Congo Attualità n. 183

INDICE

EDITORIALE: Passare dalla cacofonia a una sinfonia

1. A CONCLUSIONE DELLA VISITA DI BAN KI-MOON

a. Nuovo vertice ad Addis Abeba

b. L’ambiguità del ruolo della comunità internazionale, del Ruanda e dell’Uganda

2. DOPO L’ATTACCO DELL’M23 À MUTAHO (NORD KIVU)

3. TENSIONE A BUKAVU (SUD KIVU)

4. UNA LETTERA DI HUMAN RIGHT WATCH AL PRESIDENTE KABILA

 

EDITORIALE: Passare dalla cacofonia a una sinfonia

 

 

1. A CONCLUSIONE DELLA VISITA DI BAN KI-MOON

 

a. Nuovo vertice ad Addis Abeba

 

Il 26 maggio, gli undici Capi di Stato africani che, in febbraio scorso, avevano firmato l’accordo di Addis Abeba per la pace nell’est della RDCongo, si sono incontrati nella capitale etiope in occasione della celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’Organizzazione dell’Unità Africana. Il presidente congolese Joseph Kabila ha incontrato i suoi omologhi del Ruanda e dell’Uganda, Paul Kagame e Yoweri Museveni. La riunione si è svolta a porte chiuse e non è stato reso pubblico alcun comunicato. Prima della riunione, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon ha dichiarato che «una pace duratura nella regione dei Grandi Laghi è possibile solo se tutti i paesi firmatari dell’accordo di Addis Abeba lavorano insieme, per superare l’attuale impasse politico e creare un nuovo clima che possa favorire la sicurezza della popolazione e lo sviluppo economico» , aggiungendo che, per essere promossi, occorre ormai «superare l’esame sull’attuazione dell’accordo stesso».[1]

 

Il Presidente della Tanzania, Jakaya Kikwete, in quanto Paese fornitore di truppe per la nuova brigata della Monusco, ha approfittato dell’occasione per esprimere la sua visione sul cammino da intraprendere per arrivare ad una soluzione durevole della crisi nell’est della RDCongo. Secondo  lui, la brigata d’intervento della Monusco non avrà alcun impatto se non si apre un dialogo tra le diverse parti interessate, incluso tra il Ruanda e le FDLR e tra l’Uganda e l’ADF-NALU. Il presidente tanzaniano ha detto tre cose. In primo luogo, la brigata speciale delle Nazioni Unite è una buona cosa, ma non risolve il problema di fondo, che è politico. Poi ha insistito sulla necessità di una ripresa del dialogo tra il governo congolese e l’M23. Infine, e soprattutto, secondo lui, un tale dialogo non è sufficiente. Se Kinshasa negozia con i suoi avversari, l’M23, occorre anche che Kigali accetti di parlare con i suoi avversari, le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) e che Kampala accetti un dialogo con i ribelli ugandesi dell’ADF-NALU. Non ci può essere una pace duratura senza una negoziazione globale. A queste parole, il presidente ruandese Paul Kagame non ha battuto ciglio. Nessuna reazione da parte sua. «Se non ha detto nulla, è già qualcosa. Fino ad ora, per lui le FDLR erano il demonio», ha bisbigliato un partecipante alla riunione. Se Paul Kagame non ha detto nulla, il presidente ugandese, Yoweri Museveni, ha reagito con una sola frase: «Si parla con coloro che vogliono parlare e si isolano gli altri».[2]

 

In un’intervista a RFI, rapida e secca è stata la risposta della ministro degli Esteri del Ruanda, Louise Mushikiwabo: «Se il presidente Jikaya Kikwete pensa che il Ruanda debba sedersi a un tavolo di trattative, è aberrante. Quelli che pensano che il Ruanda debba sedersi al tavolo delle trattative con le FDLR, non sanno di che cosa stanno parlando. Le FDLR sono un gruppo di genocidari che, qua e là, dispongono di certe simpatie, a livello interno, ma anche all’estero». Nella stessa intervista, Louise Mushikiwabo afferma anche che «la nuova brigata d’intervento della Monusco è una parte importante di un pacchetto di misure a carattere politico. Quindi, ciò che è importante oggi è che si possa affrontare rapidamente questa soluzione politica, che non è che una soluzione politica interna alla RDCongo. Non bisogna illudersi, la nuova brigata non è una soluzione al problema della RDCongo, si tratta solo di un piccolo contributo».[3]

 

Il 28 maggio, Francois Mwamba, nuovo coordinatore del meccanismo di controllo per l’attuazione dell’accordo di Addis Abeba, ha accolto con favore la proposta del presidente tanzaniano, sottolineando che «ciò che è richiesto alla RDCongo, dovrebbe essere chiesto anche agli altri, in modo che si possa arrivare ad una soluzione globale». A proposito del blocco dei colloqui tra l’M23 e il governo a Kampala (Uganda), Francois Mwamba, ha affermato che il governo sta aspettando che la mediazione presenti una proposta finale che permetta di concludere le trattative. Nel mese di marzo, il governo aveva elaborato un testo di 12 articoli che sarebbe potuto essere approvato e firmato dalle due parti come documento finale dei colloqui. Ma l’M23 aveva ritenuto che il documento non fosse in linea con le sue aspettative e aveva proposto, a sua volta, un altro testo. La mediazione avrebbe dovuto convocare una seduta plenaria per discutere i due testi, al fine di raggiungere un consenso e concludere i negoziati avviati il 9 dicembre 2012. Tale plenaria non è mai stata convocata.[4]

 

Reagendo alla proposta del Presidente tanzaniano, Jakaya Kikwete, fatta il 26 maggio al vertice dell’Unione Africana (UA) ad Addis Abeba, per chiedere al Ruanda e all’Uganda di negoziare con le loro rispettive ribellioni, come sta facendo il governo congolese con l’M23, il presidente di Ibuka, l’associazione dei sopravvissuti al genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994, Jean Pierre Dusingimungu, ha affermato che negoziare con i ribelli delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), è «legittimare la loro causa e favorire l’impunità».
Fanny Bahati, un superstite del genocidio, ha detto che «Kikwete, il cui paese è sede del TPIR (Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda), sembra ignorare la storia». Anche Godefroid Ka-Mana, presidente del “Pole Institute”, un Istituto interculturale della regione dei Grandi Laghi, con sede a Goma (Nord Kivu), ha affermato che «negoziare con le FDLR significa cancellare tutti i crimini che hanno commesso» e crede che non si possa chiedere al governo ruandese di negoziare con loro. La proposta di Kikwete è «un insulto al popolo ruandese», ha detto Gédéon Kayinamura, presidente della Commissione Affari Esteri dell’Assemblea Nazionale del Ruanda che ha chiesto alla Tanzania di chiedere scusa.[5]

 

In seguito alle dichiarazioni di Gédéon Kayinamura, che ha chiesto al governo tanzaniano di scusarsi per aver proposto l’organizzazione di un dialogo politico inter-ruandese, il ministro tanzaniano Membe ha dichiarato che «in nessun modo la Tanzania chiederà scusa. In primo luogo, perché il governo della Tanzania è animato e guidato da buone intenzioni riguardo al ritorno di una pace duratura nella sub-regione, vittima, da quasi vent’anni, di ripetitive guerre. In secondo luogo, perché è da sedici anni che Kigali difende la tesi della guerra preventiva contro i ribelli hutu ruandesi rifugiati nei RDCongo, considerata come suo campo di battaglia, senza tuttavia ottenere risultati positivi. Per quattro volte, infatti, il governo di Kigali ha appoggiato dei movimenti cosiddetti ribelli congolesi, per neutralizzare le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR). A turni successivi, l’AFDL, l’RCD, il CNDP e ora l’M23 hanno ricevuto pubblicamente un appoggio diplomatico, finanziario e militare da parte del governo ruandese. D’altra parte, sono degli elementi reclutati tra le file dei riservisti militari ruandesi che hanno sempre costituito il corpo principale di tutte queste ribellioni presumibilmente congolesi e che hanno combattuto a fianco di militari congolesi formati, addestrati e equipaggiati da alti ufficiali dell’esercito ruandese». Infine, il ministro Membe ritiene che il rifiuto, da parte del governo ruandese, di aprire dei negoziati con i ribelli Hutu delle FDLR non sarà certo il modo migliore per riportare la pace in questa sub-regione dei Grandi Laghi, in particolare nella RDCongo, in Uganda e in Rwanda.[6]

 

Il 4 giugno, a Kinshasa, l’ambasciatore della Tanzania nella RDCongo, Emedy Ngaza, ha affermato che  «opporsi alla proposta del presidente tanzaniano sul dialogo tra il Ruanda e l’Uganda con le loro rispettive ribellioni è opporsi alla possibilità di una pace duratura nella regione dei Grandi Laghi».[7]

 

«La pace nella regione dei Grandi Laghi passa essenzialmente attraverso la democratizzazione effettiva delle istituzioni ruandesi e il dialogo con le FDLR», ha dichiarato Julien Paluku, governatore della provincia del Nord Kivu. Egli si dice fermamente convinto che è attraverso un dialogo ufficiale e aperto tra il governo di Kigali e i ribelli delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) che si può arrivare a una pace duratura nella regione.
Julien Paluku ritiene che non tutti i Ruandesi che si trovano fuori del Paese possano essere considerati come genocidari perché, sostiene, tra loro ci sono tre categorie di persone.

In primo luogo, ci sono quelli ricercati dalla giustizia internazionale, i veri criminali che, nel 1994, hanno perpetrato il genocidio in Ruanda. Questi individui dovrebbero essere oggetto di un trattamento molto più severo da parte del governo ruandese.

Poi ci sono i rifugiati politici ruandesi che fuggono dal regime monolitico e dal terrore installato a Kigali da 19 anni e con i quali il regime non vuole condividere il potere. Un esempio ne è la condanna di un’avversaria politica ormai conosciuta a livello mondiale, la signora Victoire Ingabire, la cui unica colpa è stata quella di aver avuto il coraggio di presentarsi come candidata alle elezioni presidenziali del 2010 a Kigali. È stata condannata a otto anni di carcere, una pena che si protrarrà fino al 2018. Tutto questo, per impedirle di ripresentarsi alle presidenziali del 2017. Per questo, il Governatore Julien Paluku chiede al presidente Paul Kagame di impegnarsi con questa categoria di Ruandesi che non hanno nulla a che fare con il genocidio, anche se, ingiustamente, sono sempre stati accusati di tale crimine.

Ci sono, infine, altri che, al momento del genocidio ruandese erano minori di età (sotto i 18 anni nel 1994). Anch’essi sono ingiustamente accusati di partecipazione al genocidio, anche se non sono affatto penalmente responsabili delle atrocità del 1994. In questa categoria, si devono aggiungere tutti coloro che sono nati fuori del Ruanda da genitori rifugiati. Oggi, la loro età è compresa tra i 19 e i 35 anni. Ad essi non dovrebbe essere attribuita l’ideologia del genocidio, perché non erano presenti sul suolo ruandese in quel periodo, perché sono nati fuori del paese.

Secondo il governatore del Nord Kivu, la proposta del presidente tanzaniano riguarderebbe le ultime due categorie di Ruandesi che sono, tuttavia, completamente escluse dalla gestione politica del loro paese, il Ruanda. Fare una tale proposta non è farsi portatore né dell’ideologia di genocidio, né delle FDLR.[8]

 

Secondo diversi osservatori, per le autorità di Kigali, chi chiede il dialogo inter-ruandese deve essere trattato come complice e simpatizzante dei genocidari hutu. Paul Kagame e i suoi amici del Fronte Patriottico Ruandese (FPR) non sopportano di essere contraddetti. Hanno fatto del genocidio del 1994 un vero fondo di commercio, per inculcare nei paesi membri della Comunità Internazionale il complesso di colpa, per non aver dato assistenza a un popolo massacrato.

E ogni volta che sono messi alle strette o si trovano a corto di argomenti, si rifugiano sempre dietro lo stesso pretesto: il genocidio. Non vogliono riconoscere che non tutti i rifugiati Hutu ancora presenti nella RDCongo sono dei genocidari e che, nel 1994, centinaia di migliaia di loro sono stati uccisi, sia dalle milizie Interahamwe, sia dai militari dello stesso Esercito Patriottico Ruanda (APR).
Se il regime ruandese si ostina ad imporre la sua politica di esclusione, come potranno le popolazioni congolesi, vittime di massacri e stupri di massa, costrette a vivere come rifugiati all’interno del proprio paese e saccheggiate delle risorse minerarie del loro paese, accettare di collaborare con i regimi ruandese, ugandese e burundese che ormai sono riconosciuti internazionalmente come i responsabili degli innumerevoli crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi sul territorio congolese? Perché la pace, l’intesa e la cooperazione sono il risultato della ricerca della verità e della giustizia mediante il dialogo e la negoziazione tra gli Stati.[9]

 

Secondo molti osservatori, l’uscita dalla crisi della regione dei Grandi Laghi passa proprio attraverso un approccio globale fra tutti i paesi implicati. Tutti i paesi della regione sono colpiti, in un modo o nell’altro, da movimenti ribelli: la RDCongo dall’M23 e da altri gruppi armati, il Ruanda dalle FDLR e l’Uganda dall’ADF-Nalu. Poiché tutti sono implicati, l’ONU prevede di istituire un meccanismo di risoluzione che coinvolga tutti. Anche se questo approccio sembra essere teoricamente efficace, tuttavia, il suo successo è condizionato da determinati prerequisiti. È il caso della buona fede di coloro che sono coinvolti a cooperare per una soluzione reciprocamente vantaggiosa per tutti i paesi. Tuttavia, da questo punto di vista, non si può dire che tale prerequisito sia riunito nel caso specifico della Regione dei Grandi Laghi. Oggi, il fallimento di tutti i meccanismi messi in atto nella regione dimostra che la buona fede di alcuni paesi, come il Ruanda e l’Uganda, non è affatto da dare per scontata.

Molti sono gli osservatori che ritengono che il ritorno della pace nella RDCongo svantaggerebbe i Paesi vicini, in particolare quelli dell’est. Non solo perderebbero i proventi del saccheggio delle risorse naturali, ma la riconciliazione raccomandata metterebbe a repentaglio i loro regimi. In altre parole, il processo di rimpatrio – riconciliazione, in particolare in Ruanda e in Uganda, riporterebbe nei rispettivi territori dei ribelli che, per decenni, sono riusciti a tenere lontano, a spese della RDCongo. A questo punto, la soluzione dei problemi della RDCongo li metterebbe in difficoltà. Tutti lo sanno ma nessuno osa dirlo ad alta voce. Non c’è che la forza della pressione e delle sanzioni che potrebbe costringere gli stati riluttanti, il Ruanda e l’Uganda in particolare, ad accettare l’impostazione globale proposta ad Addis Abeba dal Presidente della Tanzania. Per quanto riguarda l’M23, l’impegno della comunità internazionale dovrebbe concretizzarsi nella creazione di una forza militare coercitiva, e non solo preventiva, che possa scoraggiare chiunque. La prova è che la  Monusco, composta finora da 17.000 uomini, non è mai riuscita a porre fine al conflitto armato in questo paese. È a queste condizioni che la partecipazione di tutti i paesi della sub-regione potrebbe avere un senso riguardo all’accordo di Addis Abeba.[10]

 

b. L’ambiguità del ruolo della comunità internazionale, del Ruanda e dell’Uganda

 

A conclusione della visita di Ban Ki-moon nella RDCongo, in Ruanda e in Uganda, Mary Robinson, inviata speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per i Grandi Laghi, ha rilasciato un’intervista esclusiva a Bruno Minas, corrispondente di RFI. In essa, Mary Robinson propone una risoluzione della crisi attraverso un’azione a favore dello sviluppo e si dice favorevole all’impegno finanziario assunto dalla Banca Mondiale: «Abbiamo a disposizione un miliardo di dollari e ciò può far cambiare molte cose».

RFI: Ban Ki-moon auspica la ripresa dei colloqui di Kampala tra l’M23 e il governo di Kinshasa. Tutti pensavano che questo dialogo fosse stato sepolto. Lei pensa che sia ancora possibile riprenderlo e che sia davvero necessario?

Mary Robinson: Penso che sia necessario, perché è meglio che le persone si parlino per trovare un modo che possa riportare la pace. Con l’accordo di Addis Abeba, ora abbiamo un approccio più ampio nei confronti della problematica in questione. Si tratta della pace, della sicurezza e dello sviluppo. Entrambe le parti, il Governo e l’M23, possono ottenere dei benefici dalla pace. Voglio incoraggiare le due parti, affinché ritornino al tavolo dei negoziati, perché ora ci sono in campo molte più scelte.

RFI: Questo significa che si dovranno ancora integrare dei combattenti ribelli nell’esercito nazionale, come in passato?

Mary Robinson: So che si ha molta paura di questa soluzione, soprattutto a Goma. Ce ne sono alcuni che possono essere integrati, ma per gli altri, ora si ha la possibilità di più scelte a proposito di ciò che potrebbero fare. Si potrebbe proporre una specie di “forza economica”. È necessario evitare l’impunità e l’integrazione improvvisata, perché fino ad ora non ha funzionato. Ma ora sappiamo che ci saranno delle iniziative per lo sviluppo, con il sostegno della Banca Mondiale. Ora abbiamo un miliardo di dollari e ciò può far cambiare molte cose!

RFI: È il miliardo di dollari che porterà la pace?

Mary Robinson: No, non si può dire questo. Ma occorre che le persone cambino un po’ di mentalità per poter dirsi che ci sarà un futuro migliore, perché si tratta di una zona molto ricca di risorse! E si potrebbe progredire, come in altri paesi dell’Africa. Ho parlato con gruppi di donne e con la società civile. Tutti vogliono lo sviluppo.

RFI: Questo significa che il Congo dovrebbe condividere una parte delle sue ricchezze?
Mary Robinson: Nella RDCongo, le ricchezze sono attualmente rubate. Se si potesse sfruttarle legalmente, ciò aiuterebbe tutti i paesi della regione, perché ci sarebbe bisogno di investimenti, di operai … Sarebbe bene per tutti.

RFI: Si accusa il Ruanda e l’Uganda di appoggiare l’M23. Cosa ne pensa di queste accuse?
Mary Robinson: Come inviata speciale, incontro molte persone. Credo che abbiamo già fatto alcuni progressi e che ne faremo altri.

RFI: Si è aperto un dibattito nella RDC sulla democrazia e i diritti umani. Si sta ancora aspettando la convocazione di una consultazione promessa dal presidente

Mary Robinson: Sia a Kinshasa che a Goma, abbiamo parlato di questa concertazione, di questo dialogo e presumo che inizierà presto. È importante, perché ho potuto constatare che i gruppi di donne e la società civile si interessano un po’ troppo al dispiegamento della brigata d’intervento per risolvere i problemi. La nuova brigata è certamente importante, ma non è la soluzione. La soluzione è piuttosto l’attuazione dell’accordo di Addis Abeba per la pace, la sicurezza e lo sviluppo. Il popolo congolese deve capire che il governo deve dotarsi di un esercito e di un corpo di polizia ben strutturati e assicurare l’autorità dello Stato su tutto il territorio. Sono obiettivi a lungo termine, lo so. Ma ora, con la creazione del comitato di controllo, si può cominciare. Mi auguro che la società civile, i gruppi delle donne e dei giovani e anche l’opposizione possano seguire questo processo.

RFI: La brigata d’intervento sarebbe dunque una brigata di deterrenza?

Mary Robinson: Spero di sì. È necessario che la nuova brigata sia una forza di prevenzione e che si progredisca a livello politico, verso la pace e, soprattutto, verso lo sviluppo.[11]

 

Il Ruanda e l’Uganda svolgono un ruolo molto particolare. Entrambi sono accusati di appoggiare la ribellione e, al tempo stesso, sono considerati come protagonisti nella soluzione del conflitto. Si tratta di un’ambiguità che persiste da anni. Questo tema è quasi un tabù. A tal punto che è impossibile strappare da Ban Ki-moon una sola parola a tale proposito. L’Uganda svolge un ruolo doppiamente particolare, dal momento che è anche mediatore tra l’M23 e il governo congolese, anche se, iniziati all’inizio di dicembre 2012, tali negoziati sono attualmente completamente bloccati. Ma a sorpresa, Ban Ki-moon ha dichiarato, a Kigali, in Ruanda, di aver chiesto al presidente congolese Joseph Kabila, incontrato il giorno prima, di proseguire tali negoziati. Risulta davvero difficile capire ciò che sta avvenendo perché, da una parte, si accusano questi due paesi di appoggiare la ribellione e, dall’altra, si chiede loro di svolgere un ruolo importante per la pace.[12]

 

Già il 10 maggio scorso, per esempio, nel corso di una riunione tenuta a Bujumbura (in Burundi), i Ministri degli Affari Esteri del Ruanda, del Burundi e della RDCongo avevano espresso la volontà di creare un tribunale apposito per processare gli autori dei crimini commessi nella regione dei Grandi Laghi. I ministri degli esteri dei tre paesi non avevano, però, ancora definito né le modalità, né le competenze di tale tribunale.[13] Secondo alcuni osservatori, questa iniziativa potrebbe nascondere il tentativo, da parte dei governi ruandese e ugandese, di sottrarre alla giustizia internazionale i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani commesse da personalità ruandesi e ugandesi in territorio congolese.

 

 

2. DOPO L’ATTACCO DELL’M23 À MUTAHO (NORD KIVU)

 

La popolazione e la società civile del Nord Kivu stanno dimostrando sempre più dei gesti di solidarietà con le Forze Armate della RDC (FARDC),soprattutto dopo gli ultimi scontri del 20 e 21 maggio, con l’M23, a Mutaho. Le donne dei partiti politici, delle associazioni locali e della società civile del Nord Kivu hanno consegnato alle autorità militari di Goma una busta con 1000 dollari per i militari posizionati sulla linea del fronte. La rappresentante del comitato delle donne, Nelly Lumbulumbu, ha sostenuto che si tratta di un gesto per incoraggiare le forze armate e per dire loro che «le donne e tutta la popolazione congolese li sostengono». Durante i combattimenti di Mutaho, alcuni abitanti di Mugunga si erano offerti come volontari per trasportare materiale militare e munizioni verso il fronte, ma il comandante militare non ha accettato, perché ciò avrebbe messo in pericolo la vita dei civili. Altri abitanti del Nord Kivu hanno pubblicato su Facebook dei messaggi di sostegno alle FARDC. Tuttavia, rappresentanti della società civile hanno ricordato ai militari le loro responsabilità nei confronti della popolazione civile, mettendoli in guardia contro gli abusi da loro commessi, come quelli che si sono verificati lo scorso novembre a Minova, durante la loro ritirata in seguito all’occupazione di Goma da parte dell’M23.[14]

 

Il 28 maggio, il portavoce della società civile del Nord Kivu, Omar Kavota, ha dichiarato che l’M23 sta approfittando della tregua per rafforzare le proprie postazioni in uomini e munizioni provenienti dal Rwanda e che questo suo atteggiamento dimostra la sua volontà di riprendere la città di Goma.[15]

 

Il 29 maggio, a Goma, al termine di un incontro per sensibilizzare i giovani a non accettare di entrare a far parte di gruppi armati, i capi tradizionali del Nord Kivu hanno chiesto al governo congolese di evitare di integrare stranieri, criminali e ribelli nell’esercito nazionale. L’incontro era stato organizzato dall’associazione intercomunitaria locale e dalla società civile nel Nord Kivu, con il supporto della Monusco. Per gli oltre duecento capi tradizionali del Nord Kivu, che hanno partecipato a questo incontro, la via di uscita da più di venti anni di guerra è la formazione di un esercito capace di assicurare l’integrità del territorio nazionale. Le varie comunità etniche si sono impegnate a sensibilizzare i loro giovani ad abbandonare i vari gruppi armati e i movimenti ribelli. Al governo, hanno chiesto di essere rigoroso nella selezione dei combattenti che chiedono di entrare a far parte dell’esercito.[16]

 

Il 4 giugno, il portavoce militare della Monusco, il tenente colonnello Prosper Basse, ha dichiarato che un terzo degli effettivi della brigata d’intervento dell’Onu è già arrivato a Goma. Altri militari sono attesi per i “prossimi giorni”. Questa brigata sarà costituita da 3.069 militari forniti dalla Tanzania, dal Malawi e dal Sud Africa. Una parte delle truppe sudafricane avrà la sua base a Munigi, a nord di Goma. Un’altra caserma è in costruzione ad ovest della città. Il 3 giugno, il portavoce delle Nazioni Unite, Martin Nesirky, aveva annunciato che gli elementi della brigata già arrivati avevano cominciato a pattugliare la città con altri elementi della Monusco. Secondo il capo delle Operazioni di pace delle Nazioni Unite, Hervé Ladsous, la brigata dovrebbe essere operativa entro la metà di luglio. In una dichiarazione rilasciata il 24 maggio, il capo della diplomazia dell’Unione Europea, Catherine Ashton, aveva auspicato un “rapido” dispiegamento di questa forza.[17]

 

Il 5 giugno, il portavoce civile della Monusco, Penangini Touré, ha dichiarato che, se i ribelli dell’M23 ritornassero effettivamente a Kampala per proseguire i negoziati con il governo congolese, la nuova brigata d’intervento della Monusco non andrà ad attaccarli là dove si trovino.
«La nuova brigata dovrà neutralizzare quelle forze che attaccheranno la popolazione civile», ha affermato Touré, aggiungendo che, «se resteranno dove si trovano ora e se non molesteranno nessuno, non vedo perché la brigata d’intervento o le truppe della Monusco debbano attaccarli». «Prima o poi questa forza dovrà collocarsi dalla parte della Repubblica. C’è una sola repubblica, c’è una sola autorità dello Stato e non c’è che un solo governo. È necessario che tutti entrino in questa logica. Quindi, prima o poi, questi gruppi armati dovranno essere smantellati, se si vuole veramente raggiungere la pace. Ma nel frattempo, si devono continuare i negoziati», ha concluso il portavoce delle Nazioni Unite.[18]

 

Il 5 giugno, in un comunicato stampa, il capo politico dell’M23, Bertrand Bisimwa, ha annunciato che «l’M23, in accordo con la mediazione ugandese, conferma che la sua delegazione si recherà a Kampala la domenica 9 giugno, per proseguire il dialogo con il governo congolese». L’M23 afferma di aver preso tale decisione in seguito a quanto richiesto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon e dalla sua inviata speciale per la regione dei Grandi Laghi, Mary Robinson, durante la loro visita, a fine maggio, nella RDCongo, in Ruanda e in Uganda.Secondo Bisimwa, Ban Ki-Moon e Mary Robinson avevano infatti auspicato «una soluzione politica alle cause profonde della crisi nell’est della RDCongo». Iniziato nel dicembre 2012,  le trattative erano entrate in una fase di stallo dopo una spaccatura all’interno dell’M23, in febbraio scorso. Nel mese di marzo, in seguito all’approvazione della risoluzione 2098 del Consiglio di Sicurezza, sulla creazione di una nuova brigata d’intervento in seno alla Monusco, incaricata di combattere i gruppi armati, tra cui lo stesso M23, ancora attivi nell’est della RDCongo, Kinshasa aveva chiesto all’M23 di auto dissolversi.[19]

 

 

3. TENSIONE A BUKAVU (SUD KIVU)

 

Il 24 maggio, a partire dalle 4,00 del mattino, dei giovani “Banyamulenge” del quartiere Nguba, a est della città di Bukavu, vicino al confine con il Ruanda, hanno barricato la strada principale che conduce alla frontiera Rusizi I.

A prima vista, sembra che questi giovani “Banyamulenge” abbiano voluto esprimere il loro malcontento nei confronti di certi fatti avvenuti il giorno precedente. Nella serata del 23 maggio, ci sono stati alcuni alterchi tra un gruppo di giovani congolesi e un altro gruppo di giovani Banyamulenge, nella zona dietro il mercato di Nguba. Secondo i giovani Banyamulenge, tutto sarebbe iniziato dagli insulti proferiti dai congolesi contro di loro, accusandoli di appoggiare l’M23, mentre si stava discutendo in modo pacifico su alcune questioni private. Secondo i giovani congolesi, tutto sarebbe cominciato in una taverna, quando alcuni giovani Banyamulenge sono arrivati e hanno preso la bottiglia di uno che credevano già ubriaco. Quando quest’ultimo ne ha loro chiesto il motivo, ha ricevuto uno sputo sul viso e ha, quindi, perso il controllo di sé. Ne è iniziata una lite in cui sono rimasti feriti due ragazze e tre ragazzi Banyamulenge che sono stati ricoverati presso il Dispensario Biosadec di Nguba. Per vendicarsi, i giovani Banyamulenge, che vivono in gruppi di circa dieci persone, sparsi qua e là in tutta la città in case che chiamano degli studenti, hanno barricato la strada, impedendo all’intera popolazione, tuttavia non implicata in questo conflitto privato, di recarsi al lavoro.

I bambini non hanno potuto arrivare a scuola. I genitori che, a piedi, in bicicletta o in auto, portavano a scuola i loro figli, non potevano passare, ciò che è loro parso ingiusto e inaccettabile. Alcuni moto taxisti, che portavano a scuola dei bambini, hanno voluto aprire un passaggio ma sono stati colpiti da lanci di pietre e feriti. Ciò ha provocato l’ira di tutti gli altri moto taxisti che, in tali circostanze, sono generalmente uniti tra loro. Ne è seguita una rapida e forte mobilitazione, con lanci di pietre tra le due parti, causando ampi danni: feriti in entrambi i campi, atti di distruzione, saccheggi, furti di denaro e di oggetti di valore. La Chiesa Metodista di Muhumba è stata  saccheggiata e parzialmente bruciata. Lo stesso per la chiesa CEPAC / SHALOM di Nguba. Va ricordato che queste due chiese sono frequentate principalmente da Banyamulenge.

Secondo alcuni osservatori, nel Kivu le situazioni di insicurezza persistono da ormai 20 anni e si assomigliano. Tutto è diventato qualcosa di già visto, sentito e vissuto. Si può dire, senza rischio di sbagliare, che, in questo tipo di manifestazioni, nulla succede senza causa o senza una seconda intenzione “politica”. Si tratta di una strategia deliberata? Come spiegare che un conflitto privato tra alcuni giovani del quartiere possa portare a tali eccessi, senza che si possa pensare a una manipolazione o strumentalizzazione dei fatti? Si potrebbe pensare che c’entri anche l’M23? Solo in seguito si potrà confermarlo o smentirlo. Ma è quasi certo che la xenofobia e l’odio etnico saranno ancora una volta usati dai leader ed estremisti Tutsi / Banyamulenge per giustificare ogni eventuale reazione militare e / o politica.[20]

 

Lo stesso 24 maggio, infatti, in un comunicato stampa firmato a Bunagana (Nord Kivu) da Amani Kabasha, Capo del Dipartimento dell’M23 per la Comunicazione e i media, «la direzione del Movimento denuncia e condanna le selettive atrocità commesse, in particolare, nelle città di Bukavu e Goma, contro alcuni connazionali per la loro appartenenza etnica». Secondo il comunicato, «a Bukavu, orde di giovani manipolati e pagati dagli enti locali hanno attaccato degli studenti Banyamulenge che sono stati picchiati, mutilati e sottoposti a trattamenti degradanti, in violazione dei diritti e della dignità della persona umana. Alcuni sono morti a causa dei colpi ricevuti, altri sono stati bruciati nelle chiese.

L’emarginazione di una parte della comunità nazionale, presa di mira come capro espiatorio per i problemi che il paese si trova a dover affrontare, è alla base delle molte frustrazioni che hanno provocato le ricorrenti guerre. Ogni giorno, alcune autorità si riservano ampi spazi nei mezzi di comunicazione, pubblici e privati​​, per lanciare messaggi che incitano all’odio etnico, un discorso populista che ha fatto dell’odio tribale il cemento per un pseudo patriottismo. Tali discorsi di odio etnico sono usati come strategia di mobilitazione popolare.

L’M23 ritiene il governo della RDCongo come unico responsabile dell’epurazione etnica in corso. Questi atti di genocidio sono il risultato dell’incitamento all’odio che nessuno ha finora condannato. Sentiamo quindi il dovere di prevenire la comunità nazionale e internazionale, circa la natura inquietante della minaccia proveniente da questa campagna d’odio etnico in una regione che ha già vissuto uno dei genocidi della storia dell’umanità. Chiediamo inoltre a tutta la comunità umana, alle istituzioni internazionali, in particolare alla Monusco, che ha il mandato di proteggere i civili, di mettere fine alla collaborazione con i servizi di sicurezza (servizi di intelligence, servizi di migrazione, esercito e polizia) del governo congolese».[21]

 

Secondo alcuni osservatori, la rapidità con la quale l’M23 ha reagito può lasciare intravvedere la diretta implicazione dell’M23 negli incidenti di Bukavu, attraverso l’azione di alcuni suoi militanti infiltrati in città. Prima di tutto, il comunicato dell’M23 esaspera i toni e falsifica l’informazione quando parla di giovani Banyamulenge uccisi a colpi o bruciati nelle chiese. Non sono, infatti, stati registrati decessi e i feriti si contano in entrambe le parti. Inoltre, i temi evocati sono conosciuti da tempo: l’insicurezza in cui si troverebbe la comunità congolese ruandofona (Banyamulenge, Banyaruanda, Tutsi) emarginata, esclusa, priva di diritti, vittima dell’odio etnico, sempre minacciata di epurazione etnica e di genocidio. In realtà, il vittimismo e il complesso del “capro espiatorio” ostentati da certi esponenti politici e da certe autorità militari della comunità ruandofona, ora membri dello stesso M23, è la strategia adottata per nascondere il loro piano di destabilizzazione delle due province del Kivu, per assicurarsene il controllo politico, militare ed economico. Infatti, accusando direttamente il governo congolese di essere “l’unico responsabile” di una presunta epurazione etnica, il comunicato stampa lascia intravvedere che la guerra dell’M23 non è altro che una guerra contro lo Stato congolese. Non si tratta quindi di problemi di convivenza tra le diverse comunità etniche che formano il popolo congolese nel Kivu. Quando il dispiegamento della nuova brigata d’intervento della Monusco sembra ormai imminente, l’obiettivo del comunicato dell’M23, e forse anche degli incidenti di Bukavu, è quello di indurre l’Onu, la Monusco e la Comunità internazionale a dissociarsi dal governo congolese, mettendo fine ad ogni tipo di collaborazione con i suoi servizi di sicurezza, per isolarlo e combatterlo più facilmente. Appoggiato logisticamente e militarmente da Paesi limitrofi, come il Ruanda e l’Uganda, a loro volta sostenuti da multinazionali occidentali di Stati Uniti e di Inghilterra, l’M23 rivela, così, la sua vera natura di gruppo terroristico in guerra contro lo Stato congolese e il suo Popolo.

 

 

4. UNA LETTERA DI HUMAN RIGHT WATCH AL PRESIDENTE KABILA

 

Il 7 maggio, in una lettera indirizzata al presidente Joseph Kabila, Human Right Watch (HRW) ha manifestato le sue preoccupazioni e ha fatto delle raccomandazioni sull’attuale situazione dei diritti umani nell’est della RDCongo, evidenziando la necessità di porre fine all’impunità degli autori di gravi violazioni di questi diritti.

Secondo HRW, il nuovo accordo firmato ad Addis Abeba il 24 febbraio 2013, la nomina di Mary Robinson come inviato speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la Regione dei Grandi Laghi e l’imminente invio della nuova Brigata di Intervento – una forza creata all’interno della missione delle Nazioni Unite in Congo, Monusco, ma con un comando africano – costituiscono una buona opportunità per fare avanzare le cose. Human Rights Watch chiede alla comunità internazionale di esercitare una pressione costante per ottenere l’immediata cessazione di ogni tipo di appoggio militare da parte del Ruanda e dell’Uganda all’M23 e agli altri gruppi armati operanti nella RDCongo. Le persone responsabili di tale sostegno dovrebbero essere costrette a rendere conto dei loro atti ed essere sottoposte a sanzioni.

Il successo degli impegni regionali e internazionali iscritti nell’accordo di Addis Abeba non potrà essere raggiunto senza il pieno coinvolgimento del governo congolese e senza un suo vero e proprio impegno in azioni concrete per l’attuazione delle riforme indispensabili a livello nazionale.

Per troppo tempo, la politica di integrazione dei signori della guerra, responsabili di violazioni dei diritti umani, nei ranghi dell’esercito e del riconoscimento dei loro gradi acquisiti nella ribellione, non ha fatto che perpetuare il fenomeno dell’impunità e premiare l’uso della violenza.
La recente resa di Bosco Ntaganda e il suo trasferimento all’Aia costituiscono passi importanti nella lotta contro l’impunità di coloro che hanno commesso gravi crimini nell’est della DCongo. HRW spera che altri individui sospettati di aver commesso gravi violazioni dei diritti umani – tra cui dei capi dell’M23, come Baudouin Ngaruye e Innocent Zimurinda (attualmente in Ruanda), Sultani Makenga e Innocent Kayna – siano arrestati e consegnati alla giustizia. Tutte queste persone sono iscritte sulla lista delle sanzioni decretate dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti e non meritano alcuna amnistia.

Tuttavia, affinché tali misure abbiano un effetto duraturo, il governo congolese non dovrebbe firmare alcun accordo con capi di gruppi armati che hanno commesso abusi, qualunque sia la loro appartenenza politica, etnica o altra. Infatti, l’M23 non è l’unico gruppo di questo tipo. Per mettere fine all’impunità, il governo dovrebbe adottare un’attitudine coerente ed equa nei confronti di tutti i gruppi armati responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e astenersi dal promuovere una giustizia a senso unico o del tipo due pesi, due misure. Un certo numero di milizie e membri dell’esercito nazionale congolese hanno commesso atroci attacchi contro le popolazioni civili. Tra le milizie ci sono gruppi armati come i Raia Mutomboki, le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), i Nyatura, i Mai Mai Sheka, l’Alleanza Patriottica per un Congo Libero e Sovrano (APCLS), i Mai Mai Yakutumba, il Fronte di Resistenza Patriottica dell’Ituri (FRPI) e i combattenti Mai Mai del Katanga. Centinaia di civili sono stati uccisi e decine di villaggi rasi al suolo da questi gruppi. I responsabili di questi atti dovrebbero essere, non ricompensati, ma arrestati e consegnati alla giustizia.

Il dispiegamento della brigata di intervento della Monusco non è privo di rischi, ma rappresenta anche un’opportunità unica per arrestare i capi ribelli responsabili delle peggiori atrocità. La brigata di intervento dovrebbe concentrare i suoi sforzi su operazioni specifiche e ben preparate in vista di questi arresti e prendere tutte le precauzioni possibili per ridurre al minimo i danni subiti dalla popolazione civile, come ad esempio quelli causati dalle operazioni militari precedenti che avevano provocato massive violazioni dei diritti umani e la conseguente fuga delle popolazioni.

Nelle zone che la brigata di intervento riuscirà a controllare, sarà necessario che il governo congolese proceda, in coordinamento con la Monusco, ai preparativi opportuni, al fine di mantenere e proteggere queste aree, per ristabilirvi le istituzioni dello Stato e i pubblici servizi. La protezione dei civili dovrebbe essere una priorità. Per evitare i fallimenti dei programmi precedenti di disarmo, una certa politica nei confronti dei combattenti dei gruppi armati che accettassero di deporre le armi dovrebbe essere precisata e attuata già prima dell’inizio delle operazioni militari.

Nell’ambito del programma nazionale delle riforme da parte del governo e per assicurare l’attuazione degli impegni contenuti nell’accordo di Addis Abeba, si dovrebbero adottare le seguenti misure:

Sollevare dalle loro funzioni, sottomettere a inchiesta e consegnare alla giustizia, nel modo più appropriato, i membri delle forze di sicurezza congolesi coinvolti in crimini di guerra, crimini contro l’umanità e in altre gravi violazioni dei diritti umani, qualsiasi sia il loro rango.
Assicurarsi che il governo congolese si astenga dal fornire appoggio militare a milizie o gruppi armati, stranieri o congolesi, responsabili di massive o sistematiche violazioni dei diritti umani. I responsabili civili e militari che hanno dato il loro appoggio a tali gruppi dovrebbero essere sollevati dal loro incarico, dovrebbero essere indagati e consegnati alla giustizia.

Creare un meccanismo di “vetting” o di controllo del personale dell’esercito e della polizia, per escluderne gli individui che hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani.

Creare sezioni specializzate miste o tribunali specializzati misti all’interno del sistema giudiziario congolese, con la partecipazione di pubblici ministeri, giudici e altro personale internazionale, per avviare processi, in conformità con il diritto internazionale, sui crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella RDCongo a partire dal 1990.

• Con il sostegno delle Nazioni Unite e di altri finanziatori, elaborare e attuare urgentemente un nuovo programma di strategia per il disarmo, la smobilitazione e il reinserimento (DDR) dei membri di gruppi armati. Tale strategia dovrebbe assicurare che: i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani siano non solo esclusi dall’esercito, ma siano anche oggetto di inchieste e debitamente consegnati alla giustizia; i bambini soldato siano immediatamente separati dai gruppi armati e affidati ad organismi per la protezione dell’infanzia; gli ex combattenti che potranno essere integrati nell’esercito o nelle forze di polizia ricevano, dapprima, una formazione adeguata, in modo che possano comportarsi in conformità con il diritto internazionale e le norme internazionali in materia di diritti umani e siano, in seguito, assegnati a regioni del paese diverse da quella in cui hanno operato come miliziani; gli ex combattenti possano avere, come alternativa realistica alla loro integrazione nell’esercito, un’opportunità di occupazione a lungo termine nel settore civile.
Includere le organizzazioni della società civile, in particolare i gruppi per la difesa dei diritti umani e dei diritti delle donne, nell’elaborazione dei programmi nazionali delle riforme e nei meccanismi di monitoraggio.[22]



[1] Cf Radio Okapi, 26.05.’13

[2] Cf Christophe Boisbouvier – RFI, 26.05.’13

[3] Cf Christophe Boisbouvier – RFI, 27.05.’13

[4] Cf Radio Okapi, 28 e 29.05.’13

[5] Cf Taylor Toeka Kakala – Ips News – Goma, 07.06.’13

[6] Cf Le Phare – Kinshasa, 04.06.’13

[7] Cf Radio Okapi, 04.06.’13

[9] Cf Le Phare – Kinshasa, 04.06.’13

[10] Cf Le Potentiel – Kinshasa, 27.05.13

[12] Cf RFI, 24.05.’13

[13] Cf Radio Okapi, 13.05.’13

[14] Cf Radio Okapi, 28.05.’13

[15] Cf CRI – Kinshasa, 29.05.’13

[16] Cf Radio Okapi, 30.05.’13

[17] Cf Radio Okapi, 04.06.’13

[18] Cf Xinhua – Kinshasa, 06.06.’13 (via mediacongo.net)

[19] Cf Radio Okapi, 06.06.’13

[20] Cf Alfajiri Kivu, Blog du Centre d’analyse politique et stratégique pour l’action – Grands Lacs, 25.05.’13

[21] Cf correspondance particulière