ruanda ce ne sono altri 600 fuggiti nel mese di aprile e circa 100 feriti. Il totale parziale è, quindi, di 1958 membri. Considerando che, secondo varie fonti concordanti, l’M23 abbia raggiunto un massimo di 2.000 – 2.500 militari, ne consegue che quelli ultimamente fuggiti in Uganda non sarebbero che poche centinaia.
Se l’ONU, l’UE e l’UA avessero un minimo di volontà politica per impedire la nefasta ingerenza dei regimi del Ruanda e dell’Uganda nella vita nazionale della RDCongo, diventerebbe molto semplice risolvere la questione di poco più di un migliaio di “cosiddetti ribelli” dell’M23.