Editoriale Congo Attualità n. 197 – a cura della Rete Pace per il Congo
Parole, parole, parole ….
Una delegazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è recata recentemente nella Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), in Ruanda e in Uganda. Al centro degli incontri, l’insicurezza provocata nel Nord-Kivu dai vari gruppi armati ancora attivi, tra cui soprattutto il Movimento del 23 marzo (M23), un gruppo armato appoggiato militarmente dal Ruanda e dall’Uganda.
A Goma, capoluogo del Nord-Kivu, la delegazione del Consiglio di sicurezza ha dichiarato che una soluzione militare, da sola, non risolverà completamente il conflitto tra il governo congolese e la ribellione dell’M23. Secondo la delegazione, l’attuale crisi causata dall’M23 non ha alcuna “soluzione militare” e sarà risolta solo per “via politica“. La delegazione ha fatto qui riferimento ai negoziati in corso a Kampala tra il governo congolese e l’M23, auspicandone una rapida conclusione mediante un accordo politico.
I negoziati di Kampala a un punto morto.
Tali negoziati erano ripresi il 10 settembre scorso e avrebbero dovuto concludersi entro quattordici giorni, ma si trovano ora in un punto morto. Sono tre i punti attualmente in discussione: la questione di un’eventuale amnistia per i membri dell’M23, quella relativa ad un’eventuale reintegrazione dei militari dell’M23 nell’esercito regolare e quella su un eventuale reinserimento dei dirigenti politici dell’M23 nelle Istituzioni politiche a livello nazionale e provinciale. La delegazione del governo ha presentato una lista di un’ottantina di ufficiali militari dell’M23 esclusi da ogni possibilità di amnistia e di reintegrazione nell’esercito regolare, perché recidivi o ricercati dalla giustizia congolese e internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una seconda lista riporta i nomi di una ventina di personalità politiche dell’M23 che non possono essere reintegrate nella vita politica del Paese per gli stessi motivi.
L’ambiguità internazionale.
Da parte sua, la comunità internazionale e l’Onu stessa affermano che non si possono reintegrare nell’esercito regolare e nella vita politica delle persone ricercate dalla giustizia. È a questo punto che la comunità internazionale e l’Onu sembrano contraddirsi o, per lo meno, dimostrano tutta la loro ambiguità, perché sembrano volere una cosa e proporre esattamente l’opposto.
È difficile, infatti, comprendere ciò che esse intendono dire quando propongono una “soluzione politica” al conflitto. Intendono forse un compromesso tra l’M23 e il governo congolese sulle liste presentate da quest’ultimo? Intendono forse un loro dimezzamento? In tal caso, quali nomi mantenere e quali omettere sulle due liste? Ne uscirebbe di certo un pasticcio che porterebbe in sé i germi di una prossima e sicura ribellione.
La “via politica” sta dimostrando tutti i suoi limiti, soprattutto quando l’M23 ha adottato la strategia della distrazione, presentandosi come il difensore dei diritti umani, quando invece è il primo a violarli, la strategia diplomatica della menzogna, affermando una cosa e facendo l’opposto e la strategia del “negoziare per preparare la fase successiva della guerra”. La “via politica” avrebbe un senso solo se accompagnata da una “pressione militare”. È ciò che il Governatore del Nord-Kivu e la Società Civile del Nord-Kivu chiedono con insistenza.
Promesse evase.
La stessa Mary Robinson, inviata speciale del Segretario Generale dell’Onu per la Regione dei Grandi Laghi, aveva dichiarato a Goma, il 2 settembre, che «a volte occorre anche un impegno militare … necessario per proteggere le persone». Il 1° agosto, in una conferenza stampa tenutasi a Goma, il comandante della forza della Monusco, il generale Alberto Dos Santos Cruz, aveva già affermato che «la creazione della zona di sicurezza attorno a Goma era solo il primo passo di un’operazione strategica di appoggio all’esercito congolese e di riconquista progressiva, zona per zona, del Nord Kivu». Il 4 agosto, il responsabile della Monusco a Goma, Axel Queval, aveva ribadito che il mandato della Monusco è di disarmare i gruppi armati, che la zona di sicurezza sarebbe stata estesa ad altri territori e che si procederebbe gradualmente, tappa dopo tappa. Dopo due mesi e mezzo da tali dichiarazioni, non si capisce perché il perimetro della zona di sicurezza non sia ancora stato ampliato. Forse che gli abitanti di Rutshuru non hanno diritto a vivere in “zona di sicurezza”? E tuttavia essi si dicono “presi in ostaggio” dai ribelli dell’M23 e “soffocati dalla sua amministrazione responsabile di omicidi, stupri, saccheggi e sequestri di persone”. Tali denunce sono più che sufficienti per giustificare un nuovo intervento militare.
Un accordo dimenticato.
C’è un altro aspetto molto importante e che sembra essere stato dimenticato nell’ultima visita del Consiglio di Sicurezza nella Regione dei Grandi laghi: l’applicazione dell’accordo di Addis Abeba, firmato da tutti i Paesi della Regione. Con tale accordo, ogni Paese si era impegnato, tra l’altro, a rispettare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale dei Paesi vicini, ad evitare ogni tipo di ingerenza nella vita politica e militare dei Paesi vicini, a non appoggiare alcun gruppo armato e a non dare ospitalità a personalità politiche e militari ricercate dalla giustizia.
La semplice applicazione di questi impegni sarebbe più che sufficiente per indebolire automaticamente l’attività dei gruppi armati e riportare, quindi, la pace, la sicurezza e la stabilità nell’est della RDCongo e nell’intera regione dei Grandi Laghi. Se non si sono ancora raggiunti questi risultati, è perché c’è qualche Paese che viola tale accordo non rispettando gli impegni assunti. Secondo i rapporti del gruppo degli esperti dell’Onu e di varie Ong, il Ruanda e l’Uganda figurano tra i Paesi che stanno violando tale accordo.
A quando sanzioni serie e condivise?.
Proprio in questi ultimi giorni, la Segreteria per l’Africa del Dipartimento di Stato Americano ha annunciato di aver deciso delle «sanzioni contro il Ruanda, perché sta sostenendo un gruppo ribelle (l’M23) che continua a sequestrare e a reclutare dei giovani nelle sue truppe, minacciando la pace e la stabilità nell’est della RDCongo». Secondo indiscrezioni, tali sanzioni consisterebbero nella «interruzione di qualsiasi tipo di assistenza in materia di formazione e di addestramento militare per l’anno 2014».
Sarebbe auspicabile che altri Paesi della Comunità internazionale, inclusi quelli della Comunità Europea, interrompessero la loro cooperazione militare con il Ruanda e l’Uganda e che il Consiglio di Sicurezza decretasse un embargo sulle armi dirette verso questi due Paesi notoriamente implicati nel conflitto all’est della RDCongo. A queste misure, si potrebbero aggiungere anche provvedimenti di tipo disciplinare (congelamento dei beni e interdizione di viaggiare all’estero) e di tipo giudiziario (emissione di mandati internazionali di cattura da parte della Corte Penale Internazionale) contro le personalità politiche e militari citate nei vari rapporti internazionali.
Il far rispettare l’accordo di Addis Abeba sarebbe certamente quella «via politica» che potrebbe assicurare la pace nell’est della RDCongo e nella Regione dei Grandi Laghi. La Comunità Internazionale e l’ONU dovrebbero fare tutti gli sforzi possibili per intraprenderla, lottando contro tutte le pressioni esercitate su di esse da parte di certe lobby internazionali economiche, finanziarie e politiche.