INDICE:
EDITORIALE: Per la Pace, il cambiamento!
1. KIVU
a. News
b. Vivere nelle zone ribelli del Nord Kivu
c. L’M23
d. Uomini armati attaccano la residenza del Dott. Denis Mukwege a Bukavu
e. Creazione di nuovi gruppi armati
2. LA CIRGL
3. LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
4. UN GIOVANE CONGOLESE ANALIZZA LA SITUAZIONE DEL SUO PAESE
EDITORIALE: Per la Pace, il cambiamento!
1. KIVU
a. News
Il 19 ottobre, verso le 21h00 locali, alcuni uomini armati hanno sequestrato tre sacerdoti a Mbau, situato a 20 chilometri dalla città di Beni, nel Nord Kivu. Secondo fonti locali, si tratta dei Padri Assunzionisti Jean Pierre Ndulani, Edmond Kisughu e Anselme Wasukundi, della parrocchia cattolica di Nostra Signora di Mbau. Gli aggressori non sono stati ancora identificati. Il sequestro non è ancora stato rivendicato. Fonti indipendenti della regione lo attribuiscono ai ribelli ugandesi dell’ADF / NALU, attivi in questa zona.[1]
Il 21 ottobre, il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, ha evocato, in un comunicato, un “cambiamento” nell’orario di apertura e chiusura delle frontiere tra Goma (città congolese) e Gisenyi (città ruandese). I posti di frontiera della Grande e Piccola barriera rimangono aperti dalle 6.00 fino alle 18.00, ora locale. Da quasi un anno, tali frontiere erano aperte 24 ore su 24, in “fase sperimentale”, in seguito ad una raccomandazione della Comunità Economica dei Paesi dei Grandi Laghi Paesi (CEPGL), con l’obiettivo ufficiale di rilanciare le attività economiche tra Burundi, Ruanda e RDCongo. La società civile del Nord Kivu si compiace della decisione. Il suo portavoce, Omar Kavota, ritiene che la misura potrebbe contribuire a proteggere maggiormente la città di Goma.[2]
b. Vivere nelle zone ribelli del Nord Kivu
Il movimento ribelle del 23 Marzo (M23) controlla una parte del territorio di Rutshuru, situato nel Nord Kivu. Sono oltre 300.000 gli sfollati e rifugiati a causa dei combattimenti tra l’esercito nazionale e l’M23. Gli abitanti di questa vasta regione agricola che vivono della cultura di frutta e verdura e dell’allevamento di capre e mucche, denunciano, con discrezione, estorsioni, stupri e saccheggi. «I militari dell’M23 stuprano le nostre mogli e le nostre figlie. Saccheggiano le nostre capre e quelle poche cose che abbiamo nelle nostre case», si lamenta un abitante di Rugari. «Accompagno mia figlia al campo di Kanyarucinya, dove vivono mia moglie e i miei figli: anche delle bambine sono violentate», ha aggiunto un altro abitante di Rugari che porta due grandi sacchi di carbone sulla bicicletta, aiutato da un amico e da sua figlia.
Nel capoluogo della regione del Nord Kivu, Goma, Justin Paluku, ostetrico-ginecologo presso l’ospedale Heal Africa, ha affermato che, dall’inizio dell’anno, sono state violentate circa 5.000 donne. Oltre alle violenze sessuali, l’ONG per i diritti umani, Human Right Watch, accusa l’M23 di reclutare bambini soldato e di procedere ad esecuzioni sommarie. Reporter Senza Frontiere e Giornalisti in Pericolo denunciano il “clima di insicurezza” in cui i giornalisti locali svolgono il loro lavoro.
Di fronte alle numerose critiche, l’M23 cerca, invano, di offrire un’apparenza di fiducia. A Rutshuru, alcuni pannelli dell’M23 annunciano in francese, inglese, swahili e Kinyarwanda la “Lotta contro la corruzione”. Sono state eliminate alcune tasse e imposte “illegali”, ma è stato introdotto un nuovo sistema di pedaggio. «5 $ per un minibus, 20 $ per una camionetta e 50 $ per i camion di grandi dimensioni», ha affermato Benjamin Mbonimpa, l’amministratore del territorio, designato in luglio scorso dall’M23.
Per le strade di Rutshuru, l’ambiente sembra tranquillo, ma «la gente ha paura a causa di ciò che è successo … Non ha fiducia», sussurra un commerciante della città.[3]
A Nkwenda (Nord Kivu), un villaggio occupato dai ribelli dell’M23 dall’inizio di ottobre, il capo del villaggio ha affermato: «Di giorno, i loro ufficiali fanno in modo di lasciarci in pace. Ma di notte, è l’inferno. Uomini in divisa, non identificati, arrivano da ogni parte per violentare le nostre donne e saccheggiare le nostre case. Nessuno ci protegge».
Sono i più deboli a pagare il prezzo più alto, come Mwannita, di 15 anni e allieva di quinta. Sdraiata su una stuoia, con una mano sullo stomaco, esita a parlare. Poi, con voce lontana, racconta: «Erano le 2:00 del mattino. Dormivamo. Due soldati hanno forzato la porta e mi hanno detto: “Se non ti lasci fare, uccidiamo i tuoi genitori”. Mia madre mi ha pregato di non opporre resistenza. Mi hanno presa, uno dopo l’altro. Quando hanno finito, prima di partire, mi hanno detto: “Ritorneremo”». Con gli occhi pieni di lacrime, Mwannita si è richiusa nel suo silenzio. Dall’inizio della settimana, è la quinta ragazza del villaggio ad essere violentata.
Di fronte a casa sua, Innocent, 22 anni, dice: «Due notti fa, alcuni uomini mi hanno detto che, se non aprivo la porta, avrebbero bruciato la casa. Ho aperto. Mi hanno picchiato con il calcio del fucile, poi hanno rubato tutti i miei beni: i miei soldi, il mio telefono, i miei attrezzi. Da allora, non appena cala la notte, alle 18:00, vado con la mia famiglia a dormire in foresta».
A Rutshuru, la prima grande città caduta nelle mani dell’M23, nel cuore del parco dei Virunga, l’atmosfera è più calma. Poche persone in strada, alcuni soldati in pattuglia. Tre soldati sono seduti all’ombra nella pistola, con un fucile mitragliatore tra le gambe e munizioni alla cintura. Uno di loro, Celestin, 21 anni, ha un volto da ragazzo e parla inglese: «Sono militare dal 2001. Ero nell’esercito governativo. Poi sono entrato nell’M23. Condivido il suo obiettivo di guerra: rovesciare Kabila e costruire un Congo più giusto». Al suo fianco, un altro ragazzo ascolta, ma senza capire. Non deve avere più di 16 anni. Un ufficiale si avvicina e minaccia: «Lasciateli stare. A Rutshuru si può fare di tutto, tranne che parlare con i nostri soldati».
In strada, molti negozi sono chiusi. Justin, 18 anni, attende i clienti da dietro il banco. «I miei genitori non hanno i soldi per pagare le tasse scolastiche, allora cerco di sbrogliarmela. Vendo piccole cose ma, da quando è arrivato l’M23, tutti hanno paura», dice. «Di notte, c’è il coprifuoco. Se ti catturano, ti fanno fuori», afferma sottovoce, facendo attenzione a che nessuna senta. «Cercano i giovani: li prendono e, se i loro genitori non possono pagare il riscatto, li obbligano ad integrarsi nelle loro truppe. A vari miei amici è successo così», dice.
A Bunagana, diventata una città fantasma, prima di notte, la maggior parte delle rare persone che vi sono rimaste attraversano il confine, per andare a dormire in Uganda. «Durante il giorno, non c’è nessun problema, ma di sera, siamo totalmente in balia dei soldati che hanno bevuto e vanno in cerca di donne o di denaro. È pericoloso dormire qui», dice un abitante. Al calar della notte, l’ultimo posto ancora aperto è il bar Adidja: i capi della ribellione vi si ritrovano per un’ultima birra o una partita a biliardo.
Il giorno dopo, sotto un sole intenso, ognuno riprende le sue attività: i soldati (tra i quali, molti adolescenti) pattugliano la città, i commercianti aspettano i clienti, le donne vanno nei campi. In strada, si ferma una macchina con i vetri oscurati: scende un uomo, un civile. È il “ministro del commercio e dell’industria”, André Paluku Patandjila, uno dei membri del governo parallelo istituito dall’M23 nella zona sotto suo controllo dal mese di luglio. Nato nel 1963, laureato in ingegneria informatica, ha dichiarato: «Ci stiamo preparando per prendere Goma, poi marceremo su Bukavu e arriveremo fino a Kinshasa. I nostri uomini hanno servito nell’esercito di Kabila. Ne conoscono le debolezze. Nulla ci potrà fermare». La linea del fronte tra l’M23 e l’esercito governativo è a soli 30 km da Goma.
La ribellione dell’M23 si riferisce al 23 marzo 2009, quando il governo della RDCongo e il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) hanno firmato un accordo di pace che prevedeva, tra l’altro, l’integrazione dei militari del CNDP, nell’esercito congolese. Alcuni di questi soldati si siano ammutinati in nome del “non rispetto” degli accordi del 23 marzo da parte del Governo. In realtà, essi hanno disertato l’esercito, quando il Presidente Joseph Kabila ha voluto trasferirli in altre province del Paese e arrestare il loro capo, l’allora colonnello Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte Penale Internazionale (CPI), per crimini contro l’umanità.[4]
È grande la tentazione di disinteressarsi di quel conflitto che, da due decenni, devasta la RDCongo e, soprattutto, la sua parte orientale. Sembra così lontano, così complesso. Molti problemi e ingerenze si intrecciano gli uni con le altre. Vi è l’eredità della dittatura di Mobutu (1965-1997), predatrice e corruttrice. Il conflitto è anche una delle conseguenze del genocidio del 1994, commesso in Ruanda, appena al di là del confine. A livello internazionale, sullo sfondo c’è la rivalità tra francofoni e anglofoni, una forma moderna del “grande gioco” coloniale del passato tra Francia e Inghilterra, mentre appare in scena un nuovo attore, la Cina. La tragedia è ancora più scandalosa, in quanto questa regione della RDCongo avrebbe molte opportunità di crescere, con un terreno fertile e un sottosuolo ricco di minerali. Ma ciò che potrebbe essere una fortuna, è diventato una maledizione, poiché queste ricchezze alimentano i conflitti, in quanto le diverse fazioni si disputano il controllo dei giacimenti, minerari e petroliferi, per favorire arricchimenti personali e finanziare l’acquisto di armi.
Ed è qui che questo conflitto considerato tanto distante, diventa improvvisamente molto vicino. Uno dei principali minerali estratti nell’est della RDCongo è il coltan, usato nella fabbricazione dei condensatori di sofisticate apparecchiature elettroniche, come i computer o i telefoni cellulari. In tal modo, questi dispositivi elettronici a noi così familiari, ci legano simbolicamente a questa regione martire. Sarebbe tempo di istituire, anche per il coltan, un sistema di certificazione, simile a quello del “processo di Kimberley” che ha contribuito, anche se solo in parte, a frenare il commercio di diamanti legato alle guerre africane.[5]
c. L’M23
Il 18 ottobre, il Presidente Nazionale dell’Associazione africana per la difesa dei diritti dell’uomo (ASADHO), Jean-Claude Katende, ha dichiarato che «è necessario che il governo metta fine alla tregua e attacchi il Movimento del 23 marzo (M23)». Secondo lui, se l’esercito non riesce a sconfiggere i ribelli dell’M23, essi continueranno a organizzarsi militarmente. «Stanno riscuotendo tasse e imposte. Si arricchiscono per armarsi meglio», si lamenta Jean-Claude Katende. Secondo lui, il governo dovrebbe rompere anche le relazioni diplomatiche con il Ruanda, accusato di sostenere questo gruppo armato: «Sarebbe un segnale forte che il governo invierebbe al Ruanda per disapprovare l’aggressione del nostro Paese».[6]
Il 19 ottobre, Giornalisti in Pericolo (JED) e Reporter Senza Frontiere (RSF) hanno denunciato le minacce proferite contro dei giornalisti nelle zone sotto controllo dei ribelli del Movimento del 23 Marzo (M23). In un comunicato stampa, queste organizzazioni per la difesa della libertà di stampa indicano che Jean Baptiste Kambale, direttore di Radio Comunità Ushirika (Racou) che emette a Rutshuru, è stato oggetto di minacce da parte dei ribelli. Secondo Jed e RSF, Jean Baptiste Kambale ricevuto tali minacce dopo la diffusione di una serie di servizi di TV5 Monde, di cui avrebbe facilitato la realizzazione, sulle violazioni dei diritti umani commesse dalle truppe dell’M23 a Rutshuru. L’amministratore di Rutshuru avrebbe telefonato al giornalista, minacciandolo di morte, dicendogli: «Hai portato i bianchi a Rutshuru per criticarci. Sai che noi siamo dei ribelli. Per noi, uccidere qualcuno non è affatto un problema». Il segretario generale di JED, Tshivis Tshivuadi, ha fermato che, «da quando ha ricevuto tali minacce, Jean Baptiste vive in clandestinità», ha aggiunto che molti altri giornalisti della radio sono vittime di molestie e chiede ai leader politici dell’M23 di condannare pubblicamente le minacce espresse dall’amministratore del territorio e dal portavoce del movimento nei confronti di Jean Baptiste Kambale.[7]
Il 20 ottobre, il presidente dell’M23, Jean-Marie Runiga, ha annunciato che l’ala militare dell’M23 (l’esercito nazionale congolese – ANC) è ora denominato “Esercito Rivoluzionario del Congo (ARC)”, che il colonnello Sultani Makenga passa da comandante a “generale di brigata” e che l’M23 è pronto a rispondere a qualsiasi attacco da parte delle forze lealiste. Runiga ha fatto tale dichiarazione a Bunagana, una cittadina presso la frontiera con l’Uganda, da dove era appena tornato. Aveva espresso le sue rimostranze al presidente ugandese Yoweri Museveni, mediatore nella crisi, rammaricandosi che i negoziati con i rappresentanti del governo congolese siano rimasti a livello “indiretto”.
Ha affermato che «gli incontri erano volti a ingannare la vigilanza dell’M23, facendogli credere a una possibile trattativa, mentre Kinshasa sta riorganizzando il suo esercito, integrando nuove unità», composte di vari gruppi armati, locali e stranieri. In particolare, egli ha menzionato una collaborazione del Governo con le Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda (FDLR). «Stiamo assistendo al rafforzamento delle posizioni delle FARDC sulla linea del fronte. Inoltre, le FARDC e le FDLR si stanno preparando per ciò che hanno chiamato “l’assalto finale” contro le nostre posizioni», ha detto Jean-Marie Runiga, che ha minacciato: «Chiediamo al governo di fermare ogni tentativo di riprendere la guerra e di venire al tavolo dei negoziati. In caso contrario, l’M23 si difenderà».[8]
I cambiamenti di sigle dei movimenti ribelli sono legione nella RDCongo. È un’abitudine che rivela i vari cambiamenti di alleanze tra gruppi armati, ma anche la volontà di far scomparire le loro tracce, quando le circostanze lo richiedono. L’ANC era, in effetti, il “braccio armato” dell’ex CNDP, un ex movimento ribelle da cui è sorto l’M23. L’ANC, tuttavia, non era più rappresentativo delle numerose alleanze strette dall’M23 con altri gruppi armati del Nord Kivu. La creazione dell’ARC risponde, quindi, ad una nuova situazione militare. L’esercito rivoluzionario congolese, la nuova struttura, tiene quindi conto dei nuovi alleati dell’M23. In questa lista, non completa ci sono molti gruppi di autodifesa congolesi, come i Pareco (Patrioti Resistenti Congolesi), i Mai-Mai Kifuafua, i Mai-Mai La Fontaine o i Mayi-Mayi Raïa Mutomboki. Se l’alleanza di questi gruppi eterocliti può sembrare “di circostanza”, tutti però hanno almeno un punto in comune: la lotta contro il regime di Joseph Kabila e la volontà di rovesciarlo.
La nomina del colonnello Sultani Makenga al rango di “generale di brigata” è un modo per ufficializzare la leadership di Makenga sugli altri gruppi armati, comandati da molti “colonnelli”.
La creazione dell’ARC e la promozione di Makenga al grado di generale di brigata costituiscono due segnali forti nei confronti di Kinshasa che non ha ancora accettato di iniziare trattative a Kampala. Primo segnale: l’M23 ha degli alleati che possono seguirlo nel caso in cui le cose vadano male sul piano militare. Secondo segnale: Sultani Makenga e i militari dell’M23 sono i veri capi della coalizione e sono pronti a combattere con decisione contro Kinshasa.[9]
Il 22 ottobre, sette deputati nazionali della circoscrizione di Masisi, nel nord Kivu, chiedono al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di rafforzare la sua missione nella RDCongo (la MONUSCO) e di «cambiare il suo mandato, per consentirle di far fronte ai ribelli del Movimento del 23 marzo, delle FDLR e degli altri gruppi armati locali». Nella loro dichiarazione letta dal loro rappresentante, Shomwa Mongera Innocent, i parlamentari del Masisi affermano che la guerra dell’M23, la persistenza delle FDLR e dei gruppi armati locali costituiscono un grande ostacolo per la sicurezza e lo sviluppo del loro territorio.[10]
d. Uomini armati attaccano la residenza del Dott. Denis Mukwege a Bukavu
Il 25 ottobre, verso le 19h30 locali, a Bukavu (Sud Kivu), quattro uomini armati hanno attaccato la residenza del Dott. Mukwege, direttore sanitario dell’ospedale di Panzi, che accoglie le donne vittime di violenze sessuali. Dopo aver ucciso la sentinella, gli aggressori sono fuggiti a bordo dell’auto dello stesso Mukwege. La vettura è stata ritrovata, incendiata, la mattina successiva in una strada del quartiere di Kadutu. Il dott. Mukwege è il direttore sanitario dell’ospedale di Panzi che offre gratuitamente cure mediche e sostegno psicologico alle vittime di violenze sessuali commesse nelle province del Nord e Sud Kivu da miliziani di gruppi armati e da militari dello stesso esercito nazionale. Egli è ben noto per le sue prese di posizione contro la guerra nell’est della RDCongo e l’uso dello stupro come arma di guerra. Nel suo discorso del 25 settembre alle Nazioni Unite e nella sua ultima conferenza, a Bruxelles la sera del 22 ottobre, era stato particolarmente esplicito, denunciando gruppi armati, la violenza legata allo sfruttamento economico e l’impotenza delle autorità di Kinshasa.
Nel 2011, era stato insignito del premio internazionale Re Baldovino per lo Sviluppo. Nel 2009, l’ambasciatore francese nella RDCongo, Pierre Jacquemot, gli conferì le insegne della Legione d’Onore. Nel 2008, aveva ricevuto il Premio Olof Palme, istituito in memoria dell’ex primo ministro svedese Olof Palme. Su Facebook, è stata creata una pagina (Une page) per chiedere che il Premio Nobel per la Pace nel 2013 sia assegnato al chirurgo congolese.[11]
Il 27 ottobre, nel corso della mattinata, il dottor Dénis Mukwege e la sua famiglia hanno lasciato Bukavu. Sono stati accompagnati all’aeroporto di Kavumu da caschi blu della MONUSCO. «Sono stati evacuati per motivi di sicurezza e su richiesta dei suoi amici occidentali», ha dichiarato una fonte prossima alla famiglia.
In una dichiarazione, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha condannato l’attacco e ha chiesto al governo congolese di «garantire la sicurezza di Mukwege e della sua famiglia» e di «fare tutto il possibile per individuare gli autori di questo attacco e consegnarli alla giustizia».
Il ministro degli esteri belga, Didier Reynders, ha condannato l’attacco che dice di avere appreso “con orrore”. «La violenza sessuale è inaccettabile. Il fatto che con questo attacco si sia tentato di zittire questo medico, in modo che gli autori possano continuare, indisturbati, a terrorizzare la popolazione, non può essere tollerato in alcun modo», ha affermato il ministro belga in un comunicato.[12]
Il 1° novembre, il dott. Mukwege ha tenuto una conferenza stampa a Stoccolma, in Svezia, dov’è attualmente rifugiato. Nel suo discorso, il medico è rapidamente ritornato su ciò che lo preoccupa di più: le donne del Sud Kivu del tutto sconvolte da anni di guerra. Con rammarico, egli ha affermato che «non basta garantire solo la mia sicurezza. I miei pensieri vanno alle migliaia di donne che soffrono terribilmente ogni giorno nei loro corpi e nelle loro menti» e ha continuato: «Ora capisco meglio. Capisco il loro dolore e la loro sofferenza». Ha approfittato della conferenza stampa per denunciare «il “grave problema dell’impunità in Congo” e la “mancanza di volontà da parte dei politici della regione dei Grandi Laghi”» e ha «invitato “il governo congolese a fare il suo dovere”: proteggere la propria popolazione. Si è preteso costruire la pace sacrificando la giustizia. Ma oggi non c’è né pace, né giustizia. Si è cercato di costruire un esercito nazionale sulla base di gruppi armati che hanno violentato, distrutto, saccheggiato e ucciso. Questo tipo di esercito non potrà mai essere operativo. Non possiamo continuare ad assistere, impotenti, ai massacri degli innocenti. La mia sicurezza è una buona cosa. Ma credo che tutta la popolazione abbia bisogno di sicurezza. Ne ha il diritto. Le autorità devono assumersi tutta la loro responsabilità con la dovuta serietà». Uomo di pace, non poteva concludere il suo discorso senza invitare «il personale dell’ospedale di Panzi di Bukavu a rispondere alla violenza con l’amore».
Se le autorità congolesi assicurano che le indagini sull’attacco al ginecologo sono in corso (Marcellin Chissambo, governatore del Sud Kivu, ha assicurato che “la polizia è sulle tracce di coloro che hanno attaccato la residenza di Mukwege”), il principale interessato afferma di non essere ancora stato interrogato: «Finora, né me, né i miei figli, né i testimoni che erano in casa, non siamo ancora stati interrogati dalla polizia». E conclude: «Non c’è alcuna voglia di fare un’inchiesta. Com’è possibile farla senza interrogare coloro che hanno personalmente vissuto la tragedia?».[13]
Discorso del dr. Denis Mukwege alle Nazioni Unite, il 25.09.2012.
Eccellenze, signori Ambasciatori,
mi sarebbe piaciuto cominciare il mio discorso con la solita formula: “Ho l’onore e il privilegio di prendere la parola davanti a voi”.
Ahimè! Le donne vittime di violenza sessuale all’est della Repubblica Democratica del Congo sono nel disonore. Ho costantemente sotto i miei occhi lo sguardo delle anziane, delle ragazze, delle madri e persino delle bambine disonorate.
Ancora oggi molte sono sottoposte a schiavitù sessuale; altre sono utilizzate come arma di guerra. I loro organi sono esposti alle più ignobili sevizie.
E questo dura da 16 anni! 16 anni di errori; 16 anni di torture; 16 anni di mutilazioni; 16 anni di distruzione della donna, la sola risorsa vitale congolese; 16 anni di distruzione di una società intera. Certo, i vostri rispettivi stati hanno fatto molto in termini di presa in carico delle conseguenze di queste barbarie. Ne siamo molto riconoscenti.
Avrei voluto dire “ho l’onore di far parte della comunità internazionale che voi rappresentate qui”. Ma non posso.
Come dirlo a voi, rappresentanti della comunità internazionale, quando la comunità internazionale ha dato prova di paura e mancanza di coraggio durante questi 16 anni in Repubblica Democratica del Congo.
Avrei voluto dire “ho l’onore di rappresentare il mio paese”, ma non posso.
Infatti come essere fieri di appartenere ad una nazione senza difesa, abbandonata a se stessa, saccheggiata da tutte le parti ed impotente di fronte a 500.000 delle sue ragazze violentate in 16 anni, 6.000.000 di morti tra i sui figli e figlie in 16 anni senza alcuna prospettiva di soluzione durevole.
No, non ho né l’onore né il privilegio di essere qui oggi. Il mio cuore è pesante.
Il mio onore è d’accompagnare queste coraggiose donne vittime di violenza; queste donne che resistono, queste donne che malgrado tutto restano in piedi.
Oggi grazie al rapporto degli esperti delle Nazioni Unite, al rapporto Mapping dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e molti altri rapporti credibili, nessuno può nascondersi dietro l’argomento della complessità della crisi. Ormai dunque conosciamo le motivazioni di questa crisi e i suoi diversi attori. Quella che manca è la volontà politica.
Ma fino a quando? Fino a quando dobbiamo ancora assistere impotenti ad altri massacri?
Eccellenze, signori ambasciatori: è con grande umiltà che vi dico ciò.
Non abbiamo bisogno di più prove, abbiamo bisogno d’azione, un’azione urgente per arrestare i responsabili di questi crimini contro l’umanità e tradurli davanti alla giustizia. La giustizia non è negoziabile. Abbiamo bisogno della vostra condanna unanime dei gruppi ribelli che sono responsabili di questi atti, abbiamo bisogno di azioni concrete contro gli stati membri delle Nazioni Unite che sostengono da vicino o da lontano queste barbarie. Siamo davanti ad una urgenza umanitaria che non lascia più spazio alla tergiversazione. Tutti gli ingredienti sono riuniti per mettere fine ad una guerra ingiusta che ha utilizzato la violenza contro le donne e lo stupro come una strategia di guerra. Le donne congolesi hanno diritto alla protezione esattamente come tutte le donne di questo pianeta.
Accantonare tutti questi rapporti significherebbe minare gravemente la credibilità delle diverse risoluzioni delle Nazioni Unite che esigono la protezione delle donne in periodo di conflitto e dunque screditare la nostra cara istituzione, che dovrebbe garantire la non ripetizione del genocidio.
Le conquiste della civiltà regrediscono. Regrediscono a causa di nuove barbarie in Siria come in Repubblica Democratica del Congo; ma anche per il silenzio assordante e la mancanza di coraggio della comunità internazionale.
Non possiamo tacere la verità perché essa è ostinata, dovremmo piuttosto affrontarla per evitare di tradire i nostri ideali.
Ho l’onore di dire che il coraggio delle donne vittime di violenza sessuale all’est del Congo finirà per vincere il male. Aiutatele a ritrovare la pace! Vi ringrazio.
Denis Mukwege[14]
e. Creazione di nuovi gruppi armati
Nello spazio territoriale ambito dal Ruanda e dall’Uganda, all’Est della RDCongo, si nota ultimamente una rinascita di nuovi gruppi armati. A differenza dei gruppi di resistenza congolesi che per definizione si battono contro l’occupazione ruandese e ugandese, questi nuovi gruppi armati combattono piuttosto contro l’esercito congolese e la popolazione civile, proprio come l’M23 e il CNDP, prima di lui. Come molti Congolesi l’hanno già denunciato, il nuovo piano dell’M23 è di armare le milizie tribali per opporle le une contro le altre, per dimostrare che il conflitto nell’Est della RDCongo è una questione prettamente congolese. Tuttavia, questi nuovi gruppi armati, che continuano oggi la guerra dell’M23 con altri protagonisti e altri mezzi, non sono, in realtà, che pedine nelle mani del Ruanda e dell’Uganda.[15]
Il 20 ottobre, nel territorio di Beni (Nord Kivu), è nato un nuovo movimento politico-militare denominato “Unione per la Riabilitazione della Democrazia in Congo” (URDC). Il colonnello Jaques Tahanga Nyolo, disertore dall’esercito congolese, ne è il coordinatore e portavoce militare. I dirigenti dell’URDC sono degli ufficiali ex APC, l’ex ala armata del RCD-KML. Il colonnello Jaques Tahanga Nyolo ha affermato che il suo movimento politico-militare è basato sulle montagne del Ruwenzori e del Graben, nel territorio di Beni, nel Nord Kivu e che rivendica la riabilitazione della democrazia e della verità delle urne e il miglioramento delle condizioni sociali dei militari e della popolazione. Nella sua dichiarazione, Jacques Tahanga Nyolo ha riconosciuto dei contatti tra l’URDC e la ribellione dell’M23. Ha precisato che il generale autoproclamato Hilaire Kombi è il Comandante delle operazioni militari. All’inizio della settimana precedente, era stata segnalata la creazione di un altro nuovo gruppo armato, nel raggruppamento Baliga, territorio di Shabunda (Sud Kivu). Denominato “Rahiya Mukombozi” (Il popolo liberatore), si tratta di una delle fazioni dei Rahiha Mutomboki (Il popolo in collera) che si disputano il controllo di alcuni siti minerari in questa parte della provincia. I dirigenti di questo nuovo gruppo armato avrebbero intenzione di combattere i loro ex compagni e prendere il controllo del territorio di Shabunda. I Raia Mutomboki pretendono di essere una milizia di autodifesa per la lotta contro i ribelli ruandesi delle FDLR.[16]
2. LA CIRGL
Il regime di Kampala ha fatto sapere che potrebbe sospendere immediatamente la sua mediazione nella crisi congolese tra il governo di Kinshasa e i ribelli dell’M23, nel caso in cui il Comitato per le sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu confermasse le accuse portate contro di lui nel rapporto finale del gruppo degli esperti delle Nazioni Unite, circa il suo appoggio militare, finanziario e logistico alla ribellione dell’M23. Il Ministro ugandese degli Affari Esteri, Asuman Kiyingi, è andato anche oltre, insistendo che il suo paese ritirerebbe la sua mediazione tra il governo di Kinshasa e l’M23 nel caso in cui il comitato per le sanzioni del Consiglio di sicurezza proponesse sanzioni contro lo stesso movimento ribelle del 23 Marzo. «Non possiamo riunire le due parti al tavolo dei negoziati se una viene punita e l’altra no», ha affermato. Asuman Kiyingi sottolinea che le accuse degli esperti delle Nazioni Unite hanno gravemente danneggiato l’immagine dell’Uganda come mediatore neutrale. Benché a Kinshasa, le autorità neghino l’esistenza di colloqui diretti o indiretti con l’M23, Kampala conferma che già si sta lavorando per un nuovo dialogo congolo-congolese.[17]
Il 23 ottobre, il primo ministro congolese, Augustin Matata Ponyo, ha ritenuto “quasi ipotetica” la possibilità di una soluzione regionale alla crisi nell’est della RDCongo. Il capo del governo l’ha affermato nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles, in Belgio. Matata Ponyo giustifica il suo punto di vista per il fatto che alcuni protagonisti della sub-regione dei Grandi Laghi siano coinvolti nella guerra dell’est del suo Paese. «Si parla di una soluzione regionale. Ma quale può essere il contributo di una soluzione a livello regionale quando, in questa stessa sub-regione, coloro che dovrebbero fornire la soluzione sono, a loro volta, coinvolti nel conflitto?», si è chiesto. Leggendo tra le righe di questa dichiarazione coraggiosa, alcuni analisti si chiedono se non sia un’implicita manifestazione di disaccordo emessa da Kinshasa nei confronti della CIRGL. Per il Primo ministro congolese, la soluzione a questa crisi consiste nel rafforzamento della forza delle Nazioni Unite già presente in RDCongo: «Occorre pensare a una soluzione che preveda una MONUSCO rafforzata, rimodellata, ridispiegata e capace di [provare] l’intrusione di forze straniere per destabilizzare la RDCongo».
Alcuni osservatori criticano il Primo ministro per aver perso l’occasione (d’oro) per porre il problema del rinforzamento delle FARDC, un impegno preso da tutti i partner occidentali sin dai tempi di Sun City. La RDCongo, ha più che mai bisogno di un esercito nazionale, repubblicano, professionale e dissuasivo.
Deplorando la recente nomina del Ruanda al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come membro non permanente, il capo del governo ha chiesto alla comunità delle nazioni ad assumersi le proprie responsabilità e punire gli aggressori della RDCongo. «La storia ricorderà che un paese ha fatto parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite quando, nello stesso tempo, le Nazioni Unite avevano già constatato la sua responsabilità nella destabilizzazione di un altro paese», ha avvertito Matata Ponyo, aggiungendo: «l’ammissione del Ruanda come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza è una negazione dei principi delle Nazioni Unite, e quindi un fallimento delle Nazioni Unite stesse».[18]
Il 25 ottobre, i ministri della difesa dei paesi membri della Conferenza Internazionale sulla Regione dei Grandi Laghi (CIRGL) hanno approvato, a Goma, il piano operativo della forza internazionale neutra che dovrà essere dispiegata alla frontiera tra la RDCongo e il Ruanda, per combattere i gruppi armati attivi nell’est della RDCongo. Il piano è stato preparato dai 22 esperti militari della sub-regione, incaricati di valutare le capacità offensive dei vari gruppi armati, stranieri e nazionali, attivi nella parte orientale della RDCongo. Questo piano sarà reso pubblico in occasione del prossimo vertice dei capi di Stato dei Grandi Laghi.
Per il ministro congolese della Difesa, Alexandre Luba Ntambo, la sua approvazione è «un grande passo verso la soluzione del problema dell’insicurezza che prevale nell’est della RDCongo».
Il ministro congolese ha rivelato che i capi di Stato della sub-regione dovranno «nominare, a breve termine, il comandante della forza e il suo vice, per cominciare a mettere in piedi le strutture di tale forza internazionale». Ma i problemi relativi al finanziamento e alla composizione di questa forza rimangono ancora senza risposta. Solo la Tanzania ha deciso di inviare suoi soldati.
Sono quattro i gruppi armati più presi di mira nel Nord e Sud Kivu: Il Movimento del 23 Marzo (M23), le Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (FDLR), l’Alleanza delle Forze Democratiche – Esercito Nazionale di Liberazione dell’Uganda (ADF-NALU) e le Forze Nazionali di Liberazione (FNL) del Burundi.[19]
3. LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
Il 22 ottobre, l’Unione Europea (UE) ha chiesto alla RDCongo di «accelerare le riforme necessarie per instaurare lo stato di diritto e la democrazia nel paese, in particolare la riforma del settore della sicurezza e del processo elettorale». L’ha detto il presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, dopo l’incontro con il primo ministro congolese, Augustin Matata Ponyo, a Bruxelles: «È interesse dell’Unione Europea fornire un sostegno a stati democratici ben amministrati, che rispettano lo Stato di diritto e i diritti umani e che agiscono per il bene del popolo».
Per quanto riguarda la situazione nella parte orientale del paese, l’Unione Europea ribadisce la sua solidarietà con la RDCongo sul rispetto della sua integrità territoriale e sottolinea che ogni aiuto, soprattutto esterno, all’M23 e agli altri gruppi armati attivi nell’est, deve essere immediatamente bloccato. L’UE invita tutti i paesi della regione a condannare le attività militari dei gruppi armati e chiede alla RDCongo di rafforzare il consenso di base nelle province del Kivu e di consolidare lo stato di diritto in queste province. Inoltre, il presidente del Consiglio europeo incoraggia il dialogo e la ricerca di soluzioni politiche tra la RDCongo e i suoi vicini.[20]
Francamente, ci si trova di fronte ad una situazione delle più ambigue. Le dichiarazioni di appoggio alla causa congolese non fanno che moltiplicarsi. Ma in concreto, nessuno ha il coraggio di sollevare un dito per aiutare il Congo ad uscire dall’impasse. Se si vogliono ottenere risultati concreti nella soluzione della crisi dell’Est del Paese, è necessario prendere, sul piano internazionale, delle misure coercitive. Invece, l’Unione europea preferisce usare un doppio linguaggio che mette i brividi. Da un lato, l’UE dice di sostenere senza riserve il Congo e condanna ogni tipo di appoggio esterno all’M23. Dall’altro, l’UE fa una sfortunata concessione agli aggressori. Infatti, essa fa appello alla responsabilità della RDCongo per rafforzare il “consenso di base” nelle province del Kivu.
Questo tipo di linguaggio è noto e allude chiaramente alle rivendicazioni, per quanto fantasiose possano essere, della comunità tutsi dell’est. Quest’ultima, che si sente emarginata e mal inserita nella società congolese, vi trova il pretesto ideale per giustificare le sue continue guerre. Inserire il tema del consenso nel Kivu è chiaramente riconoscere in parte la validità delle rivendicazioni dell’M23. E, quindi, si vuole una cosa e il suo contrario. Da una parte si vuole condannare l’M23 e, dall’altra, si chiede di tenere conto del loro problema. Questa indecisione della comunità internazionale non contribuirà a cambiare, in positivo, la situazione dell’est della RDCongo.Al contrario, si sta slittando verso una situazione di stallo senza precedenti.[21]
4. UN GIOVANE CONGOLESE ANALIZZA LA SITUAZIONE DEL SUO PAESE
Circa l’attuale situazione del Congo e in modo particolare dell’Est, credo che l’impegno di tanti Congolesi stia contribuendo alla caduta del regime di Kagame che ne è la causa principale. Spero che arrivi anche a quel di Museveni che non è innocente nella situazione che conosce la Regione di Grandi Laghi.
L’elezione del Ruanda al Consiglio di sicurezza pone seri interrogativi sulla vera volontà delle potenze internazionali. Al di là delle numerose dichiarazioni, a livello internazionale c’è un doppio gioco, una complicità, un’ipocrisia politica. Ma ci sono soprattutto debolezze strategiche e morali e incompetenza politica dalla parte dei nostri governi, in particolare qui in Congo.
Qui a Kinshasa, i politici rimangono molto divisi sulla situazione dell’Est. In realtà, nessuno sembra avere un programma o un vero piano politico per la salvezza del Paese. Mentre la maggioranza in questi giorni si batte tanto per mostrare i meriti di Kabila, una buona parte dell’opposizione rimane ferma e accusa il Presidente di far parte del problema, fino a parlare di tradimento da parte sua.
Ci si chiede come mai dopo più di dieci anni al potere, il Presidente non ha messo in piedi un esercito capace di difendere il paese. Ci si interroga sulla natura delle sue relazioni con i ribelli a Est e anche con il Ruanda. Rimane aperta la questione del censimento del popolo: è difficile ora distinguere fra chi è congolese e chi è semplicemente sul suolo congolese.
In occasione del vertice della “francofonia”, la maggioranza si era messo molto in moto per mostrare un’altra immagine del Congo, mentre l’opposizione sembrava preparare qualcosa in segreto dopo tutti i suoi tentativi di impedire l’arrivo del presidente francese François Hollande. Alla fine, la sua venuta e i diversi incontri che ha avuto hanno acceso ancor di più il contrasto fra maggioranza e opposizione.
La crisi politica non troverà presto una soluzione adeguata. Per me, la causa è semplice: c’è una vera crisi di leaders. Chi ha il potere, rifiuta di condividerlo con chi sembra averlo perso con le elezioni. Chi non ha il potere, lo cerca. Il potere rimane la vera causa della lotta fra i nostri politici. Questo farà sì che il Congo rimanga per lungo tempo ancora senza obiettivi comuni per affrontare insieme i veri problemi.
Anche se tutti giurano in nome del popolo e del Paese, la popolazione e il Paese rimangono lontano delle preoccupazioni principali dei politici. Non si sente ancora un cambiamento sociale del popolo, nonostante tutti gli sforzi che il primo ministro sembra fare. I mass media (in grande parte, non ben preparati) stanno con chi ha soldi. Però, anche con mezzi poveri, qualche giornalista cerca di svegliare la coscienza del popolo davanti a un futuro sempre più confuso. La lotta sarà ancora lunga ma la vittoria rimane da sperare. Sì, finché lottiamo, potremo sperare!
Per questa vittoria della giustizia e della pace, le forze esterne al Congo hanno un’importanza molto grande. Ci sono cose che nessun può permettersi di dire da qui senza attirarsi problemi seri e forse anche la morte. Quelli che governano, sanno che non sono ne accettati né amati da buona parte del popolo. Sanno benissimo che non sono al loro posto. Allora, pian piano, la strategia del terrore e la corruzione stanno diventando sempre più un modo di governare.
Più che mai, tuttavia, si osserva anche che nascono gruppi di riflessione per tentare di cambiare le cose. Un loro problema è già la povertà dei loro membri, che per qualche dollaro passano da gruppi di coscientizzazione a gruppi di sostegno o di supporto a tale o tal altro politico che gli da soldi. Un altro problema è la mancanza di unità fra questi gruppi: allora, le azioni molto isolate sono facilmente scoraggiate o non prendono un tenore tale da esercitare una pressione da fare cambiare le cose. Questa mancanza di unità, anche e soprattutto nell’opposizione, facilita molto la maggioranza al potere.
C’è ancora molto da fare. Da dentro come da fuori. Bisogna dire alla diaspora congolese che il loro contributo per il cambiamento delle cose rimane una delle forze preziose che abbiamo nella lotta attuale. Se possono mettersi davvero insieme e fare pressione su diverse istituzioni internazionali, qualcosa può cambiare. Ci vuole una grande pressione su quelli che ci governano: senza di essa, ci opprimeranno ancora per un lungo periodo.
In questo fine mese di ottobre si stanno preparando le celebrazioni per il sedicesimo anniversario dell’assassino di Mons. Christophe Munzihirwa, Arcivescovo di Bukavu (29 ottobre 1996). È necessario che i suoi desideri profondi siano conosciuti da tanti, specialmente dai giovani. È importante conoscere Munzihirwa, perché aveva saputo denunciare i veri problemi del Congo e, soprattutto, aveva indicato varie soluzioni per la pace. A Kinshasa, sta nascendo un gruppo che si ispira a lui: la Fraternité Christophe Munzihirwa. Temo però che tutto si limiti a celebrazioni. È necessario qualcosa di più, ma si fa ancora fatica. La ricerca di un profitto immediato caratterizza ancora una buona parte di gente. Senz’altro, è la conseguenza della fame, della miseria che bisogna combattere. C’è ancora molto da fare!
FIRMA ANCHE TU LA LETTERA
«PER LA PACE NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO, SANZIONIAMO IL RUANDA»
Indirizzata alla Sig.ra CATHERINE ASHTON
Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza
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Per raccogliere firme in formato cartaceo potete richiedere il modulo all’indirizzo info@paceperilcongo.it
Per ampia diffusione.
Grazie!
[1] Cf Radio Okapi, 20.10.’12
[2] Cf Radio Okapi, 22.10.’12
[3] Cf AFP – Rugari, 21.10.’12
[4] Cf Laurent Larcher – La Croix, 21.10.’12 http://www.la-croix.com/Actualite/S-informer/Monde/Vivre-dans-les-zones-rebelles-du-Nord-Kivu-_EG_-2012-10-21-867109
[5] Cf Par Guillaume Goubert – La Croix, 21.10.’12 http://www.la-croix.com/Debats/Opinions/Editos/Le-Kivu-si-proche.-Par-Guillaume-Goubert-_EG_-2012-10-21-867151
[6] Cf Radio Okapi, 18.10.’12
[7] Cf Radio Okapi, 20.10.’12
[8] Cf AFP – Kinshasa, 21.10.’12
[9] Cf Christophe Rigaud – Afrikarabia, 23.10.’12
[10] Cf Radio Okapi, 23.10.’12
[11] Cf Radio Okapi, 26.10.’12
[12] Cf Radio Okapi, 27.10.’12
[13] Cf Vincent Duhem – Jeuneafrique.com, 03.11.’12 ; Guillaume Thibault – RFI, 01.11.’12
[15] Cf Le Palmarès – Kinshasa, 22.10.’12
[16] Cf Radio Okapi, 20.10.’12
[17] Cf Kimp – Le Phare – Kinshasa, 23.10.’12
[18] Cf Radio Okapi, 24.10.’12; Le Potentiel – Kinshasa, 24.10.’12
[19] Cf Radio Okapi, 26.10.’12
[20] Cf Radio Okapi, 23.10.’12
[21] Cf Le Palmarès – Kinshasa, 24.10.’12