Editoriale Congo Attualità n. 181 – A cura di Rete Pace per il Congo
L’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), soprattutto la provincia del Nord Kivu, appare sempre più come un territorio conquistato e occupato.
Kivu, una colonia ruandese?.
Nel corso di una riunione organizzata, il 18 aprile, dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) a Pretoria, il Ruanda ha chiesto l’attuazione della clausola di cessazione dello statuto dei rifugiati ruandesi residenti all’estero. Tale clausola è inclusa nella Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati e può essere applicata quando, nel paese di origine, ci siano stati dei cambiamenti fondamentali e duraturi che hanno contribuito al miglioramento della situazione e, quindi, alla cessazione delle circostanze che avevano causato l’esodo.
La ministro ruandese per le calamità e i rifugiati, ha tentato di dimostrare che il Ruanda è un paese ritornato alla normalità, in situazione di pace, classificato tra i migliori Stati africani per l’indice di sviluppo umano e che, per questo, non c’è più alcun motivo che giustifichi il ricorso allo statuto di rifugiati da parte di cittadini ruandesi che vivono all’estero come rifugiati.
Le reazioni all’intervento della ministro ruandese non si sono fatte attendere. I partecipanti si sono subito interrogati sulle reali condizioni affrontate dai rifugiati rimpatriati in Ruanda e si sono posti la seguente domanda: se il Ruanda è già un paradiso e se i suoi cittadini rifugiati all’estero vivono ancora in una situazione da inferno, perché non vogliono lasciare l’inferno per andare nel paradiso?
Due sono le conseguenze che deriverebbero dalla’applicazione della clausola di cessazione dello statuto di rifugiati: l’intensificazione del rimpatrio nel paese di origine o l’integrazione locale, mediante “la facilitazione per i rifugiati di ottenere uno status alternativo nei paesi di asilo come, per esempio, la cittadinanza per naturalizzazione”.
Secondo il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, «Se si accettasse questa clausola di cessazione, a un certo punto il Ruanda potrebbe in qualsiasi momento cessare di considerare come propri cittadini tutti i rifugiati ruandesi che si trovano ancora in territorio congolese. Il Ruanda potrebbe dire che non ci sarebbe più alcun rifugiato ruandese nella RDCongo e che tutti coloro che ancora vi si trovassero, dovrebbero essere automaticamente considerati come cittadini congolesi».
In tal modo, il Ruanda risolverebbe, sì, il problema della sua alta densità demografica, versando il surplus della sua popolazione sul Kivu facendone, in qualche modo, una sua colonia, ma il Kivu vedrebbe aumentare sul suo territorio una popolazione ruandofona che, strettamente legata al paese di origine, continuerebbe a destabilizzarlo occupando, spesso abusivamente, le terre degli autoctoni costringendoli ad abbandonare il loro proprio territorio.
Dal punto di vista congolese, la soluzione migliore sarebbe un rimpatrio su base volontaria e nel rispetto della dignità umana e dei diritti umani. Coloro che desiderassero rimanere definitivamente in Congo, dovrebbero fare di tutto per inserirsi nella società locale, rispettandone la lingua, la cultura e le leggi e contribuendo, con il proprio lavoro, al benessere di tutto il popolo congolese di cui sono diventati membri. Va inoltre sottolineato un elemento che potrebbe essere fonte di conflittualità: la nazionalità congolese non potrà essere conferita automaticamente e in forma collettiva, ma dovrà sempre essere richiesta individualmente, secondo la legislazione in vigore.
Kivu, un territorio conquistato e occupato.
Il Movimento del 23 marzo (M23), un gruppo armato appoggiato logisticamente e militarmente da due Paesi limitrofi, il Ruanda e l’Uganda, ha presentato una proposta di accordo con il governo congolese, in cui rivendica:
– il riconoscimento, da parte del governo, di tutti gli atti politici e amministrativi posti nelle entità territoriali sotto suo controllo,
– la dichiarazione, da parte del governo, dell’est della RDCongo (Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri, Haut-Uele, Maniema e Tanganica) come “zona disastrata”, a causa delle ricorrenti guerre che hanno portato alla distruzione delle infrastrutture e del tessuto sociale ed economico. Come tale, la zona dichiarata disastrata dovrà usufruire di “un speciale statuto amministrativo”, di “un piano speciale di sviluppo”, di “una grande autonomia fiscale e finanziaria” e di “un specifico piano operativo di sicurezza”.
– il mantenimento delle sue truppe, l’Esercito Rivoluzionario del Congo (ARC), sul posto, per condurre operazioni militari, per un periodo di cinque anni rinnovabili, contro i gruppi armati stranieri (FDLR, LRA, ADF-NALU, FNL), fino al loro disarmo totale e al loro rimpatrio.
Si tratta di proposte che rivelano chiaramente le reali intenzioni dell’M23: mantenere l’est del Paese sotto la sua occupazione politica e militare, mediante il consolidamento della sua amministrazione e del suo esercito. Ma non è tutto. L’M23 esige anche l’integrazione e la partecipazione dei suoi membri politici alla gestione delle istituzioni nazionali: Governo centrale, Diplomazia, governi provinciali, imprese pubbliche, Stato Maggiore Generale. Come i precedenti movimenti ribelli appoggiati dal Ruanda (AFDL, RCD E CNDP), anche l’M23 ha adottato la strategia della “infiltrazione” fino ai livelli più alti dello Stato, violando la sua Costituzione e mettendo in pericolo, in tal modo, la sua sovranità nazionale e la sua integrità territoriale.
L’M23 spinge il suo sarcasmo fino all’estremo quando rivendica l’amnistia per i suoi membri, nonostante i gravi crimini (massacri, stupri, furti, …) commessi contro le popolazioni civili.
L’M23 si discredita quando dice di voler trasformarsi in partito politico riservandosi il diritto di cambiare nome e di non ricorrere più alle armi. Anche il CNDP, da cui proviene, l’aveva già sottoscritto il 23 marzo 2009 senza, pertanto, mantenere gli impegni assunti. Nessuno può credere alle parole dell’M23, anche quando parla di riconciliazione nazionale, diritti umani, gratuità dell’insegnamento primario, elezioni democratiche, giustizia, pace. Parole sacre per loro natura, pronunciate dall’M23, esse si ritorcono inesorabilmente contro di lui, fino al punto che si vede costretto a mendicare la “penalizzazione di atti, parole, atteggiamenti ed espressioni che, in qualche modo, possano trasmettere pensieri xenofobi, razzisti, tribali e discriminatori”.
Kivu, resistenza e speranza.
Nonostante appaia ancora forte per gli appoggi esterni e le complicità interne, l’M23 è già stato giudicato e condannato dal Popolo congolese e dalla Storia. L’arresto di Bosco Ntaganda, il suo trasferimento alla Corte Penale Internazionale e l’iscrizione del nome di Sultani Makenga e di tanti altri membri dell’M23 sulla lista delle persone oggetto di sanzioni da parte dell’Onu sono segni premonitori che annunciano l’inizio della fine dell’M23 stesso e che infondono, nell’animo del Popolo congolese, il coraggio della resistenza e la forza della speranza.